In questo scritto del 1932 Sigmund Freud presenta la sua
piú matura descrizione della strutturazione psichica della personalità che
risulta suddivisa nelle tre “istanze” o “soggetti psichici” – Es, Io, Super-Io
– di cui Freud intende chiarire sia le reciproche interazioni dinamiche, sia i
rapporti che essi istituiscono con i sistemi conscio, preconscio, inconscio, i
quali rappresentano i tre “luoghi” della psiche.
S. Freud, Introduzione alla
psicoanalisi, 31 ( pagg.251-252)
La scomposizione della personalità psichica
Signore e Signori, so che conoscete l’importanza che ha il
punto di partenza nei vostri personali rapporti, siano essi con persone o con
cose. Cosí è stato anche per la psicoanalisi: per lo sviluppo che essa ha avuto
e per l’accoglienza che ha trovato, non è stato indifferente che abbia iniziato
il suo lavoro ciò che nella vita psichica è piú estraneo all’Io, il sintomo. Il
sintomo deriva dal rimosso, ne è, per cosí dire, il rappresentante al cospetto
dell’Io; ma il rimosso è per l’Io territorio straniero, territorio straniero
interno, cosí come la realtà – consentite l’espressione insolita – è territorio
straniero esterno. Dal sintomo la nostra strada ci condusse all’inconscio, alla
vita pulsionale, alla sessualità, e fu allora che alla psicoanalisi toccò udire
la geniale obiezione che l’uomo non è semplicemente un essere sessuale, ma
conosce anche impulsi piú nobili ed elevati. Si sarebbe dovuto aggiungere che,
esaltato dalla consapevolezza di questi impulsi piú elevati, spesso egli si
arroga il diritto di sragionare e di trascurare i fatti.
Sapete anche di piú. Noi abbiamo detto fin dal principio
che l’uomo si ammala per il conflitto fra le pretese della sua vita pulsionale
e la resistenza che contro di esse si erge in lui, e mai un istante abbiamo
dimenticato questa istanza che si oppone, respinge, rimuove, istanza che
pensavamo dotata di sue particolari forze, le pulsioni dell’Io e tale da
coincidere appunto con l’Io della psicologia popolare. Per altro verso, poiché
è proprio del lavoro scientifico progredire faticosamente, anche alla
psicoanalisi non fu possibile studiare simultaneamente tutti i campi e
pronunciarsi d’un sol colpo su tutti i problemi. Alla fine il progresso fu tale
che l’attenzione poté convergere dal rimosso al rimovente, e ci si trovò di
fronte a questo Io (il quale sembrava essere cosí ovvio) con l’aspettativa
certa di trovare anche qui cose alle quali non si poteva essere preparati; ma
non fu facile dapprima trovare il modo di avvicinarlo. È di questo che voglio
parlarvi oggi.
Non posso tuttavia nascondere il mio sospetto che questa
esposizione della psicologia dell’Io vi farà un effetto diverso
dall’introduzione nel mondo psichico sotterraneo che l’ha preceduta. Perché
debba essere cosí, non so dirlo con certezza. Dapprima credevo che avreste
rilevato che, mentre in precedenza vi avevo riferito principalmente fatti –
seppure insoliti e strani –, questa volta vi sarebbe toccato sentire
prevalentemente concetti teorici, ossia speculazioni. Ma la ragione non può
esser questa. Riflettendoci meglio, bisogna pur affermare che nella nostra
psicologia dell’Io la parte di rielaborazione intellettuale dei dati di fatto
non è molto piú grande di quanto fosse nella psicologia delle nevrosi. E
parimenti sono da respingere altre motivazioni di questa mia attesa. Ora
ritengo che la cosa dipenda in qualche modo dal carattere della materia stessa
e dal fatto che non siamo abituati a trattarla. In ogni caso, non sarò sorpreso
se vi mostrerete ancora piú riservati e prudenti nel vostro giudizio di quanto
lo siate stati finora.
A indicarci il cammino sarà la situazione in cui ci
troviamo all’inizio della nostra indagine. Nostro desiderio è fare oggetto di
questa indagine l’Io, il nostro Io piú intimo; ma è possibile? L’Io è il
soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio
che questo è possibile: l’Io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi
come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante
altre cose ancora. Cosí facendo, una parte dell’Io si contrappone alla parte
restante. L’Io dunque è scindibile; e in effetti si scinde nel corso di
parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente. Le parti possono
successivamente riunirsi. Questa non è esattamente una novità, forse è
un’accentuazione insolita di cose universalmente note. D’altro canto siamo
avvezzi all’idea che la patologia possa rendere evidenti, ingrandendole e
rendendole piú vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero
sfuggite. Dove essa ci mostra una frattura o uno strappo, normalmente può
esistere un’articolazione. Se gettiamo per terra un cristallo, questo si
frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di
sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia
determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili,
piene di strappi e fenditure, sono anche i malati di mente. Un po’ del
reverenziale timore che gli antichi popoli dimostravano per i pazzi dobbiamo
concederglielo anche noi. Si sono staccati dalla realtà esterna ma, appunto per
questo, sanno moltissimo della realtà interna, psichica, e possono rivelarci
parecchie cose che altrimenti ci sarebbero inaccessibili.
Di un gruppo di questi malati noi diciamo che soffrono del
delirio di essere osservati. Essi si lamentano di essere molestati
incessantemente, e fin nelle loro piú intime azioni, da forze ignote,
probabilmente persone, che li osservano, e odono in forma allucinatoria queste
persone proclamare i risultati della loro osservazione, “adesso sta per dire
questo, adesso si veste per uscire” eccetera. Questa attenzione non è ancora
una persecuzione, ma poco ci manca; essa presuppone che la gente diffidi di
loro, che aspetti di sorprenderli mentre compiono azioni proibite, per le quali
dovrebbero essere puniti. E se questi pazzi avessero ragione, se nell’Io di
tutti noi vi fosse una istanza simile che osserva e minaccia castighi, istanza
che in loro si è soltanto separata nettamente dall’Io ed è stata erroneamente
spostata nella realtà esterna?
