Hans
Georg Gadamer (1900) è il “padre fondatore” dell'ermeneutica
filosofica, cioè di una concezione della filosofia che mette costantemente a
confronto l'interprete (ermeneuta) con l'opera che ha di fronte: non attraverso
il distacco critico dello storico, ma in un colloquio fecondo, accomunato dal
linguaggio, agli autori della tradizione che si appresta a interpretare. Questa
posizione spiega la simpatia, che traspare nello scritto che segue, per
Leibniz, filosofo del dialogo e della conciliazione del presente con la
tradizione filosofica. Il testo che proponiamo alla lettura è tratto dal
discorso pronunciato da Gadamer il 1° luglio 1946 nell'Aula magna
dell'Università di Lipsia, in occasione del trecentesimo anniversario della
nascita di Leibniz.
H. G. Gadamer, Gottfried Wilhelm Leibniz
[L'ultimo poligrafo di stile creativo]
In realtà Leibniz è un genio
universale, e se si presta attenzione alla storia delle scienze nel loro
insieme, è stato l'ultimo poligrafo di stile creativo della storia universale,
l'ultimo che non solo conosceva lo stato della ricerca in tutti i campi della
scienza, ma era anche in grado di svilupparlo produttivamente. Fu un matematico
creativo. A dargli fama mondiale sarebbe bastata la scoperta, avvenuta
contemporaneamente ma in totale indipendenza rispetto a Newton, del calcolo
infinitesimale. Come fisico fu creativo e precursore con le scoperte nel campo
della dinamica, incentivò le conoscenze biologiche del suo tempo, sviluppò per
primo programmi di lavoro rivolti alla scienza linguistica, per incarichi
ufficiali e per passione fu attivo come storico, fu uno degli indimenticabili
promotori della logica moderna. I suoi sforzi per riunificare le confessioni
cristiane furono ampi e rivolti al futuro della religione cristiana, prodotti
di una padronanza assolutamente sicura e creativa dell'intero mondo dei
problemi teologici. Fu, infine, giurista di massima levatura, un uomo pieno di
idee tecniche e di proposte organizzative ed economiche. E al di sopra di tutto
questo - e dietro a tutto questo - un uomo che non si sottrasse alle domande
ultime, alle domande della filosofia, attraverso le quali ha scolpito il suo
nome con fama imperitura nella memoria dell'umanità. [...]
[Le monadi]
Il sistema leibniziano è davvero
di una artificialità fantastica. Tutti sappiamo che Leibniz ha affermato che il
vero nucleo della realtà, ciò che oltre il lato esterno fenomenico e relativo
al modo di manifestarsi, e nel contempo dietro ad esso, costituisce il reale
autentico e veritiero, sono le monadi, unità viventi che, singolarizzate in se
stesse, tentano ciascuna di sviluppare la forza e l'energia rappresentativa
posta in esse.
Ciascuna monade, ciascuna di
queste unità, è rapportata al tutto dell'ente. Esse sono, secondo la
definizione leibniziana, specchi dell'Universo, e nessuna di queste unità si
trova in una relazione diretta con qualsiasi altra unità. Le monadi, sempre
secondo la formulazione leibniziana, non hanno finestre e pertanto con queste
unità non ci si riferisce soltanto a quelle monadi spirituali, non solo a
quelle unità caratterizzate dallo spirito o dall'autocoscienza che chiamiamo
mondo organico vivente. Non solo cioè gli organismi, ma anche l'intera natura
possiede questo carattere, di consistere, nelle sue ultime pietre angolari, di
unità che si trovano in rapporto con il tutto del mondo.
Cosí Leibniz giunse
all'affermazione fantastica che il mondo consiste, in fondo, nel fatto che da
ciascuno di questi punti unitari scaturisce un rispecchiamento del tutto, un
rappresentarsi del tutto. Che cioè questo tutto rappresentato da molti punti di
vista e da molte ottiche sia un unico mondo, che nessuno di questi esseri
monadici in sé chiusi sia solamente per sé e produca un mondo immaginario, che
potrebbe essere spiegato solo assumendo che fin da principio Dio avrebbe
fondato la concordanza fra tutte queste ottiche e tutte queste prospettive.
