Se partiamo dalla struttura ontologica fondamentale per la quale l’essere è linguaggio, cioè autorappresentazione, struttura che ci si è rivelata in base all’esperienza ermeneutica dell’essere, il risultato a cui arriviamo non è soltanto il carattere di evento del bello e la struttura eventuale di ogni comprendere. Come il bello si è rivelato essere il modello di una struttura ontologica universale, lo stesso accade per il concetto di verità che ad esso si ricollega. Anche qui possiamo prendere le mosse dalla tradizione metafisica, ma anche qui dovremo domandarci che cosa di essa rimanga valido per l’esperienza ermeneutica. secondo la metafisica tradizionale l’esser vero è uno delle determinazioni trascendentali dell’ente, ed è legato strettamente con il suo essere buono (nel che ritorna un richiamo al bello). Si può ricordare qui l’affermazione di san Tommaso, secondo cui il bello va definito in rapporto al conoscere, il buono in rapporto al desiderare. Bello è ciò alla cui vista il desiderio trova acquietamento: cuius ipsa apprehensio placet. Il bello aggiunge al bene un riferimento alla facoltà conoscitiva: addit supra bonum quemdam ordinem ad vim cognoscitivam. Il “risplendere” del bello appare qui come una luce che splende sopra c ciò che ha forma: lux splendens supra formatum.
Cerchiamo di sciogliere questa affermazione dal legame della forma rifacendoci ancora una volta a Platone. Egli è stato il primo ad indicare come aspetto costitutivo del bello la ajlhvqeia, ed è chiaro che cosa intenda con questo: il bello, cioè il modo in cui il bene appare, si fa manifesto da sé stesso nel suo essere, si presenta. Ciò che così si presenta, in tale presentarsi non si distingue da sé. Non è qualcosa per sé e qualcosa per l’altro. E non è nemmeno in qualcos’altro. Non è uno splendore che illumini una forma venendo dal di fuori. Invece, è proprio dell’essere stesso della forma questo risplendere, questo presentarsi o rappresentarsi. Da ciò consegue che, rispetto all’essere del bello, il bello deve sempre ontologicamente intendersi come “immagine”. Non fa differenza che appaia “esso stesso” o la sua immagine. Come abbiamo visto, il carattere metafisico del bello è costituito proprio dal fatto che in esso si salda lo iato tra idea e fenomeno. Esso è certamente “idea”, cioè appartiene ad un ordine dell’essere che si innalza come in sé stabile e permanente al di sopra dello scorrere dei fenomeni. Ma è altrettanto chiaro che esso stesso appare, come un “fenomeno”. Come abbiamo visto, ciò non costituisce un’istanza contro la dottrina delle idee, ma solo una esemplificazione concentrata del problema che essa implica. Dove chiama in causa l’evidenza del bello, Platone non è più costretto a rimanere sul piano dell’opposizione tra l’idea e la sua immagine. È il bello stesso che insieme pone e toglie questa opposizione.
Il richiamo a Platone si rivela ancora una volta significativo anche per il problema della verità. Nell’analisi dell’opera d’arte abbiamo cercato di mostrare che l’autorappresentarsi va considerato come il vero essere dell’opera. A questo scopo, abbiamo fatto riferimento al concetto di gioco, e già questo concetto ci aveva rinviati a contesti più generali. Si era infatti visto che la verità di ciò che ci si rappresenta nel gioco non è oggetto di un “credere” o “non credere” specifico, giacché basta la pura e semplice partecipazione all’evento del gioco.
