Galiani, Una scienza necessaria

“È attraverso libri come il Della moneta che, piú o meno consapevolmente, i nostri intellettuali del Settecento rompono le barriere del provincialismo, di gretta tradizione erudito-letteraria, cominciano a rivoluzionare il proprio atteggiamento culturale e civile, assumono una linea di condotta che è avvicinandoli ai philosophes i quali proprio negli anni Cinquanta vanno dalla Francia imponendosi come protagonisti sulla scena politico-civile europea - tende a inserirli nelle strutture dello stato, al vertice della sua direzione, per un’opera di rinnovamento e di riforma” (F. Diaz).

Proponiamo la lettura di una parte del “Proemio” al Della moneta, nel quale Galiani denuncia l’inutilità della cultura astratta e spiega il suo intento di contribuire all’affermazione di una scienza utile e necessaria.

 

F. Galiani, Della moneta, Proemio

 

È cosa meravigliosa, ed assai difficile a spiegare donde avvenga, che gli uomini, i quali alla cultura dell’animo si sono applicati ed il nome di savi e virtuosi han bramato meritare, quasi tutti hanno cominciato dal rendersi inutili alla umana società; e fuori di lei in certo modo trattisi, a quegli studi ed a quel genere di vita si sono dati, in cui poco a sé, niente agli altri potevano d’utilità arrecare: e per questo stesso appunto, quando meritavano biasimo e disprezzo, sono stati dal popolo ad una voce lodati ed ammirati. Quindi è derivato che molte delle scienze piú necessarie sono state o in tutto abbandonate o vilipese. La notizia delle lingue già morte, degli antichi costumi, de’ movimenti degli astri e delle opinioni altrui intorno alle ignote cause naturali, o al piú l’intelligenza delle oscure leggi di popoli da noi e per religione e per governo e per indole e per antichità divisi, ha ottenuto l’augusto nome di Sapienza; e gli uomini in tali cose versati sono sembrati degni di comandare. Fu, è vero, Socrate negli antichi tempi, che dalle sfere richiamò la filosofia, ed alla umana vita la volse, impiegandosi a formar utili cittadini alla sua patria ingrata: ma quantunque da lui quasi tutte le scuole de’ filosofi provenissero, niuna ne venne che fosse fedele imitatrice di tanto maestro. Cosí l’arte del governo, piú d’ogni altra di cultori sfornita, fino a’ nostri dí s’é condotta, e solo provveduta de’ materiali onde poterla ritrarre. Sono questi nella storia contenuti. La storia è un non interrotto racconto degli errori e de’ gastighi del genere umano: onde è facile, in essa meditando e su gli sbagli altrui divenendo savio, emendare i primi o riparare i secondi. E non altrimenti che se si avessero le osservazioni astronomiche di molti secoli, non è stato difficile formare del moto de’ pianeti il sistema, cosí avviene nella scienza del governare. E quindi è forse che in ogni tempo gli storici, e que’ principalmente che hanno descritte le storie particolari e contemporanee, sono stati maestri di politica reputati. Ma picciola parte del tutto hanno essi toccata; e piú sono stati solleciti d’insegnar le arti d’acquistare e custodire l’imperio a’ principi, che di render felice e dolce l’ubbidienza ne’ sudditi. Perciò non è strano se hanno trascurato intieramente di esaminare l’esatto regolamento della moneta, il quale a primo aspetto pareva piú importante a’ sudditi che al sovrano. Strano è però che molti scrittori, piú a noi vicini di età e ripieni di zelo ardente al ben pubblico, niente abbiamo scritto sulla moneta. [...]

In oltre ho proccurato evitare ogni locuzione che sentisse di sublime geometria; e quella chiarezza maggiore, che per me si è potuta, ho tentato con esempi e con dichiarazioni replicate in sí oscura materia apportare. Nel che forse, volendo altrui giovane, avrò me stesso offeso. Poiché le cose spiegate sembreranno tanto facili e piane, che i lettori, non ricordandosi della maniera con cui sono dagli altri, non dico esposte, ma inviluppate, le crederanno vecchie ed assai conosciute. Tale essendo la luce della verità, che qualora si presenta all’animo luminosa ed aperta, sempre quasi antica e nota vi viene. Ma io ho voluto piuttosto al pubblico bene con mio danno attendere, che senza utile altrui farmi credere intelligente di difficili studi ed astrusi. Il parlar misterioso è delle cose puerili l’ingannevole ingrandimento; e perciò a me, che di grande ed utile materia favello, mal si conviene. Finalmente non sono qui a chiedere compatimento e scuse, e della inespertezza, che fingessi credere in me, a fare una non sincera confessione. Colui che di sé ha bassa stima, al pubblico non si ha da esporre: e se il facesse, dell’ardire avuto merita riprensione e gastigo. Io per me, qualunque siesi l’opera, confesserò, colla ingenuità propria agli animi ben formati, ch’io credo meritar lode, mentre le forze e i talenti da Dio ricevuti, tutti alla patria ed alla umana società rendo e consacro. Volesse il Cielo e potessi ad esse divenir utile tanto, che le infinite obbligazioni mie verso di loro si venissero cosí almeno in parte a soddisfare.

 

(Opere di F. Galiani, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. 46, “Gli illuministi italiani”, tomo VI, Ricciardi, Milano-Napoli, 1975, pagg. 21-24)