Non so se anche a voi accadrà lo stesso che a me. Da
quando, sotto il forte influsso di questo quadro morboso, ho concepito l’idea
che la separazione di un’istanza osservatrice dal resto dell’Io potrebbe essere
un tratto regolare nella struttura dell’Io, quest’idea non mi ha piú
abbandonato e mi ha spinto a indagare gli ulteriori caratteri e relazioni di
questa istanza in tal modo separatasi. Il passo successivo è stato immediato.
Già il contenuto del delirio di essere osservati suggerisce che l’osservare è
solo una preparazione al giudicare e al punire, e noi indoviniamo cosí che
un’altra funzione di questa istanza dev’essere ciò che chiamiamo la nostra
coscienza morale. Non vi è forse null’altro in noi che separiamo tanto
regolarmente dal nostro Io e gli contrapponiamo con tanta facilità come,
appunto, la coscienza morale. Io avverto l’inclinazione a fare una cosa da cui
mi riprometto piacere, ma non la faccio perché la mia coscienza non me lo
permette. Oppure, mi sono lasciato indurre da un’eccessiva aspettativa di
piacere a fare una cosa contro cui la voce della coscienza sollevava obiezioni
e, dopo averla fatta, la mia coscienza mi punisce con tormentosi rimproveri,
facendomi provare rimorso per l’azione compiuta. Potremmo dire semplicemente
che la particolare istanza che comincia a distinguersi nell’Io è la coscienza
morale, ma è piú prudente mantenere a questa istanza la sua autonomia e
supporre che la coscienza morale sia una delle sue funzioni e che l’auto-osservazione
preliminare, indispensabile all’attività giudicatrice della coscienza, ne sia
un’altra. E poiché il riconoscimento di un’esistenza separata implica che si
dia alla cosa un nome, d’ora in poi designerò questa istanza presente nell’Io
come il “Super-io”.
Mi pare di sentire già la vostra domanda ironica, se la
nostra psicologia dell’Io non miri ad altro che a prendere alla lettera e
rendere piú grossolane certe astrazioni usuali, a trasformarle da concetti in
cose, con il che avremmo fatto un bel guadagno! Vi rispondo che non è facile
evitare nella psicologia dell’Io ciò che è universalmente noto: piú che di
nuove scoperte si tratterà di nuovi modi di concepire e di raggruppare. Per
intanto, attenetevi pure alle vostre critiche e aspettate gli ulteriori
sviluppi. I dati della patologia creano ai nostri sforzi uno sfondo che voi
cerchereste invano nella psicologia popolare. Pertanto proseguo.
Non appena ci siamo familiarizzati con l’idea di un
Super-io che gode di una certa autonomia, che persegue i propri intenti ed è
indipendente dall’Io per quanto riguarda il suo patrimonio energetico, la
nostra attenzione è particolarmente attirata da un quadro clinico che illustra
con evidenza la severità e persino la crudeltà di questa istanza, nonché le sue
mutevoli relazioni con l’Io. Mi riferisco allo stato di melanconia o, piú
precisamente, dell’accesso melanconico, di cui anche voi, pur non essendo
psichiatri, avrete certo avuto modo di sentir parlare. La caratteristica piú
appariscente in questo male, sulle cui cause e sul cui meccanismo sappiamo ben
poco, è il modo in cui il Super-io – ditevi tra voi: la coscienza morale –
tratta l’Io. Mentre in periodi sani il melanconico può essere piú o meno severo
con sé stesso, come chiunque altro, durante l’accesso melanconico il Super-io
diventa esageratamente rigoroso, insulta, umilia, maltratta il povero Io, gli
prospetta i piú severi castighi, gli muove rimproveri per azioni da molto tempo
trascorse e prese, allora, alla leggera, come se durante l’intero intervallo non
avesse fatto altro che raccogliere accuse in attesa del suo presente
rafforzamento per farsi avanti e per pronunciare, forte di quelle accuse, la
sua condanna. Il Super-io impone all’Io inerme, che è in sua balía, criteri
morali rigorosissimi; è in generale il rappresentante delle esigenze della
moralità, e d’un tratto ci rendiamo conto che il nostro senso morale di colpa
esprime la tensione fra l’Io e il Super-io. È un’esperienza assai curiosa
vedere la moralità, che si presume ci sia stata conferita da Dio e sia radicata
in noi tanto profondamente, manifestarsi come un fenomeno stagionale. Infatti,
dopo un certo numero di mesi, tutto il trambusto morale passa, la critica del
Super-io tace, l’Io viene riabilitato e gode nuovamente di tutti i diritti degli
umani fino al prossimo accesso. Anzi, in talune forme della malattia, ha luogo
nell’intervallo tutto l’opposto: l’Io si trova in uno stato di beata ebbrezza,
di trionfo, quasi che il Super-io avesse perso ogni forza o si fosse fuso con
l’Io; e questo Io maniaco, divenuto libero, si permette realmente senza
inibizioni il soddisfacimento di tutti i suoi appetiti. Sono processi densi di
insoluti enigmi!