Nell’ambito estetico, questo ci sembra evidente. anche quando un poeta è onorato come un vate e veggente, non si intende mai, con questo, vedere nella sua poesia un’autentica profezia: così, per esempio, nell’immagine poetica hölderliniana del ritorno degli dei. Il poeta invece è un veggente in quanto egli stesso rappresenta ciò che è, ciò che era e sarà, e così attesta egli stesso ciò di cui parla. È vero che il dire poetico ha in sé qualcosa di ambiguo, esattamente come il dire dell’oracolo. Ma proprio in ciò consiste la sua verità ermeneutica. chi vede in ciò una sorta di estetico disimpegno poetico e di inattendibilità, che sono assenti invece nella serietà dell’esistenza, dimentica evidentemente quanto sia fondamentale, per l’esperienza ermeneutica del mondo, la finitezza dell’uomo. L’ambiguità non costituisce la debolezza dell’oracolo, ma la sua forza. Non ha quindi alcun senso, per esempio, voler giudicare Hölderlin o Rilke sulla base del fatto che essi credessero o no ai loro dei e ai loro angeli.
La fondamentale definizione kantiana del piacere estetico come piacere disinteressato non ha solo il senso negativo di escludere che l’oggetto del gusto possa essere adoperato come utile o desiderato come buono, ma significa, positivamente, che l’“esistenza” non può aggiungere nulla al contenuto estetico del piacere, al “puro apparire”, appunto perché l’essere estetico è autorappresentazione. Solo dal punto di vista morale può sorgere un interesse per l’esistenza del bello, per esempio per il canto dell’usignolo, la cui imitazione simulatrice ha per Kant qualcosa di moralmente offensivo. Il problema che si pone è però, naturalmente, se da questa struttura dell’essere estetico consegua che in esso non si può cercare alcuna verità, poiché non vi è in esso alcuna conoscenza. Nelle nostre analisi estetiche abbiamo mostrato la ristrettezza del concetto di conoscenza che pesa qui sull’impostazione kantiana, e sulla base del problema della verità dell’arte siano stati condotti a scoprire la via dell’ermeneutica, sulla quale arte e storia ci sono apparse unite.
Anche qui rispetto al fenomeno ermeneutico si è rivelato come una chiusura ingiustificata l’atteggiamento di chi intende il comprendere come lo sforzo di una coscienza puramente filologica, che sarebbe indifferente alla “verità” dei testi con cui si ha a che fare. D’altro lato è apparso anche chiaro che la comprensione di un testo non può presupporre come già risolto, dal punto di vista di una superiore conoscenza obiettiva, il problema della verità, sicché la comprensione si risolva nel compiacersi di questa nostra superiorità di conoscenza rispetto al testo. Tutta la dignità dell’esperienza ermeneutica - e anche il significato della storia per la conoscenza umana in generale - c’è parsa invece risiedere nel fatto che in essa non c’è un dato che si tratti semplicemente di coordinare con il resto della nostra conoscenza, ma che ciò che ci viene incontro con il passato ci dice qualcosa. La comprensione non realizza dunque la sua perfezione in una virtuosità tecnica capace di “comprendere” qualsiasi scritto. È invece autentica esperienza, cioè incontro con qualcosa che si fa valere come verità.
Il fatto che tale incontro, per le ragioni che abbiamo chiarito, si compia nell’attuarsi della interpretazione nel linguaggio, e che così il fenomeno del linguaggio e del comprendere si presenti come universale modello dell’essere e della conoscenza, permette ora di determinare più precisamente il senso della verità che è in gioco nel comprendere. Abbiamo visto che anche le parole che portano ad espressione un contenuto sono un evento speculativo. La loro verità risiede in fatti in ciò che con esse vien detto, e non nell’impotente soggettiva particolarità di un opinare. Si ricordi che, come si è visto, la comprensione di ciò che qualcuno ci dice non è un’operazione di penetrazione del suo stato d’animo, che ci riveli la vita ulteriore del parlante. È bensì vero che, in ogni atto di comprensione, l’oggetto acquista la sua piena determinatezza di senso in rapporto ai caratteri contingenti della situazione. Ma questo determinarsi in base alla situazione al contesto, che fa di un discorso una vera totalità di senso e in virtù di cui il detto è detto, non è qualcosa che appartenga la parlante, ma alla cosa espressa.
