L’accettazione di una
dimensione metafisica nell’uomo porta Feuerbach a prendere le distanze
dall’atteggiamento che si è andato consolidando nella scienza moderna e che
diverrà dominante nel positivismo: la presunzione di poter risolvere tutti
i problemi. In questo modo si ripeterebbe con la scienza il processo di
alienazione individuato nella religione: l’uomo attribuisce alla oggettività
della natura leggi che sono frutto soltanto della propria elaborazione
razionale. Ma mentre Dio – che non ha una sua esistenza autonoma – può essere
ricondotto all’uomo che lo ha “creato”, la natura esiste di per sé e si muove
secondo leggi proprie e non secondo la “meccanica” elaborata dalla fisica di
Galileo e di Newton: alla natura non può essere adattato “alcun criterio
umano”.
L’analisi della natura serve a
Feuerbach per arricchire il proprio bagaglio argomentativo a favore
dell’ateismo: dietro la macchina naturale non esiste un artefice o un
“orologiaio” che ne garantisce il perfetto funzionamento in conformità a leggi
razionali. Nella natura non c’è conoscenza e consapevolezza: essa sembra
muoversi nella piú assoluta libertà, come attestano le mostruosità
naturali; se in essa c’è necessità si tratta di una necessità
“eccentrica, eccezionale, irregolare”, non riconducibile alla logica, alla
metafisica o alla matematica.
In questo contesto la scienza,
attraverso lo studio della natura, potrà spiegare come avvengono i fenomeni (e
con ciò la scienza ha svolto una grande funzione di liberazione dell’uomo dalla
paura), ma non dovrà avventurarsi nella ricerca del perché, pena
trasformare se stessa in nuova religione. Ma l’intelletto umano, ormai
consapevole del proprio carattere universale, non può sottrarsi alle domande
sul perché che egli stesso si pone. La nuova filosofia (la “filosofia
dell’avvenire”, come la chiama Feuerbach), cioè l’antropologia, potrà
rispondere a tutte le domande: essa è la vera scienza.
L’espressione “teste di gatto” si riferisce ad una deformazione della scatola cranica che resta ampiamente aperta (“cranioschisi”).
L. Feuerbach, L’essenza della religione, parr. 47-48
47. Chi ha detto all’uccello che occorre che egli alzi la coda, quando
vuol scendere, o che la abbassi se vuol salire piú in alto? Deve essere del
tutto cieco colui che nel volo degli uccelli non vede una saggezza superiore,
che ha pensato in luogo di essi. È vero, dev’essere cieco, non però per la
natura, ma per l’uomo, il quale eleva la sua essenza a modello della natura, e
la facoltà intellettuale a facoltà primaria, fa dipendere il volo degli uccelli
dall’esatta conoscenza della meccanica del volo, fa dei propri concetti,
astratti dalla natura, le leggi che gli uccelli applicano nel volo – come fa il
cavaliere con le regole dell’ippica, il nuotatore con le regole del nuoto, con
la differenza, però, che per gli uccelli l’applicazione dell’arte del volo è
qualche cosa di innato, di acquisito –. Ma il volo degli uccelli non deriva da
arte. [...] Una volta che tu abbia pensato che le opere degli animali siano il
frutto di arte, dovrai naturalmente pensare che la causa di esse sia
l’intelligenza, perché un’opera dell’arte presuppone una scelta, un progetto,
intelligenza e quindi, dato che l’esperienza torna subito a mostrarti che gli
animali non pensano, dovrai far pensare in loro vece un altro ente. [...] La
natura, per te, è soltanto uno spettacolo, una festa dell’occhio; tu credi
quindi che ciò che delizia il tuo occhio muova e governi anche la natura; cosí
tu fai della luce celeste in cui essa ti appare l’ente celeste che l’ha creata,
dello splendore dell’occhio la luce della natura, del nervo ottico il nervo
motorio dell’universo. Far derivare la natura da un saggio creatore significa
pretendere che i bambini vengano generati con lo sguardo, che la fame si quieti
con il profumo delle vivande, che l’armonia dei suoni faccia muovere i monti.