All’annuncio che abbiamo appreso le cose piú impensate sulla formazione del Super-io, e quindi sull’origine della coscienza morale, voi non vi accontenterete di certo di parole vaghe. Seguendo il noto detto di Kant, che accosta la coscienza morale dentro di noi al cielo stellato, un essere pio potrebbe volgersi a venerare queste due cose come i capolavori della creazione. Le stelle sono magnifiche, ma, per quanto riguarda la coscienza morale, Dio ha compiuto un lavoro disuguale e mal fatto, poiché la grande maggioranza degli uomini ne ha ricevuta soltanto una quantità modesta o addirittura talmente esigua che non vale la pena di parlarne. Noi non disconosciamo affatto la parte di verità psicologica che è contenuta nell’affermazione che la coscienza morale è di origine divina, ma la tesi ha bisogno di un’interpretazione. Se pure tale coscienza è qualcosa “in noi”, non lo è fin dall’inizio. Essa si pone in diretto contrasto con la vita sessuale, la quale esiste realmente fin dall’inizio della vita e non sopravviene solo piú tardi. Per contro il bambino piccolo è notoriamente amorale, non ha alcuna inibizione interiore contro i propri impulsi che anelano al piacere. La funzione che piú tardi assume il Super-io viene dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei genitori. I genitori esercitano il loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d’amore e la minaccia di castighi; questi ultimi dimostrano al bambino la perdita dell’amore e sono quindi temuti per sé stessi. Questa angoscia reale precorre la futura angoscia morale; finché essa domina, non c’è bisogno di parlare di Super-io e di coscienza morale. Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria – che noi siamo troppo disposti a ritenere quella normale – in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-io, il quale ora osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino.
Il
Super-io, che in tal modo assume il potere, la funzione e persino i metodi
dell’istanza parentale, non ne è però soltanto il successore legale, ma
realmente il legittimo erede naturale. Il Super-io deriva direttamente
dall’istanza parentale, e apprenderemo presto attraverso quale processo.
Dapprima, tuttavia, dobbiamo soffermarci su una discordanza fra i due. Il
Super-io sembra aver preso, con una scelta unilaterale, solo il rigore e la
severità dei genitori, la loro funzione proibitrice e punitiva, mentre la loro
sollecitudine e il loro amore non vengono ripresi e continuati. Se i genitori
hanno applicato realmente un regime di severità, diventa facilmente
comprensibile che anche nel bambino si sviluppi un Super-io severo; tuttavia
l’esperienza mostra, contrariamente alle nostre aspettative, che il Super-io
può acquistare lo stesso un carattere di inesorabile rigore anche se
l’educazione era stata indulgente e benevola e aveva evitato il piú possibile
minacce e castighi. Ritorneremo piú avanti su questa contraddizione, quando ci
occuperemo delle trasformazioni pulsionali durante la formazione del Super-io.
Sulla
metamorfosi della relazione parentale in Super-io non posso dirvi tutto quello
che vorrei, in parte perché questo processo è talmente intricato che la sua
esposizione non rientra nell’ambito di un’introduzione come questa vuol essere,
in parte perché noi stessi non siamo sicuri di averlo pienamente compreso.
Accontentatevi dunque dei seguenti accenni.
Fondamento
di tale processo è la cosiddetta “identificazione”, cioè l’assimilazione di un
Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto
determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in
sé. Non inopportunamente l’identificazione è stata paragonata
all’incorporazione orale, cannibalesca, della persona estranea.
L’identificazione è una forma molto importante di legame con un’altra persona,
verosimilmente la piú primitiva, e non è la stessa cosa di una scelta
oggettuale. La differenza può essere espressa all’incirca cosí: se il fanciullo
si identifica col padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa
oggetto della sua scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso il
suo Io viene modificato secondo il modello del padre, nel secondo caso ciò non
è necessario. Identificazione e scelta oggettuale sono in larga misura
indipendenti; ci si può tuttavia identificare anche con una persona che, ad
esempio, è stata assunta come oggetto sessuale, e modificare secondo essa il
proprio Io. È opinione comune che l’oggetto sessuale eserciti un potente
influsso sull’Io con particolare frequenza nelle donne e che questo sia un
tratto caratteristico della femminilità. Di tutte le relazioni fra
identificazione e scelta oggettuale, ve n’è una che è di gran lunga la piú
istruttiva e di cui devo avervi già parlato una volta nelle precedenti lezioni.
Può essere osservata facilmente nei bambini e negli adulti, nelle persone
normali e nei malati. Quando si è perso l’oggetto o si è dovuto abbandonarlo,
si trova abbastanza spesso una compensazione identificandosi con lui,
erigendolo nuovamente nel proprio Io, cosí che in questo caso la scelta
oggettuale regredisce, per cosí dire, all’identificazione.
Io
stesso non sono completamente soddisfatto di questi accenni al problema
dell’identificazione, ma essi non saranno stati vani se siete disposti a
concedermi che l’insediamento del Super-io può essere descritto come un caso
ben riuscito di identificazione con l’istanza parentale. Ciò che decide in
favore di tale interpretazione è il fatto seguente: questa neocreazione di
un’istanza superiore nell’Io è strettamente vincolata alla sorte del complesso
edipico, talché il Super-io appare come l’erede di questo legame emotivo cosí
importante per l’infanzia. Col venir meno del complesso edipico, il bambino ha
dovuto ovviamente rinunciare agli intensi investimenti oggettuali che aveva
concentrato sui genitori, e come risarcimento per questa perdita oggettuale
vengono ora oltremodo rafforzate le identificazioni con i genitori
probabilmente già presenti da molto tempo nel suo Io. Tali identificazioni, in
quanto sedimenti di investimenti oggettuali abbandonati, si riprodurranno piú
tardi abbastanza spesso nella vita del bambino; comunque è pienamente conforme
al significato emotivo del primo verificarsi di tale trasformazione che al suo
prodotto venga riservata nell’Io una posizione speciale. L’indagine
approfondita ci mostra anche che il Super-io langue e si atrofizza se il
superamento del complesso edipico riesce solo in parte. Nel corso dello
sviluppo, il Super-io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono
subentrate al posto dei genitori, ossia educatori, insegnanti e modelli ideali.