Leibniz amava presentare queste
riflessioni per immagini, come per esempio quella degli orologi perfettamente
sincronici. Come si possono spiegare orologi sincronici? O supponendo che sia
sempre presente qualcuno che si occupa del loro funzionamento, oppure che
esista soltanto una macchina e tutte le diverse lancette vengano per
cosí dire girate da questo orologio. Leibniz ritiene che entrambe le ipotesi
[...] siano impossibili. L'unica ipotesi soddisfacente sarebbe quella secondo
cui tutti questi orologi, ossia tutte queste monadi, siano costruiti da Dio in
modo talmente preciso da battere, per cosí dire, tutti costantemente una stessa
ora dell'essere.
Si tratta di una idea
fantastica, che Leibniz esprime con la orgogliosa coscienza che soltanto il suo
nuovo sistema renda possibile una spiegazione soddisfacente o una soddisfacente
comprensione del mondo, della natura e dell'uomo.
Non è difficile criticare questa
idea. Si può essere indotti per esempio a chiedersi: che cosa è in realtà il
contenuto di quei rispecchiamenti che devono costituire l'essenza delle monadi?
Non sono sempre soltanto rispecchiamenti di rispecchiamenti? é forse presente
ancora qualcosa che viene rispecchiato?
In effetti ci sarebbe tutta una
serie di domande analoghe che si potrebbero porre al sistema leibniziano e che
non troverebbero alcuna risposta soddisfacente nel senso scolastico della
filosofia. Infatti il fondamento al partire dal quale sembra plausibile un cosí
fantastico progetto di sistema è l'idea di Dio, è il presupposto che appunto
tutte quelle prospettive nelle cui unità il mondo si rappresenta, siano esse
piante o esseri viventi, animali o uomini o spiriti, tutte queste prospettive
dicevo sono fondate insieme soltanto nella monade infinita che è Dio, per cosí
dire in una infinita percezione, nella visione per mezzo dello spirito divino.
Questo è il sistema
leibniziano.
Dobbiamo aver ben chiaro che
prima di Leibniz il nome “sistema” può a mala pena essere applicato con un
certo diritto. Il concetto di sistema, come lo utilizziamo da allora nel
linguaggio universale della filosofia, era di volta in volta un'espressione che
rappresentava il sistema del mondo, non dunque una immagine del mondo, ma la
struttura e l'architettura del mondo stesso, e Leibniz è stato uno fra i primi
ad applicare questo concetto di sistema alla visione del mondo pensata e
sostenuta appunto dalla struttura e dall'architettura del mondo stesso, alla
loro propria immagine del mondo.
Ma che cosa lo ha condotto a
questa ipotesi artificiale dell'armonia prestabilita nelle monadi chiuse in sé?
Non un gioco casuale della sua fantasia, ma lo sguardo geniale alle
problematiche che emergevano dalla storia moderna del pensiero filosofico.
[...]
[Anima e corpo]
Nell'entusiasmo vincente della
nuova scienza della natura si cercò di spingere quanto piú possibile avanti
quell'ideale della manipolazione, della spiegazione meccanica dell'essente.
Secondo Descartes anche gli animali erano semplici macchine, e dallo spirito
cartesiano nacquero anche coloro che nella successiva filosofia
dell'illuminismo tentarono di descrivere anche l'uomo come una semplice
macchina, come una sorta di automa. Di fronte a questa entusiastica
unilateralità del nuovo pensiero scientifico meccanicistico, si pose il compito
di stabilire i confini di questo pensiero e di conciliare l'unità della
coscienza del mondo con questa conoscenza scientifica.
Questa è la situazione
problematica che Leibniz si trovò dinanzi e che non poteva evitare. Scoprí il
seguente problema, in apparenza insolubile: come agisce quella sostanza, che è
caratterizzata dall'estensione, sull'altra sostanza, che è caratterizzata
dall'autocoscienza? Come può essere, per esempio, spiegato quel fatto
inquietante, e insieme ovvio, secondo cui noi possiamo rendere il nostro corpo
proprio, in quanto corpo, come ogni altra datità del sistema fisico-matematico,
oggetto della ricerca sulle leggi matematico-fisiche e che, ciò nonostante,
questo corpo proprio è il nostro corpo organico, che è vita vissuta da un io,
vita riempita da sensibilità e coscienza?