Conformemente a ciò, il dire poetico ci è apparso come un caso particolare caratterizzato dal fatto che il senso, in esso, è totalmente calato e incarnato nell’espressione. Nella poesia, il venire all’espressione è come entrare in certi rapporti di ordine, dai quali la “verità” del detto è sorretta e garantita. Ogni venire all’espressione nel linguaggio, e non solo il dire poetico, ha un po’ questo carattere di attestazione. “Non c’è cosa, dove vien meno il linguaggio.” Il parlare, come abbiamo sottolineato, non è mai solo l’assunzione del particolare sotto concetti generali. Nell’uso delle parole non accade solo che il dato intuitivo venga reso dominabile come caso particolare di un universale; esso diventa invece presente nella parola stessa - allo stesso modo in cui l’idea del bello è presente in ciò che è bello.
Ciò che in questa prospettiva si intende per verità si può ancora definire nel modo più adeguato attraverso il concetto di gioco. Giochi linguistici sono quelli con cui impariamo - e di imparare non cessiamo mai - a capire il mondo. Possiamo qui richiamarci ai risultati della nostra analisi del gioco, in base ai quali si è visto che l’atteggiamento del giocatore non può essere inteso come un atteggiamento della soggettività, giacché è piuttosto il gioco stesso che gioca, includendo in sé i giocatori e facendosi esso stesso l’autentico subjectum del gioco. Conformemente a ciò, anche qui non si deve parlare tanto di un giocare con il linguaggio o con i contenuti dell’esperienza o della trasmissione storica, bensì del gioco che gioca il linguaggio stesso, il quale ci si rivolge, ci si offre e si sottrae, pone domande e si dà esso stesso le risposte, acquietandosi.
Il comprendere non è dunque un gioco nel senso che ci comprende mantenga un atteggiamento di ludico disimpegno e rifiuti di prendere una precisa posizione rispetto all’appello che gli viene rivolto. Questa libertà di riserva e di disimpegno non è qui possibile, ed è questo che si voleva appunto dire con l’applicazione del concetto di gioco al comprendere. Chi comprende è già sempre in un accadere in cui un determinato senso si fa valere. È così pienamente giustificato che per il fenomeno ermeneutico si adoperi lo stesso concetto di gioco che si è usato per l’esperienza del bello. Quando comprendiamo un testo, il significato di esso ci si impone esattamente come ci avvince il bello. Esso si fa valere e si impone già sempre, prima che noi, per così dire, ce ne accorgiamo e siamo in grado di verificare esplicitamente la legittimità della sua pretesa di significare. Ciò che ci viene incontro nell’esperienza del bello e nella comprensione del senso del dato storico trasmesso ha davvero qualcosa della verità del gioco. Nel comprendere siamo inclusi entro un accadere di verità e arriviamo in un certo senso troppo tardi se vogliamo sapere ciò che dobbiamo o non dobbiamo credere.
Così non esiste certamente alcuna comprensione che sia libera da ogni pregiudizio, per quanto la nostra volontà possa proporsi di sottrarsi, nella conoscenza, al dominio dei nostri pregiudizi. Dall’insieme della nostra ricerca è risultato chiaro che la sicurezza fornita dall’impiego di metodi scientifici non basta a garantire la verità. Ciò vale in particolare per le scienze dello spirito, ma non significa una diminuzione della loro scientificità, bensì invece la legittimazione della pretesa di particolare significato umano che da sempre esse avanzano. Che nella conoscenza propria di esse entri in gioco l’essere stesso del soggetto conoscente è un fatto che indica in realtà i limiti del “metodo”, ma non quelli della scienza. Ciò che non è dato dallo strumento del metodo, deve invece e può effettivamente essere realizzato attraverso una disciplina del domandare e del ricercare, che garantisce la verità.
(H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Studi Bompiani, Milano 1995, pp. 554-59)