Normalmente esso si allontana sempre piú dalle individualità originarie dei
genitori, diventa per cosí dire piú impersonale. Non bisogna neanche
dimenticare che il bambino stima diversamente i suoi genitori in periodi
diversi della vita. All’epoca in cui il complesso edipico cede il posto al
Super-io, essi gli appaiono una cosa meravigliosa; piú tardi scadono molto. I
bambini si identificano anche con questi genitori piú tardi e queste
identificazioni forniscono persino, di norma, importanti contributi alla
formazione del carattere, che in tal caso riguardano solo l’Io [vedi p. 200],
non influiscono piú sul Super-io, il quale è stato determinato dalle primissime
imagines parentali.
Spero
che sin d’ora vi siate fatti l’idea che il concetto da noi introdotto di
Super-io descrive realmente un rapporto strutturale e non incarna semplicemente
un’astrazione come quella della coscienza morale. Ci resta da menzionare ancora
un’importante funzione che attribuiamo a questo Super-io. Esso è anche
l’esponente dell’ideale dell’Io, al quale l’Io si commisura, che emula, e la
cui esigenza di una sempre piú ampia perfezione si sforza di adempiere. Non vi
è dubbio che questo ideale dell’Io è il sedimento dell’antica immagine dei
genitori, l’espressione dell’ammirazione del bambino che li considerava allora
creature perfette.
[...]
Torniamo
al Super-Io. Gli abbiamo attribuito l’autoosservazione, la coscienza morale e
la funzione di idea. Da quanto abbiamo esposto sulla sua origine deriva che
esso ha, come premesse, un fatto biologico di importanza indicibile e un fatto
psicologico denso di conseguenze, cioè la larga dipendenza della creatura umana
dai suoi genitori e il complesso edipico, fatti che a loro volta sono fra loro
intimamente connessi. Il Super-io è per noi il rappresentante di tutte le
restrizioni morali, l’avvocato dell’anelito alla perfezione; è, in breve, ciò
che siamo riusciti a comprendere in termini psicologici degli aspetti piú
“elevati” della vita umana. Poiché risale essenzialmente all’influsso dei
genitori, degli educatori e cosí via, il suo significato risulterà ancora piú
chiaro se ci rivolgiamo a queste sue radici. Di solito i genitori e le autorità
analoghe seguono, nell’educazione del bambino, i precetti del proprio Super-io.
Quale che sia l’accomodamento a cui il loro Io è giunto nei confronti del loro
Super-io; essi sono severi ed esigenti nell’educazione del bambino. Hanno
dimenticato le difficoltà della propria infanzia e sono contenti di potersi ora
identificare pienamente con i propri genitori, che a suo tempo hanno imposto
loro tante gravi limitazioni. Cosí, in realtà, il Super-io del bambino non
viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro
Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della
tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono
trasmessi di generazione in generazione. È facile indovinare di quanto aiuto
possa essere la considerazione del Super-io per comprendere il comportamento
sociale degli uomini – quello della delinquenza ad esempio – e forse anche per
trarne suggerimenti pratici per l’educazione. L’errore delle cosiddette
concezioni materialistiche della storia consiste probabilmente proprio nella
sottovalutazione di questo fattore. I fautori di queste concezioni lo ignorano,
sostenendo che le “ideologie” degli uomini non sono altro che il risultato e la
sovrastruttura delle condizioni economiche esistenti. In questo c’è una parte
di verità, ma molto probabilmente non tutta la verità. L’umanità non vive
interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e quella del
popolo, che solo lentamente cedono alle influenze del presente, a nuovi
cambiamenti, sopravvivono nelle ideologie del Super-io e, finché agiscono per
mezzo di esso, hanno nella vita umana una parte possente che non dipende dalle
condizioni economiche. [Vedi oltre, pp. 281 sgg.]
Nel
l921 ho tentato di applicare la differenziazione tra Io e Super-io in uno
studio sulla psicologia delle masse. Giunsi a una formula del genere dal punto
di vista psicologico, la massa è un’unione di singoli che hanno assunto nel
loro Super-io la medesima persona e si sono identificati fra loro nel proprio
Io in base a questo elemento comune. Naturalmente, essa vale solo per le masse
che hanno un capo. Se possedessimo piú esempi pratici di questo tipo, l’ipotesi
del Super-io cesserebbe di apparirci sorprendente e ci libereremmo interamente
di quell’imbarazzo che pure ci assale ancora quando, abituati all’atmosfera del
mondo sotterraneo, ci muoviamo negli strati piú superficiali, piú elevati
dell’apparato psichico. Ovviamente, separando il Super-io non crediamo di aver
detto l’ultima parola sulla psicologia dell’Io. Si tratta piuttosto di un primo
inizio, ma, in questo caso, difficile non è solo l’inizio.
Ora ci
aspetta un altro problema, all’estremità opposta, per cosí dire, dell’Io. Esso
viene posto da un’osservazione fatta durante il lavoro analitico. È
un’osservazione in realtà antichissima, ma, come accade sovente, c’è voluto
molto tempo prima che ci si decidesse a riconoscerne il valore. Come sapete,
l’intera teoria psicoanalitica è fondata in effetti sulla percezione della
resistenza che il paziente ci oppone quando tentiamo di rendergli cosciente il
suo inconscio. Segno obiettivo della resistenza è che le associazioni vengono a
mancare o si allontanano decisamente dal tema trattato. Il malato può anche
riconoscere soggettivamente la resistenza per il fatto che prova sentimenti
penosi quando si avvicina al tema. Ma quest’ultimo segno può anche non esserci.
