Nei Pensieri sulla morte e
sull’immortalità, comparsi anonimi nel 1830, Feuerbach affronta in termini
nuovi un tema tipico della riflessione hegeliana: il rapporto tra finito e
infinito. Mentre per Hegel e per la “Destra hegeliana” il finito trova la sua
ragion d’essere nell’infinito, per Feuerbach il rapporto è rovesciato: soltanto
nel riconoscimento e nell’accettazione del finito (della morte) sarebbe
possibile il riconoscimento e l’adorazione dell’infinità di Dio.
L. Feuerbach, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, I
Vera religione, vera umiltà, vera e completa devozione ed abbandono in Dio sono dunque possibili solo se l’uomo riconosce la morte come morte vera, effettuale e definitiva. Tutta la teologia pietistica o tutta la teologia mistica dell’epoca moderna si basa perciò soltanto su un giuoco di palla. L’individuo fa getto di se stesso solo per esser di nuovo recuperato da Dio, si fa umile di fronte a Dio solo per rispecchiare in lui se stesso, il suo perdersi è il suo godersi, l’umiltà è il suo elevarsi; si immerge in Dio solo per riemergere incolume e, rinfrescato e rinvigorito, deliziarsi al sole della sua propria magnificenza; si inabissa nel profondo solo per ripescare da Dio la perla del suo prezioso Sé. Come talune erbe danno di sé un buon odore solo se vengono macerate, cosí l’individuo si macera solo per sentire il suo proprio odore, ed al pari delle cose, che hanno un sapore solo se vengono dissolte sulla lingua, cosí l’individuo si scioglie e si lascia disfare come zucchero nel sangue del Salvatore, per trovare in se stesso un proprio sapore. Ah, come dev’essere dolce il sapore di un individuo cosí macerato, disfatto e dissolto! Se tu vedessi un ragazzo, che rompe con i denti una noce e che se ne spezzerebbe persino qualcuno, e qualcuno anche ve ne lascerebbe finché non l’avesse schiacciata, come lo ammireresti se tu non sapessi che al di sotto della noce è celato quel che è il fine di questo suo duro e doloroso sforzo; ma come súbito si muterebbe in un sentimento [Affekt] opposto la tua ammirazione, se tu avessi conoscenza del fine e dell’oggetto proprio che il ragazzo, con la sua fatica, cerca di raggiungere. Guarda ora i nostri pietisti; guarda come l’individuo si morde e si schiaccia solo per trarre fuori, con questo schiacciare e frantumare, il dolce gheriglio del suo Sé. Certo, colui che non guarda al fondo delle cose se ne starà lí ammirato quando sente quella gente parlare della propria Nullità e corruzione, di umiltà, di elevazione in Dio, del morire in Cristo, e quando la vede spezzare, con tali movimenti che frantumano lo Spirito ed il cuore, quel che ha di migliore, la ragione; ma in quale sentimento [Affekt] si rovescerà la sua ammirazione quando avrà riconosciuto quel che è e quel che deve essere frantumato. Ma questo non è nient’altro che l’individuo stesso. Quando essi trattano della loro peccaminosità, della loro corruzione, non trattano forse anche della loro essenza, della importanza e realtà di loro stessi? E colui che sempre rimira allo specchio i suoi difetti e le sue mancanze, è forse meno vanitoso e compiaciuto di sé rispetto a colui che pensa soltanto alla propria virtú e bellezza? Non è appunto il segno della massima vanità trattare sempre della propria vanità? E dunque, nella loro religione si tratta di Dio, della volontà di Dio, di Dio in sé e per sé, o non piuttosto il tutto si rovescia soltanto nella loro redenzione e riconciliazione [Versöhnung], nella loro salvazione, nella loro beatitudine ed immortalità? Dio è solo la periferia in questa loro religione, il centro sono gli individui stessi. Gli individui, perciò, riconoscono un Dio oltre loro stessi solo per possedere in lui uno spazio infinito, nel quale possano prolungare e dispiegare fino all’eternità intiera la loro limitata, particolare, miseranda individualità, senza turbamenti, danni e limitazioni reciproci, senza colpi e pressioni, che nella vita realmente in atto sono inevitabili; il loro Dio non è nient’altro che l’atmosfera in cui gli individui, egualmente vaporosi, esalando dalla terra come sorta di gas, possono, senza ostacolarsi l’un con l’altro nelle loro peculiari diversità, evaporare ed espandersi. Se ti sembra incredibile che da questo morire e passare non risulti e non venga fuori nient’altro di nuovo che lo stesso individuo, pensa, allora, alla morte naturale; persino questa è per quella gente soltanto il luogo, nel teatro del mondo, in cui vengono cambiati i costumi! persino in questo spaventosissimo squillo di tromba del giudizio universale nient’altro odono che l’abituale suono di un postiglione che per la stazione di posta del futuro curriculum vitae ordina cavalli freschi! Ah, che godimento celeste deve essere – una volta liberatisi dal fardello di questa vita terrena, cioè dalla ragione –, evaporare nell’atmosfera dell’Essere supremo, fuori dalla botteguccia della peculiarità umana, colma di aromi e sapori, e trasfigurata, e, nello stesso tempo, librarsi oltre la sfera soffocante di quella ragione propria dell’Esserci terreno, come una nuvola di neve leggera ed ariosa! Ah, quale gioia allora sarà, quale godimento, ripensare ai propri peccati un tempo commessi, avere alle proprie spalle, come una facezia, la vita aspra della storia e della ragione, e finalmente succhiare e poppare per l’intera eternità in se stessi.
(L. Feuerbach, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, a cura di
F. Bazzani, Editori Riuniti, Roma, 1997, pagg. 25-28)