Attilio Frajese ha curato per la UTET di Torino – oltre
all’edizione degli Elementi di Euclide – l’edizione delle Opere
di Archimede. Nelle pagine che seguono egli propone un interessante confronto
tra i due matematici dell’età ellenistica e mette in evidenza il carattere
“teorico” della ricerca scientifica nell’antichità. Anche se le applicazioni
pratiche di un lavoro teorico come quello di Archimede sono evidenti, e alcune
– come ad esempio la leva – note praticamente a tutti (“Datemi un punto di
appoggio e solleverò il mondo!”).
Archimede, il piú grande matematico della civiltà greca e uno dei piú
grandi di tutti i tempi, nacque e visse a Siracusa nel terzo secolo avanti
Cristo: si conosce con certezza l’anno della sua morte (il 212 a.C.) la quale
avvenne (come tutti sanno) durante il saccheggio di Siracusa; e si ritiene
probabile che egli sia nato nel 287 a.C.; Archimede segue dunque di poco
Euclide e precede di poco Apollonio, l’autore delle Coniche.
[...] I Greci ereditano dall’Oriente una matematica che aveva già avuto
sviluppi notevoli in aritmetica e in algebra, ma che era ferma a una geometria
materializzante, di carattere strettamente pratico (regole di misura,
soprattutto).
Nel mondo greco la geometria passa dallo stadio pratico, che può dirsi di
approssimazione, a quello teorico, che fu detto di precisione:
gli enti geometrici vengono idealizzati, considerati come enti a se
stanti, distaccati da ogni traccia di materia. E questa idealizzazione subisce
una svolta decisiva con la scoperta delle linee incommensurabili (lato e
diagonale del quadrato) avvenuta, a quanto pare, nella scuola pitagorica sorta
intorno al maestro intorno al 500 a.C. Se lato e diagonale di ogni quadrato
sono incommensurabili, cioè sono tali che nessun segmento, comunque scelto, sia
contenuto esattamente numeri interi di volte tanto nell’uno quanto nell’altro,
non è possibile concepire le linee come composte da un numero finito di punti,
assimilabili a granellini, pur piccoli. Secondo questa concezione granulare,
infatti, tutte le linee dovrebbero essere commensurabili, poiché il
segmentino-punto sarebbe contenuto esattamente in ciascuna di esse. Conseguenza
delle linee incommensurabili (che Platone eternò in un celebre passo del Menone)
dovette essere quindi l’annichilimento del punto, che venne concepito
come addirittura privo di dimensioni: conseguentemente la linea fu concepita
come lunghezza priva di larghezza e la superficie come priva di
spessore.
È questo il vero colpo d’ala della geometria greca, che segna l’inizio
della geometria di precisione. [...]
È immediatamente avvertibile negli Elementi di Euclide un
carattere di teoricità assoluta: carattere che a nostro avviso è almeno in
parte dovuto a una sorta di platonismo di Euclide: almeno nel senso che
questi condivide la concezione della matematica che Platone espone nel grande
Dialogo del suo meriggio: la Repubblica. Fatto sta che, pur fornendo le
costruzioni geometriche che noi eseguiamo usando gli strumenti elementari (riga
e compasso), Euclide non nomina mai gli strumenti stessi, postulando che le
figure elementari costruite sorgano come per incanto. E invano si
cercherebbe negli Elementi di Euclide non solo il minimo accenno a
pratiche applicazioni, ma neppure il benché minimo esempio numerico o la piú
semplice regola di misura. [...]
Ora passiamo da Euclide ad Archimede ed esaminiamo le somiglianze e le
differenze fra i due tipi di trattazione. Innanzitutto una differenza di stile:
dallo stile elementare di Euclide si passa ad uno stile per iniziati
di Archimede. Ma, a parte ciò, anche in Archimede, come in Euclide, la
trattazione ha l’andamento di “sintesi” che è proprio del momento espositivo
del sistema degli Elementi: anche Archimede parte da proposizioni
primitive (alle quali dà denominazioni diverse, come lambanómena =
assunzioni, o lémmata = lemmi) e a mano a mano ne deduce proposizioni
sempre piú complesse, fino a quelle che costituiscono lo scopo di ciascuna
opera. Sotto questo riguardo le opere di Archimede possono essere considerate
come la continuazione degli Elementi di Euclide: continuazione resa
anche piú evidente dal fatto che Archimede si serve continuamente di
proposizioni euclidee. Ma (ed è qui una differenza notevole) Archimede non disdegna
regole di misura e calcoli aritmetici: anzi si direbbe che se ne compiaccia.
[...]
Alcune opere di Archimede sono dedicate a questioni che potremmo dire di
matematica applicata: basti citare i due libri Sull’equilibrio dei piani,
nei quali si determina la posizione del baricentro di corpi di varia forma, e i
due libri sui Galleggiamenti, in cui si studia il comportamento
statico-dinamico di un corpo solido immerso in un liquido. Ma quando si parla
di applicazioni della matematica nelle opere di Archimede, occorre
rilevare che si tratta di matematica applicata nel senso in cui può esser detta
tale, ad esempio, la meccanica razionale odierna: Archimede si tiene cioè
lontano dalle applicazioni pratiche vere e proprie. Queste ultime hanno, è
vero, occupato variamente il suo ingegno, conformemente ha quanto la tradizione
ci ha tramandato circa i suoi geniali ritrovati; ma di essi non si trova
traccia nelle opere classiche, e sembra che ciò sia stato voluto da
Archimede, se vogliamo prestar fede a quando dice Plutarco (Vita di Marcello,
14 e 17). Secondo questo antico autore, infatti, le invenzioni meccaniche
furono considerate da Archimede come un semplice diversivo giocoso: per quanto
gli procurassero immensa celebrità, tuttavia egli non le avrebbe ritenute degne
di essere tramandate mediante opere scritte.
Per mostrare (ci si scusi il bisticcio) il carattere altamente teorico
della matematica applicata trattata nelle opere di Archimede, si sembra
opportuno citare il caso delle proposizioni 6 e 7 del libro I di Equilibrio
dei piani: esse trattano ambedue della legge di equilibrio della leva, ma
mentre la prima si riferisce al caso di grandezze (pesi) tra loro
commensurabili, la seconda si riferisce al caso dell’incommensurabilità:
distinzione che se ha un valore teorico non ha evidentemente alcun significato
pratico.
Potremmo dire che Archimede sia non soltanto il piú grande matematico ma
anche il piú grande ingegnere dell’antichità: ingegnere nel senso piú
ampio, cioè non soltanto nel senso di colui che applica la teoria alla pratica,
ma anche di colui che quella teoria costruisce. Sotto questo riguardo si trova
in Archimede quell’equilibrio che è caratteristico dello spirito greco: egli è
il matematico che per quanto riguarda rigore logico e purezza di concezioni non
è secondo di fronte a Euclide, ma al tempo stesso indirizza la sua matematica
verso applicazioni pratiche, pur espungendo queste ultime dalle sue opere,
nelle quali si limita ai presupposti teorici delle applicazioni stesse.
(A. Frajese, Introduzione ad
Archimede, Opere, UTET, Torino, 1974, pagg. 11-15)