Se allora diciamo al paziente che il suo comportamento prova che è in stato di
resistenza, risponde di non saperne nulla, di notare soltanto una maggior
difficoltà nelle associazioni. Risulta che avevamo ragione; ma risulta anche
che la sua resistenza era inconscia, altrettanto inconscia quanto il rimosso,
al cui ricupero noi lavoriamo. Avremmo dovuto da tempo domandarci da quale
parte della sua vita psichica scaturisca una simile resistenza inconscia. Un
principiante in xxxxxxxx si affretterebbe a rispondere che è appunto la
resistenza dell’inconscio. Risposta ambigua e inservibile! Se con ciò si
intende che la resistenza scaturisce dal rimosso, replicheremo a nostra volta:
certamente no! Al rimosso dobbiamo attribuire piuttosto una forte spinta
ascensionale, un’urgenza di farsi strada fino alla coscienza. La resistenza può
essere solo una manifestazione dell’Io, il quale a suo tempo ha eseguito la
rimozione e adesso vuole mantenerla. Questa è stata sempre la nostra opinione,
anche prima; ma da quando supponiamo che vi sia nell’Io una particolare
istanza, il Super-io, volta a limitare e respingere, possiamo dire che la
rimozione è opera di questo Super-io, che l’effettua esso stesso oppure
mediante l’Io che sta ai suoi ordini. Se dunque si verifica che nell’analisi la
resistenza non diviene cosciente al paziente, ciò significa o che il Super-Io e
l’Io in situazioni molto importanti possono operare in maniera inconscia, o –
ciò che sarebbe ancor piú rilevante – che l’Io e il Super-io stessi sono in
qualche loro parte inconsci. In entrambi i casi non resta che prendere atto
della spiacevole scoperta che (Super-)io e conscio da un lato, rimosso e
inconscio dall’altro, non sono affatto coincidenti.
A
questo punto, Signore e Signori, ho bisogno di tirare il fiato – anche voi vi
sentirete sollevati – e di scusarmi prima di continuare. Mio intendimento è
fornirvi alcune nozioni supplementari a un’introduzione alla psicoanalisi che
ho iniziato quindici anni fa, ma sono costretto a comportarmi come se nel
frattempo anche voi non vi foste occupati d’altro che di psicoanalisi. So che
questa è una pretesa fuori luogo; ma non ho altra scelta, non posso far
diversamente. Ciò dipende dal fatto che è molto difficile, in genere, far
capire la psicoanalisi a chi non è psicoanalista. Credetemi, non ci fa affatto
piacere suscitare l’impressione di essere membri di un’associazione segreta e
di esercitare una scienza occulta. Eppure abbiamo dovuto convincerci, e
proclamare ben alto, che nessuno ha il diritto di interloquire a proposito
della psicoanalisi se non ha fatto determinate esperienze che si possono
acquisire solo mediante un’analisi condotta sulla propria persona. Allorché,
quindici anni fa, vi tenni le mie lezioni, cercai di risparmiarvi certi lati
speculativi della nostra dottrina, ma è appunto a questi lati che si
riallacciano le nuove acquisizioni teoriche di cui intendo parlarvi oggi.
Ritorno al nostro argomento. Nel dubbio se l’Io e il Super-io possano essere essi stessi inconsci o soltanto esplicare effetti inconsci, ci siamo decisi per buoni motivi a favore della prima possibilità. Sí, grandi zone dell’Io e del Super-io possono rimanere inconsce, e normalmente sono inconsce. Ciò significa che la persona non sa nulla dei loro contenuti e bisogna fare un certo sforzo per renderglieli coscienti. È un fatto che Io e conscio, rimosso e inconscio non coincidono. Sentiamo il bisogno di rivedere radicalmente la nostra posizione riguardo al problema conscio-inconscio. A tutta prima saremmo inclini a ridurre di molto il valore del criterio di consapevolezza, essendosi esso dimostrato cosí poco affidabile. Ma avremmo torto. È come la nostra vita: non vale molto, ma è tutto ciò che abbiamo. Senza il fatto della qualità dell’esser cosciente noi saremmo perduti nella tenebra della psicologia del profondo; ma possiamo cercare di trovare un nuovo orientamento.
Su ciò che si deve chiamare conscio non abbiamo bisogno di
discutere, poiché non v’è motivo di dubbio. Il piú antico e il migliore
significato del termine “inconscio” è quello descrittivo; chiamiamo inconscio
un processo psichico di cui dobbiamo supporre l’esistenza – per esempio perché
la deduciamo dai suoi effetti – ma del quale non sappiamo nulla. La nostra
relazione con questo processo è la stessa che abbiamo con un processo psichico
che ha luogo in un altro uomo, salvo che è, appunto, nostro. Volendo esprimerci
ancora piú correttamente, modificheremo la proposizione nel senso che
chiameremo inconscio un processo quando dobbiamo supporre che al momento
sia in atto, benché, al momento, non ne sappiamo nulla. Questa
precisazione ci fa pensare che la maggior parte dei processi consci siano
consci solo per breve tempo; ben presto diventano latenti, ma possono
facilmente ridiventare coscienti. Potremmo anche dire che sono diventati
inconsci, se fosse del tutto certo che allo stato di latenza essi sono ancora
alcunché di psichico.
Fin qui non avremmo appreso nulla di nuovo, né avremmo
acquistato il diritto di introdurre nella psicologia il concetto di inconscio.
Ma poi sopraggiunge la nuova esperienza, di cui un primo esempio sono gli atti
mancati. Per spiegare, ad esempio, un lapsus verbale, ci vediamo costretti a
supporre che quella data persona avesse avuto l’intenzione di dire una certa
cosa. Lo indoviniamo con certezza dall’avvenuta perturbazione del discorso; ma
l’intenzione non si era fatta valere, dunque era inconscia. Se in seguito la
dimostriamo all’autore del lapsus, egli può riconoscerla come cosa familiare
(nel qual caso essa era inconscia solo temporaneamente), oppure rinnegarla come
estranea (nel qual caso essa era permanentemente inconscia). Rifacendoci a
questa esperienza, ci arroghiamo il diritto di dichiarare inconscio anche ciò
che abbiamo designato come latente.
