Fichte, per il quale la filosofia
è “dottrina della scienza” - cioè fondamento universale di ogni forma di
conoscenza, e, al tempo stesso, frutto di una scelta soggettiva -, attribuisce
al soggetto anche l'atto originario di tutta la conoscenza: l'autocoscienza o
“intuizione intellettuale”.
J. G. Fichte, Seconda
introduzione alla Dottrina della scienza, per lettori che hanno già un sistema
filosofico
Io chiamo intuizione
intellettuale quest'intuizione di sé stesso di cui è ritenuto capace il
filosofo, nell'effettuazione dell'atto con cui insorge per lui l'io. Essa è la
coscienza immediata che io agisco, e di ciò che agisco: essa è ciò per cui io
so qualcosa perché la faccio. Che una tale facoltà dell'intuizione intellettuale
esiste, non si può dimostrare per concetti, né si può sviluppare da concetti
quello che essa è. Ognuno deve trovarla immediatamente in sé stesso, altrimenti
non imparerà mai a conoscerla. La richiesta di dimostrargliela per ragionamenti
è ancor piú sorprendente di quella, ipotetica, di un cieco nato di spiegargli,
senza ch'egli debba vedere, che cosa sono i colori. [...]
L'intuizione
intellettuale è l'unico saldo punto di vista per ogni filosofia. Tutto ciò che
si presenta nella coscienza lo si può spiegare da esso, anzi esclusivamente da
esso. Senza autocoscienza non esiste, in generale, coscienza; ma
l'autocoscienza è possibile solo nel modo indicato: io non sono se non
attività. Oltre questo punto di vista non posso essere spinto: qui la mia filosofia
diventa del tutto indipendente da ogni arbitrio; diventa un prodotto della
ferrea necessità, nella misura in cui la necessità esiste per la libera
ragione: diventa cioè prodotto della necessità pratica. Io non posso
procedere oltre questo punto di vista, perché non mi è concesso
di procedere oltre; e cosí l'idealismo trascendentale si palesa come l'unico
modo di pensare in cui la speculazione e la legge morale si uniscono
intimamente. Io debbo nel mio pensiero partire dall'io puro, e pensarlo
come di per sé assolutamente attivo: non come determinato dalle cose, ma come
determinante le cose. [...]
Non è
dunque questione di poca importanza, come pensano alcuni, se la filosofia parta
da un fatto o da un atto, cioè da una mera attività che non presuppone alcun
oggetto, ma lo produce, e in cui pertanto l'agire diventa immediatamente un
fatto. Se parte dal fatto, la filosofia si pone nel mondo dell'essere e della
finitezza, e le risulterà allora difficile trovare da questo la via verso
l'infinito ed il sovrasensibile; se parte dall'atto, si trova allora nel punto
che unisce i due mondi e dal quale li si può abbracciare con un colpo d'occhio.
[...]
Per dirla,
approfittando di quest'occasione, in modo del tutto chiaro: l'essenza
dell'idealismo trascendentale in generale e della sua esposizione nella
dottrina della scienza, consiste in questo: che il concetto dell'essere non è
affatto considerato come un concetto primo ed originario; ma
esclusivamente come un concetto derivato, e, piú precisamente, come
derivato per opposizione all'attività, e quindi soltanto come un concetto negativo.
Positiva, per l'idealista, è soltanto la libertà; l'essere è per lui mera
negazione di quest'ultima. Soltanto a questa condizione l'idealismo ha una base
solida e resta in accordo con sé stesso.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 962-964)