Come deve essere pensato il
nesso tra corpo e anima? Come sapete, questo tema ha vincolato e impegnato attraverso
i secoli, fin da quando è stato posto dalla scienza naturale moderna, la
speculazione filosofica e la ricerca sperimentale in tutte le loro correnti.
Leibniz è stato il primo a cercare una reale soluzione a questo problema,
ovvero il primo ad avere in mente una reale soluzione di questo problema entro
un grande progetto planetario.
Leibniz stesso ci racconta
l'evoluzione di questa idea. Ciò che aveva imparato a Lipsia non era la
filosofia cartesiana, ma la piú antica scolastica aristotelica, l'aristotelismo
protestante. Ma ben presto riconobbe - un celebre passo autobiografico ci dice
che accadde durante una passeggiata nel Rosenthal - che accettando quelle idee
formali aristoteliche, ritenendo cioè che la natura possa essere spiegata
dicendo, per esempio, che il fuoco divampa verso l'alto perché questa è la
natura del fiammeggiare, non aggiungeremmo e non diremmo nulla nei confronti
della scienza naturale moderna. Egli si rese totalmente autonomo rispetto a
questa provenienza dalla tradizione aristotelica, dal giogo dell'aristotelismo,
come egli stesso lo definí.
[Il molteplice e l'unità]
Leibniz quando riconobbe quelle
ipotesi che la moderna scienza della meccanica gli offrí e che potevano
soddisfarlo piú di quelle aristoteliche.
Si trattava dell'ipotesi degli
atomi, che si trovano nello spazio vuoto e che, nel collegamento fra i singoli
atomi e le forme visibili, formano la realtà.
Ma a quel punto si rivelò il suo
genio peculiare e indipendente, quando appunto questa ipotesi atomistica, dopo
averla lungamente meditata ed esaminata, gli si rivelò altrettanto
insoddisfacente quanto quella aristotelica.
Egli riconobbe che con quelle
premesse non poteva riuscire ad afferrare realmente ciò che, in quanto unità, è
effettivo e reale in questo mondo. Riconobbe che l'ipotesi delle particelle
meccaniche avrebbe richiesto in ultima analisi una infinita divisibilità della
materia, e che non abbiamo alcuna possibilità significativa di comprendere che
dall'impulso meccanico di tali particelle scaturiscono proprio queste forme
dell'essere che conosciamo in base all'esperienza come ordine della natura e
come formazione di anima e spirito in base all'esperienza.
In questo modo egli pervenne a
una sorta di ripresa dell'idea aristotelica delle forme dominanti, dei princípi
finalistici che sono sottesi a tutto ciò che accade nella natura, per cosí dire
come una forma ordinatrice sovraordinata e superiore.
Riuscí a mostrare che il punto,
il veramente indivisibile, è un nulla di estensione e qualcosa di irreale, e
che tutto ciò che va al di là di quel punto, ogni estensione, è un continuum,
divisibile all'infinito e che non pone alcuna barriera all'indivisibilità fino
a sostenere che in base a questa premessa possiamo pervenire sempre soltanto a
un frazionamento e mai alla conoscenza dell'unità.
L'unica cosa della realtà che è
realmente unità e che renderebbe comprensibile una realtà, sarebbe il diventare
uniti per mezzo di una forza unificante, e ciò accadrebbe soltanto dove una
forza avesse una direzione di effetto e dove le conseguenze di questi effetti,
che spingono fuori da quella forza, per cosí dire scaturissero da quella forza.
Conducendo le proprie ricerche
nel campo della dinamica, estrapolando certe conoscenze della biologia (con
l'aiuto del microscopio si poté osservare allora i primi animaletti acquatici)
e in base a tutte le possibili conoscenze delle scienze naturali della sua
epoca, egli formulò l'ipotesi che le autentiche unità della realtà siano queste
monadi, che rappresentano (ossia percepiscono) il tutto. Questa ipotesi suona
di animismo romantico, e tuttavia Leibniz parte da una idea assolutamente
rigorosa. [...]