La considerazione di questi rapporti dinamici ci permette
adesso di distinguere due specie di inconscio: uno, che si trasforma facilmente
in conscio, in condizioni spesso ricorrenti, e un altro, per il quale questa
conversione avviene difficilmente, solo in seguito a un notevole sforzo, e
forse non avviene mai. Per sfuggire all’ambiguità – se intendiamo, cioè,
riferirci all’uno o all’altro inconscio, se usiamo il termine nel senso
descrittivo o in quello dinamico – noi adottiamo un espediente che è insieme
semplice e lecito. Chiamiamo “preconscio” quell’inconscio che è solo latente, e
quindi diventa facilmente conscio, e riserviamo all’altro la designazione di
“inconscio”. Abbiamo ora tre termini: “conscio”, “preconscio” e “inconscio”,
con i quali possiamo destreggiarci nella descrizione dei fenomeni psichici.
Ripetiamolo ancora una volta: in senso puramente descrittivo anche il
preconscio è inconscio, ma noi non lo designiamo cosí, tranne che in
un’esposizione non rigorosa o quando dobbiamo difendere l’esistenza dei
processi inconsci in genere nella vita psichica.
Mi concederete, spero, che finora tutto fila liscio e ci dà
il modo di muoverci comodamente. Sí, ma purtroppo il lavoro psicoanalitico ci
costrinse in passato a impiegare la parola “inconscio” in un altro senso
ancora, che era il terzo, e senza dubbio questo può aver creato confusione.
Quando in noi era nuova e forte l’impressione che un ampio e importante campo
della vita psichica è normalmente sottratto alla conoscenza dell’Io, cosí che i
processi ivi svolgentisi devono essere considerati inconsci nel vero senso
dinamico, intendemmo il termine “inconscio” anche in un senso topico o
sistematico; parlammo di un “sistema” del preconscio e di un “sistema”
dell’inconscio, di un conflitto dell’Io con il sistema Inc; facemmo sí
che la parola denotasse sempre piú una provincia psichica piuttosto che una
qualità dello psichico. A questo punto la scoperta, in effetti scomoda, che
anche zone dell’Io e del Super-io sono inconsce nel senso dinamico, costituisce
per noi un’agevolazione, ci permette di eliminare una complicazione. Ci accorgiamo
che non abbiamo il diritto di chiamare “sistema Inc” il territorio
psichico estraneo all’Io, poiché il carattere di essere inconscio non è
esclusivo ad esso. Sta bene, allora, non useremo piú il termine “inconscio” nel
senso sistematico, ma daremo a quanto finora abbiamo cosí designato un nome
migliore, che non si presti piú a malintesi. Adeguandoci all’uso linguistico di
Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Groddeck, lo chiameremo d’ora in
poi “Es”. Questo pronome impersonale sembra particolarmente
adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua
estraneità all’Io. Super-io, Io ed Es sono dunque i tre regni territori,
province, in cui noi scomponiamo l’apparato psichico della persona, e delle cui
reciproche relazioni ci occuperemo in quanto segue.
Prima, soltanto una breve parentesi. Suppongo che siate
scontenti del fatto che le tre qualità della consapevolezza e le tre province
dell’apparato psichico non si siano combinate in tre pacifiche coppie e che
vediate in ciò qualcosa che offusca in certo modo i nostri risultati. A mio
parere, però non dovremmo rammaricarcene, ma dirci che non avevamo allora
diritto a procedere a una ripartizione cosí netta. Consentitemi di addurre un
paragone (è vero che i paragoni non risolvono nulla, ma possono far sí che ci
si senta piú a proprio agio). Immagino un paese con una conformazione del suolo
varia – terreno collinoso, pianura e una catena di laghi – e con popolazione
mista: vi abitano tedeschi magiari e slovacchi, i quali per di piú svolgono
attività diverse. Ora, la ripartizione potrebbe essere tale per cui i tedeschi,
che sono allevatori di bestiame, abitino nel territorio collinoso, i magiari,
che coltivano i cereali e la vite, in quello pianeggiante, e gli slovacchi, che
praticano la pesca e intrecciano vimini, sui laghi. Se questa ripartizione
corrispondesse a un taglio netto, un Wilson ne sarebbe deliziato, e pensate
come sarebbe comodo a scuola per l’ora di geografia. È verosimile invece che,
se vi mettete in viaggio per la regione, troviate meno ordine e piú mescolanza.
Tedeschi magiari e slovacchi vivono sparsi ovunque; nel territorio collinoso vi
sono pure campi coltivati e anche in pianura viene allevato bestiame. Alcune
cose, naturalmente, sono tali e quali ve le siete aspettate, giacché sui monti
non si trovano pesci e nell’acqua non cresce vino. In conclusione, l’immagine
del paese che vi siete portata appresso può corrispondere nell’insieme; nei
dettagli dovrete tollerare alcune discordanze.
