Il presupposto per lo sviluppo del significato teorico che il carattere linguistico del dialogo possiede per ogni tipo di comprensione ci viene dal romanticismo tedesco. Esso ha mostrato come comprensione e interpretazione siano in definitiva una cosa sola. Solo in seguito a questa scoperta, come abbiamo visto, il concetto di interpretazione, che nel secolo XVIII aveva avuto solo un ristretto significato pedagogico-occasionale, acquista una posizione teoretica centrale, che è attestata in modo caratteristico dalla posizione chiave che il problema del linguaggio viene ad acquistare nell’ambito generale della filosofia.
A partire dal romanticismo, non ci si può immaginare che i concetti di cui si serve l’interpretazione si aggiungano alla comprensione come qualcosa che si prelevi dal deposito del linguaggio, dove se ne starebbero già bell’e pronti, secondo la necessità, quando manchi una comprensione immediata. Invece il linguaggio è il mezzo universale in cui si attua la comprensione stessa. Il modo di attuarsi della comprensione è l’interpretazione. Ciò non significa che non ci siano specifici problemi dell’espressione. La differenza tra il linguaggio del testo e il linguaggio dell’interprete, o la distanza che separa il traduttore dall’originale non sono affatto questioni secondarie. All’opposto, è vero invece che i problemi dell’espressione linguistica sono già di per sé problemi della comprensione stessa. Ogni comprensione è interpretazione, e ogni interpretazione si dispiega nel medium di un linguaggio, che da un lato vuol lasciare che si esprima l’oggetto stesso e dall’altro, tuttavia, è il linguaggio proprio dell’interprete.
(H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Studi Bompiani, Milano 1995, p. 447)