La forza, rapportata alle
conseguenze dei suoi effetti, è lo schema secondo il quale si può pensare
qualsiasi tipo di unità reale di un ente, e il grande prototipo, il grande
modello sul quale si conosce questa unità dell'ente, è il sé, l'anima, l'io,
dunque tutto ciò che noi troviamo nell'autocoscienza, in quel concetto
cartesiano dell'autocoscienza. Questa è dunque la visione del mondo necessariamente
superiore, una conoscenza della realtà per cosí dire nella vista interna, in
quella prospettiva in cui a partire da una unità viene rappresentata la
molteplicità che la include, come nell'autocoscienza le rappresentazioni nella
loro molteplicità sono pur tuttavia sempre rappresentazioni di questo io
proprio pensante.
Cosí dovunque ciò che è vero è
unito nella molteplicità delle sue conseguenze: in base a questo presupposto
della vera unità, al quale fu costretto nel lavoro del pensiero, Leibniz arrivò
ad affermare che la scienza della natura, come era stata formulata da
Descartes, giungerebbe soltanto all'anticamera della verità. Nel reale studio
privato della natura sono decisive in effetti altre idee, idee finalistiche, e
il vero essere è l'armonia prestabilita di queste forme, riassunta in una
monade centrale suprema, che sarebbe Dio.
È stata dunque una necessità
scientifica a spingere Leibniz a formulare questa ipotesi artificiale e
temeraria e, dobbiamo ammetterlo, molto presto superata dal punto di vista
scientifico, ma i rapporti di senso che reggono questa ipotesi includono
momenti che proprio nell'istante, che non si fece attendere, in cui la critica
distrusse questa ipotesi, incominciarono una loro vita propria. Non fu in
realtà difficile criticare questa ipotesi. Tanto meno fu difficile contestare
le premesse teologiche su cui si fondava il tutto, quegli sforzi fantastici che
Leibniz fece per mostrare che questo mondo, con tutte le sue spaventosità e
tutti i suoi turbamenti, rappresenta tuttavia il migliore ordine possibile
dell'essere.
Leibniz ha cercato di fondare
queste affermazioni essenzialmente valorizzando la nuova conoscenza
dell'infinità dell'Universo. Ha cercato di mostrare che noi non possediamo
affatto le misure per calcolare il bene e il male nella creazione, la
ripartizione di gioia e dolore nelle creature.
Infatti quell'unità che noi
valutiamo, questo nostro pianeta, è soltanto un prodotto piccolissimo in mezzo
al cosmo, che proprio in quell'epoca si era manifestato nella sua infinità; e
chi poteva essere cosí audace da sapere che Dio avrebbe potuto edificare meglio
su questa Terra, se siamo in grado di osservare in cosí scarsa misura il tutto
del suo disegno di creazione?
Questa ipotesi, con la sua
giustificazione del dolore e del male, era facilmente confutabile, in
particolare in base all'esperienza quotidiana degli uomini e in base allo
spirito da cui questa esperienza viene partorita. [...]
[Scienza e filosofia]
E cosí, alla fine, il compito
formulato da Leibniz nel suo tempo dovrà essere ancora e sempre riconosciuto e
assunto come tale: la coscienza che l'uomo deve avere del mondo, da una parte
per collegare quel mondo dell'esperienza vitale umana nel quale ci è dato di
incontrare le cose significative, nel quale ci vengono imposte decisioni, nel
quale dunque comprendiamo e creiamo contesti unitari, con l'altro mondo della
natura dominata dalla scienza e dalla civilizzazione che dalla scienza è
configurata, e dall'altra per conciliare l'immagine del mondo elaborata dalla
scienza fisica con la coscienza vitale universale dell'uomo, senza tuttavia
scadere nella comoda via di uscita di un pensiero che produca una struttura
irrazionale.
(H. G.
Gadamer, Gottfried Wilhelm Leibniz, in “aut aut”, 254-255, marzo-giugno
1993, pagg. 5-16)