A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia da
comunicarvi molto di nuovo sull’Es. È la parte oscura, inaccessibile della
nostra personalità; il poco che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del
lavoro onirico e della formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la
maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere solo per
contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un
caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto
all’estremità verso il somatico, da cui accoglie i bisogni pulsionali, i quali
trovano dunque nell’Es la loro espressione psichica, non sappiamo però in quale
substrato. Attingendo alle pulsioni, l’Es si riempie di energia, ma non
possiede un’organizzazione, non esprime una volontà unitaria, ma solo lo sforzo
di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del
principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi
dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono
uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt’al piú,
sotto la dominante costrizione economica di scaricare energia, convergono in
formazioni di compromesso. Non vi è nulla nell’Es che si possa paragonare alla
negazione, e si osserva pure con sorpresa un’eccezione all’assioma dei filosofi
che spazio e tempo sono forme necessarie dei nostri atti mentali. Nulla si
trova nell’Es che corrisponda all’idea di tempo, nessun riconoscimento di uno
scorrere temporale e – cosa notevolissima e che attende un’esatta valutazione
filosofica – nessun’alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere
del tempo. Impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche
impressioni che sono state sprofondate nell’Es dalla rimozione, sono
virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena
accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti mediante il lavoro analitico,
essi possono esser riconosciuti come passato, esser svalutati e privati del
loro investimento energetico; anzi su ciò si fonda, e non in minima parte,
l’effetto terapeutico del trattamento analitico.
Ho costantemente l’impressione che da questo fatto
accertato al di là di ogni dubbio dell’inalterabilità del rimosso ad opera del
tempo, noi abbiamo tratto troppo poco profitto per la nostra teoria. Eppure qui
sembra aprirsi un varco capace di farci accedere alle massime profondità.
Purtroppo nemmeno io sono andato oltre su questo punto.
Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il
bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete,
quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i
processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro
nell’Es non c’è altro. Sembra persino che l’energia di questi moti pulsionali
si trovi in uno stato diverso che nelle altre sfere psichiche, che sia assai
piú mobile e idonea alla scarica; altrimenti. infatti, non avrebbero luogo
quegli spostamenti e quelle condensazioni che sono caratteristici dell’Es e che
prescindono cosí totalmente dalla qualità di ciò che è investito (di ciò che
nell’Io chiameremmo una rappresentazione). Cosa daremmo per poter comprendere
meglio queste cose! Vedete, comunque, che siamo in grado di indicare anche
altre proprietà dell’Es oltre a quella di essere inconscio, e che è possibile
che parti dell’Io e del Super-io siano inconsce senza condividere i caratteri
primitivi e irrazionali dell’Es.
Giungiamo piú rapidamente a una caratterizzazione dell’Io
vero e proprio – per quanto esso si lascia distinguere dall’Es e dal Super-io –
esaminando la sua relazione con la parte piú esterna, superficiale,
dell’apparato psichico, che noi designiamo come sistema P-C
[percettivo-cosciente]. Questo sistema è rivolto verso il mondo esterno, fa da intermediario
alle percezioni che ne provengono, e in esso sorge, nel corso del suo
funzionamento, il fenomeno della coscienza. È l’organo sensorio dell’intero
apparato, ricettivo del resto non solo agli eccitamenti provenienti
dall’esterno, ma anche a quelli che provengono dall’interno della vita
psichica. La concezione secondo cui l’Io è quella parte dell’Es che è stata
modificata dalla vicinanza e dall’influsso del mondo esterno, non ha quasi
bisogno di essere giustificata: è questa la parte predisposta per la ricezione
degli stimoli e per la protezione dagli stessi, paragonabile allo strato
corticale di cui si circonda il grumo di materia vivente. Il rapporto con il
mondo esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito
di rappresentarlo presso l’Es; fortunatamente per l’Es, il quale, incurante di,
questa preponderante forza esterna, e anelando ciecamente al soddisfacimento
pulsionale, non sfuggirebbe all’annientamento. Nell’adempiere tale funzione,
l’Io deve osservare il mondo esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle
tracce mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante l’esercizio
dell’esame di realtà, ciò che in questa immagine del mondo esterno è
un’aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento. Per incarico dell’Es,
l’Io domina gli accessi alla motilità, ma ha inserito tra bisogno e azione la
dilazione dell’attività di pensiero, durante la quale utilizza i residui
mnestici dell’esperienza. In tal modo ha detronizzato il principio di piacere
da cui il decorso dei processi dell’Es è integralmente dominato e l’ha
sostituito con il principio di realtà, che promette piú sicurezza e maggior
successo.
Anche il rapporto con il tempo, cosí difficile da
descrivere, è reso possibile all’Io tramite il sistema percettivo; è quasi
fuori dubbio che il modo di operare di questo sistema sta all’origine della
rappresentazione del tempo. Ciò che però caratterizza l’Io in modo del tutto
particolare, differenziandolo dall’Es, è una tendenza a sintetizzare i propri
contenuti, a riassumere e unificare i propri processi psichici, tendenza che
manca completamente all’Es. Quando prossimamente tratteremo delle pulsioni
nella vita psichica, riusciremo, almeno spero, a ricondurre alla sua fonte
questo carattere essenziale dell’Io. Questo carattere soltanto produce
quell’alto grado di organizzazione di cui l’Io ha bisogno nelle sue prestazioni
piú alte. L’Io evolve dalla percezione delle pulsioni alla loro padronanza, ma
quest’ultima viene raggiunta soltanto se la rappresentanza [psichica] delle
pulsioni è inquadrata in un’unità piú ampia, inclusa in un contesto coerente.
Per dirla alla buona, l’Io è il paladino, nella vita psichica, della ragione e
dell’avvedutezza, l’Es rappresenta invece le passioni sfrenate.
Finora ci siamo lasciati impressionare dai molti meriti e
dalle facoltà dell’Io, ma è tempo di guardare anche al rovescio della medaglia.
L’Io, in fin dei conti, è soltanto una parte dell’Es, una parte opportunamente
modificata dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno. Sotto l’aspetto
dinamico è debole, avendo preso a prestito le sue energie dall’Es, e non ci
sfuggono i metodi – i “trucchi”, si potrebbe dire – con i quali l’Io sottrae
all’Es ulteriori importi di energia. Uno di tali metodi è, per esempio,
l’identificazione con oggetti, siano essi ancora presenti o abbandonati da
tempo. Gli investimenti oggettuali derivano dalle pretese pulsionali dell’Es.
