Il principio, “tacitamente
presupposto” e “riconosciuto da tutti come non contraddittorio”, su cui Fichte
vuol fondare la nuova “dottrina della scienza” è il principio di non
contraddizione,
nella sua formulazione come “principio di identità”.
J. G. Fichte, Fondazione di
tutta la dottrina della scienza, par. 1
Posto dunque un fatto qualunque della coscienza empirica, se ne
separano una dopo l'altra tutte le determinazioni empiriche fino a che resta
soltanto ciò che in nessun modo non può non essere pensato, e dal quale non può
piú essere separato nulla.
La proposizione: A è A (che vale quanto A = A, ché questo è il
significato della copula logica) è ammessa da ciascuno; ed invero senza
minimamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa ed indubitabile.
Qualora però qualcuno ne dovesse richiedere una dimostrazione, non
si attenderebbe certo a darla, ma si affermerebbe che quella proposizione è assolutamente,
cioè senza ragione ulteriore, certa; è, cosí facendo, senza dubbio con
l'assenso di tutti, ci si ascrive la facoltà di porre qualcosa assolutamente.
Con l'affermazione che la proposizione precedente è certa in sé,
non si pone che A esista. La proposizione A è A non è per nulla equivalente a
quest'altra: A esiste, oppure esiste un A [...].
Con la proposizione A = A si giudica. Ma ogni giudizio è, secondo
la coscienza empirica, un agire dello spirito umano, giacché possiede tutte
quelle condizioni dell'atto nell'autocoscienza empirica che vanno presupposte,
ai fini della riflessione, come certe e indubitate.
A fondamento di questo agire sta qualcosa fondato su nulla di
superiore, e cioè X = io sono.
Perciò l'assolutamente posto e fondato su sé stesso è fondamento
di un certo agire dello spirito umano (l'intera dottrina della scienza
dimostrerà che lo è di tutto), e quindi il suo puro carattere, il puro
carattere dell'attività in sé: prescindendo dalle particolari condizioni
empiriche della stessa.
Dunque, la posizione dell'io ad opera di sé stesso è la sua pura
attività. L'io pone sé stesso; ed esso è in forza di questo mero porre ad opera
di sé stesso; e viceversa: l'io è, ed esso pone il suo essere in forza del suo
mero essere. Esso è, al tempo stesso, l'agente ed il prodotto dell'azione;
l'attivo e ciò che è prodotto dall'attività; azione e fatto sono una sola e
medesima cosa; e perciò l'io sono è espressione di un atto; ma anche del solo
atto possibile, come dovrà risultare da tutta la dottrina della scienza [...].
Porre sé stesso ed essere sono, nell'uso dell'io, pienamente
identici. La proposizione: io sono perché ho posto me stesso, può, pertanto,
essere espressa anche cosí: io sono assolutamente, perché io sono.
Inoltre, l'io che si pone e
l'io che è sono pienamente identici, una sola e medesima cosa. L'io è quello
che esso si pone, e si pone come quello che esso è. Dunque: io sono
assolutamente quello che sono.
L'espressione immediata
dell'atto ora sviluppato sarebbe la formula seguente: io sono assolutamente, e
cioè: io sono assolutamente perché io sono, e sono assolutamente ciò che sono;
l'una e l'altra cosa per l'io.
Se il racconto di questo
atto lo si pensa al vertice di una dottrina della scienza, la sua formulazione
dovrebbe avvenire press'a poco in questi termini: L'io originariamente pone
assolutamente il proprio essere.
Noi siamo partiti dalla
proposizione A = A non come se da essa si potesse dedurre la proposizione: io
sono, ma perché dovevamo partire da una qualunque proposizione certa, data
nella coscienza empirica. Ma anche dalla nostra spiegazione è risultato che non
già la proposizione A = A fonda la proposizione: io sono, ma che, piuttosto,
quest'ultima fonda la prima.
Se nella proposizione “io
sono” si astrae dal contenuto determinato, e si lascia la mera forma che è data
con quel contenuto, la forma dell'inferenza dall'essere posto all'essere, come
deve accadere ai fini della logica, si ottiene allora come principio della
logica la proposizione A = A che può essere dimostrata e determinata solo dalla
dottrina della scienza. Dimostrata: A è A perché l'io che ha posto A è identico
a quello in cui esso è posto; determinata: tutto ciò che è, è solo in quanto è
posto nell'io, e fuori dell'io è nulla. Nessun possibile A nella proposizione
precedente (nessuna cosa) può essere altro che un alcunché posto nell'io. Se si
astrae inoltre da ogni giudicare, come atto determinato, e ci si limita a
considerare il tipo di azione in generale dello spirito umano data da quella
forma, si ottiene la categoria della realtà. Tutto ciò a cui la proposizione A
= A è applicabile ha realtà nella misura in cui la stessa è ad esso
applicabile. Ciò che è posto mediante il mero porre d'una cosa qualsiasi (di un
alcunché posto dall'io) è una realtà, è la sua essenza.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 913-917)