Il groenlandese fa nascere lo squalo dall’orina di uomo, perché, al naso
dell’uomo, esso puzza di orina; ebbene, questa genesi zoologica ha lo stesso
fondamento della genesi cosmologica del teista, che fa generare la natura
dall’intelligenza perché essa dà, all’intelligenza umana, l’impressione di un
comportamento intelligente e meditato. È ben vero che il manifestarsi della
natura è per noi ragione, ma la causa di questo manifestarsi non è la ragione
piú di quanto la causa della luce sia la luce.
48. Perché la natura genera degli aborti? Perché il risultato di un
processo di formazione non le è oggetto in anticipo, come fine. Perché, per
es., le cosiddette teste di gatto? Perché, nel formare il cervello, essa non
pensa al cranio, non sa che per coprirlo le fa difetto la sostanza ossea. E
perché membra in numero superiore al normale? Perché essa non conta. E perché è
a sinistra ciò che di regola è a destra, e a destra ciò che è di regola a
sinistra? Perché essa non sa che cosa sia destra e sinistra. Gli aborti sono
dunque prove popolari – a cui, appunto per questo, fecero già ricorso gli
antichi atei, e persino quei teisti che emanciparono la natura dalla tutela
della teologia – del fatto che le formazioni naturali sono prodotti
impreveduti, non progettati, involontari: perché tutti gli argomenti che
vengono addotti, anche dai naturalisti piú recenti, per spiegare le deformità –
che esse siano soltanto conseguenze delle malattie del feto – finirebbero col
cadere se alla forza creatrice o formante della natura fosse connessa anche
volontà, intelligenza, previsione, coscienza. Ma la natura, benché non veda,
non è per questo cieca; e benché non viva (nel senso di vita umana, o in genere
di vita soggettiva e percipiente), non per questo è morta, e anche se non forma
sulla base di progetti, non per questo le sue formazioni sono casuali; perché
là dove l’uomo afferma che la natura è morta e cieca, e che è casuale ciò che
essa ha formato, ivi egli fa della propria (e soggettiva) essenza il criterio
della natura, ivi egli la determina soltanto in base all’opposizione in cui
essa si trova con lui, ivi la definisce un ente difettoso perché non ha ciò che
ha l’uomo. La natura opera e forma dovunque, però soltanto in ordine e con
ordine – un ordine che per l’uomo è la ragione, dato che dovunque egli colga un
ordine egli trova significato, materia del pensiero, “ragione sufficiente”,
sistema –; dovunque, però sotto la spinta della necessità e con necessità. Ma
anche questa necessità della natura non è umana, non è cioè logica, metafisica
o matematica, non è, in generale, astratta; perché gli enti naturali non sono
enti del pensiero, non sono figure logiche o matematiche, ma enti reali, individuali,
sensibili; è una necessità sensibile, e quindi eccentrica, eccezionale,
irregolare, tale, in conseguenza di queste anomalie, da apparire alla fantasia
dell’uomo come libertà, o almeno come un prodotto della libertà. La natura va
concepita soltanto mediante se stessa; essa è l’ente il cui “concetto non
dipende da alcun altro ente”; è ad essa soltanto che può essere applicata la
differenza tra ciò che una cosa è in sé e ciò che essa è per noi, è ad essa
soltanto che non deve né può essere adattato alcun “criterio umano”, benché noi
paragoniamo le sue manifestazioni con analoghe manifestazioni umane, in
analogia alle quali le definiamo, e benché, per renderla comprensibile a noi,
applichiamo ad essa espressioni e concetti umani come ordine, fine, legge; e
siamo costretti a farlo, in conformità alla natura del nostro linguaggio, che è
fondato soltanto sull’apparenza soggettiva delle cose.
(L. Feuerbach, L’essenza della religione, Laterza, Bari, 1993,
pagg. 96-101)