Scritta
negli anni 1849-1850, a ridosso della rivoluzione del Quarantotto e del suo
esito negativo, Filosofia della rivoluzione è una riflessione di
Giuseppe Ferrari sulla filosofia che è favorevole alla rivoluzione
(l’illuminismo e soprattutto l’empirismo lockiano) e il suo avversario (il
pensiero d’ispirazione cristiana). Riportiamo l’inizio del Proemio.
G. Ferrari, Filosofia della rivoluzione
La rivoluzione è il trionfo della filosofia chiamata a governare l’umanità. Fuori della filosofia non v’ha rivoluzione; la ragione non è libera, la scienza non è padrona; il culto regna sulla società, domina la ragione, detta le leggi e governa l’umanità. Ognuno intende poi per rivoluzione il gran moto per cui la Francia destava tutti i popoli dell’Europa. Trattasi ora di sapere qual deve esserne la filosofia?
Era quella di Locke e vinceva il cristianesimo e trasportava sulla terra il destino dei viventi, e chiamava ogni uomo ad essere pontefice a sé stesso. Pure dal giorno in cui il moto si fermò sotto le due reazioni dei Borboni e di Luigi Filippo, la guida di Locke mancò, Voltaire e Rousseau rimasero sopraffatti, restò dubbia ogni conquista dello spirito umano. I discepoli di Locke si attenevano ai fatti, che non lasciavano titubante il diritto: ma si dimandò che cosa sono i fatti, si chiese se il cristianesimo non è alla volta sua un fatto grande almeno quanto la rivoluzione nascente e se i suoi miracoli non abbiano diritto d’imporsi quanto gli avvenimenti della storia. – Concentravasi il fatto nella sensazione che pareva certissima, ma si dimandò se l’idea non sia certa quanto la sensazione, se il mondo delle idee, che disprezzavasi in Platone, in Descartes, non valesse quanto il mondo della natura, e se la natura potesse stare senza le idee, di spazio di tempo, di causa o di sostanza e senza i generi per cui trovasi classificata. – I discepoli di Locke pendevano al materialismo sí lusinghiero per chi cerca cognizioni utili e positive, ma fu chiesto se la materia sia evidente, avverata, se si possa conoscere qualche cosa di piú che il suo apparire, se il suo apparire non sia qualità piuttosto che materia, proprietà piuttosto che sostanza. – La scuola di Locke accettava il dubbio e vi trovava nuove forze per disfidare il dogma lungo tempo inoppugnabile della cristianità; e il dubbio era liberatore, era il primo principio del libero esame, e feriva Cristo in cielo e si ricadeva necessariamente sulla terra, nella sensazione di Locke, nella sfera dei fatti. E qui pure fu chiesto se il dubbio non feriva il fatto stesso, se distrutto il cielo non invadeva la terra, se non rendeva incerto l’avvenire, incerta la fede nella rivoluzione, incerta ogni speranza di sfuggire alle tirannie del passato. – Vedevansi gli uomini sorgere liberi ed eguali dal limo della sensazione, e sembrava impossibile che taluni potessero poi arrogarsi diritti, privilegi e supremazie a nome di piú eletta origine; ma fu chiesto se l’ineguaglianza che poi sorge dalla sensazione non sia anch’essa terribile, se, opera della mente che sovrasta al diritto primitivo, non fondi anch’essa il suo diritto, e se non conduca a stabilire lo spaventevole diritto della forza. – Confidavasi nella ragione, ma fu chiesto se la ragione non è fuori del senso; se, posta fuori del senso, nelle idee, non ha il diritto di trascendere la natura, se nel trascendere la natura, non ha il diritto di disprezzare il mondo che la scuola di Locke presenta come la terra promessa, se non ha il diritto di metter capo nel cielo di Socrate o di Platone o de’ neoplatonici, d’onde si passava nel cielo di Cristo. Quindi nuovi sistemi oltrepassavano disdegnosi la conquista di Locke, spiegavano il volo attraverso la storia, e rimaneva dubbio se la rivoluzione non fosse un accidente, se la negazione volteriana, se la demolizione di Rousseau non fossero traviamenti di un popolo febbricitante; e dottamente si trassero innanzi Leibniz, Descartes, tutte le filosofie sconfitte, or consigliando ai filosofi di allontanarsi dal campo della politica, or consigliando alla rivoluzione di tramutarsi in una nuova fase del cristianesimo, or trasportando il problema dell’umanità in cavilli sí audacemente impotenti, che l’avanzare diveniva impossibile, il retrocedere sembrava buon consiglio.
G. Ferrari, Filosofia della rivoluzione,
in La letteratura italiana. Storia e testi, Ricciardi, Milano-Napoli,
1957, vol. 68, pagg. 1139-1142