L’Io deve in primo luogo registrarle. Ma, nell’identificarsi con l’oggetto, si
raccomanda all’Es al posto di quello, mirando ad attirare su di sé la libido
dell’Es. Abbiamo già visto [pp. 176 sg.] che nel corso della vita l’Io accoglie
in sé un gran numero di tali sedimenti di passati investimenti oggettuali.
Insomma l’Io deve eseguire le intenzioni dell’Es, e assolve il suo compito
andando alla ricerca delle circostanze che gli permettono di meglio eseguire
tali intenzioni. Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a
quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la
locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere
il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso
il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là
dove quello ha scelto di andare.
C’è una parte dell’Es da cui l’Io si è separato per le
resistenze della rimozione. Ma la rimozione non penetra ulteriormente nell’Es:
il rimosso confluisce con la parte rimanente dell’Es.
Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente
due padroni. Il povero Io ha la vita ancora piú dura: è costretto a servire tre
severissimi padroni, deve sforzarsi di mettere d’accordo le loro esigenze e le
loro pretese. Queste sono sempre fra loro discordanti e appaiono spesso del
tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce cosí frequentemente
nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es. Se
si seguono gli sforzi cui è costretto l’Io per soddisfarli contemporaneamente,
o meglio per ubbidire ad essi contemporaneamente, non ci parrà fuori luogo
avere personificato questo Io, averlo presentato come un essere a sé stante. Il
poveretto si sente stretto da tre parti, minacciato da tre specie di pericoli,
ai quali reagisce, in caso estremo; sviluppando angoscia. L’Io, data la sua
origine dalle esperienze del sistema percettivo, è destinato a rappresentare le
richieste del mondo esterno, ma al tempo stesso vuole essere il fedele
servitore dell’Es, rimanere con l’Es in buona armonia, raccomandarglisi quale
oggetto e attirarne su di sé la libido. Nel suo sforzo di fare da intermediario
fra l’Es e la realtà, l’Io è spesso costretto a rivestire i comandi inc
dell’Es con le proprie razionalizzazioni prec, a occultare i conflitti
dell’Es con la realtà, a far credere, con diplomatica ipocrisia, di aver preso
in considerazione la realtà anche quando l’Es è rimasto rigido e inflessibile.
Dall’altro canto, viene osservato passo per passo dal severo Super-io, che,
senza tener conto delle difficoltà provenienti dall’Es e dal mondo esterno,
esige l’ottemperanza a determinate norme di comportamento, e punisce l’Io, in
caso di inadempienza, con spasmodici sentimenti di inferiorità e di colpa.
Aizzato cosí dall’Es, limitato dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta
per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze
e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e si comprende perché tanto
spesso non riusciamo a reprimere l’esclamazione: “La vita non è facile!” Se è
costretto ad ammettere le sue debolezze, l’Io prorompe in angoscia: angoscia
reale dinanzi al mondo esterno, angoscia morale dinanzi al Super-io, angoscia
nevrotica dinanzi alla forza delle passioni dell’Es.
Desidero illustrarvi i rapporti strutturali della
personalità psichica che ho testé esposto in uno schizzo senza pretese che vi
sottopongo.
inserire grafico
Come vedete, il Super-io affonda nell’Es; quale erede del
complesso edipico ha infatti intime connessioni con lui; è piú distante dal
sistema percettivo di quanto lo sia l’Io. L’Es ha contatti con il mondo esterno
solo attraverso l’Io, perlomeno in questo schema. Oggi è certamente difficile
dire fino a che punto il disegno sia esatto. In un punto non lo è di certo: lo
spazio che occupa l’Es inconscio dovrebbe essere incomparabilmente piú grande
di quello dell’Io o del preconscio. Vi prego di correggerlo voi mentalmente.
E ora, per concludere questa esposizione certamente
faticosa e forse poco illuminante, ancora un avvertimento! In questa
suddivisione della personalità in Io, Super-io ed Es, non dovete certo pensare
a confini netti, come quelli tracciati artificialmente dalla geografia
politica. I contorni lineari, come quelli del nostro disegno o della pittura
primitiva, non sono in grado di rendere la natura dello psichico; servirebbero
piuttosto aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come si trovano nella
pittura moderna. Dopo aver distinto, dobbiamo lasciar confluire di nuovo
assieme quanto è stato separato. Non siate troppo severi nel giudicare un primo
tentativo di dare una raffigurazione visiva a qualcosa di cosí difficile da
afferrare com’è lo psichico. È molto probabile che sviluppando queste
distinzioni in persone diverse si vada incontro a grandi variazioni; è
possibile che durante il loro stesso funzionamento esse subiscano modificazioni
e temporanee recessioni. In particolare, per quella che filo geneticamente è
l’ultima e la piú delicata, la differenziazione fra l’Io e il Super-io, sembra
valere qualcosa del genere. È indubbio che lo stesso effetto può essere
provocato da malattia psichica. Ci è anche facile immaginare che certe pratiche
mistiche possano riuscire a rovesciare i normali rapporti fra i singoli
territori della psiche, cosí che, per esempio, la percezione sia in grado di
cogliere eventi profondamente radicati nell’Io o nell’Es, che le sarebbero
stati altrimenti inaccessibili. Che per questa via si possa giungere in
possesso della sapienza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è lecito
dubitare. Tuttavia bisogna ammettere che gli sforzi terapeutici della
psicoanalisi seguono una linea in parte analoga. La loro intenzione è in
definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo piú indipendente dal Super-io, di
ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, cosí che
possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. È
un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee.
S. Freud, Opere,
Boringhieri, Torino, 1989, vol. XI, pagg. 170-177, 179-190