Questa lettera è indirizzata a
Benedetto Castelli (1758-1643), uno dei maggiori discepoli e collaboratori di
Galilei, nominato allo Studio di Pisa dalla granduchessa Cristina di Lorena, su
proposta dello stesso Galilei. L’argomento della lettera è il rapporto tra fede
e scienza: punto di riferimento il celebre passo del libro di Giosuè (cap. X)
in cui sembra essere sostenuta la tesi tolemaica (Giosuè chiede al sole di
fermarsi). Per Galilei l’interpretazione letterale delle Scritture è spesso inadeguata,
come si ricava da affermazioni presenti in opere di autorevoli padri della
Chiesa.
G. Galilei, A don Benedetto
Castelli in Pisa, 1613
Molto reverendo Padre e Signor
mio Osservandissimo,
I particolari che ella disse,
referitimi dal signor Arrighetti, m’hanno dato occasione di tornar a
considerare alcune cose in generale circa ‘l portar la Scrittura Sacra in
dispute di conclusioni naturali, ed alcun’altre in particolare sopra ‘l luogo
di Giosuè, propostoli, in contraddizione della mobilità della Terra e stabilità
del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima
Arciduchessa.
Quanto alla prima domanda
generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da
quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra, non poter mai la
Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed
inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può
errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed
espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo,
quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché cosí
vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie
ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non
meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco
talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sí
come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo
senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa
per accomodarsi all’incapacità del vulgo, cosí per quei pochi che meritano
d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i
veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali
parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura
in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa
d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle
dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché,
procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come
dettatura dello Spiritio Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli
ordini di Dio; ed essendo, di piú, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi
all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto
al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la
natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e
modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo
che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello
de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi
o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser
revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso
sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi cosí
severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto,
d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati, non s’è astenuta
la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino
all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà
asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare
anco incidentemente di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di
contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle
parole? e massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario
instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con
verità nuda e scoperta, avrebbon piú presto danneggiata l’intenzion primaria,
rendendo il vulgo piú contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti
alla salute.
Stante questo, ed essendo di piú
manifesto che due verità non posson mai contrariarsi, è ofizio de’ saggi
espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri, concordanti
con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le
dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho
detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l’addotte
cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane dal suono litterale, e, di
piú, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl’interpreti parlino
inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si
permettesse ad alcuno l’impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli in
certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali
una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero
manifestare il contrario. E chi vuol por termine a gli umani ingegni? chi vorrà
asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile? E per
questo, oltre a gli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della
Fede, contro la fermezza de’ quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai
dottrina valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger
altri senza necessità: e se cosí è, quanto maggior disordine sarebbe
l’aggiugnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se
parlino inspirate da celeste virtú, chiaramente vediamo ch’elleno son del tutto
ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma
a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel
confermare alcune lor conclusioni?
Io crederei che l’autorità delle
Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli
articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando
ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi
credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo
Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto,
posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo
conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle
scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge
nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è cosí piccola parte,
che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Però se i primi scrittori
sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti
de’ corpi celesti, non ne avrebbon trattato cosí poco, che è come niente in
comparazione dell’infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale
scienza si contengono.
Veda dunque la Paternità Vostra
quanto, s’io non erro, disordinatamente procedino quelli che nelle dispute
naturali, e che direttamente non sono de Fide, nella prima fronte
costituiscono luoghi della Scrittura, e bene spesso malamente da loro intesi.
Ma se questi tali veramente credono d’avere il vero senso di quel luogo
particolar della Scrittura, ed in consequenza si tengon sicuri d’avere in mano
l’assoluta verità della quistione che intendono di disputare, dichinmi appresso
ingenuamente, se loro stimano, gran vantaggio aver colui che in una disputa
naturale s’incontra a sostener il vero, vantaggio, dico, sopra l’altro a chi
tocca sostener il falso? So che mi risponderanno di sí, e che quello che sostiene
la parte vera, potrà aver mille esperienze e mille dimostrazioni necessarie per
la parte sua, e che l’altro non può aver se non sofismi paralogismi e fallacie.
Ma se loro, contenendosi dentro a’ termini naturali né producendo altr’arme che
le filosofiche, sanno d’essere tanto superiori all’avversario, perché, nel
venir poi al congresso, por subito mano a un’arme inevitabile e tremenda, che
con la sola vista atterrisce ogni piú destro ed esperto campione? Ma, s’io devo
dir il vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili
a potere stare forti contro gli assalti dell’avversario, tentino di trovar modo
di non se lo lasciar accostare. Ma perché, come ho detto pur ora, quello che ha
la parte vera dalla sua, ha gran vantaggio, anzi grandissimo, sopra
l’avversario, e perché è impossibile che due verità si contrariino, però non
doviamo temer d’assalti che ci venghino fatti da chi si voglia, pur che a noi
ancora sia dato campo di parlare e d’essere ascoltati da persone intendenti e
non soverchiamente alterate da proprie passioni e interessi.
In confermazione di che, vengo
ora a considerare il luogo particolare di Giosuè, per il qual ella rapportò a
loro Altezze Serenissime tre dichiarazioni; e piglio la terza, che ella
produsse come mia, sí come veramente è, ma v’aggiungo alcuna considerazione di
piú, qual non credo d’avergli detto altra volta.
Posto dunque e conceduto per ora
all’avversario, che le parole del testo sacro s’abbino a prender nel senso
appunto ch’elle suonano, ciò è che Iddio a’ preghi di Giosuè facesse fermare il
Sole e prolungasse il giorno, ond’esso ne conseguí la vittoria; ma richiedendo
io ancora, che la medesima determinazione vaglia per me, sí che l’avversario
non presumesse di legar me e lasciar sé libero quanto al poter alterare o
mutare i significati delle parole; io dico che questo luogo ci mostra
manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e
Tolemaico, e all’incontro benissimo s’accomoda co’l Copernicano.
E prima, io dimando all’avversario,
s’egli sa di quali movimenti si muova il Sole? Se egli lo sa, è forza che e’
risponda, quello muoversi di due movimenti, cioè del movimento annuo da ponente
verso levante, e del diurno all’opposito da levante a ponente.
Ond’io, secondariamente, gli domando
se questi due movimenti, cosí diversi e quasi contrarii tra di loro, competono
al Sole e sono suoi proprii egualmente? È forza risponder di no, ma che un solo
è suo proprio e particolare, ciò è l’annuo, e l’altro non è altramente suo, ma
del cielo altissimo, dico del primo mobile, il quale rapisce seco il Sole e gli
altri pianeti e la sfera stellata ancora, costringendoli a dar una conversione
‘ntorno alla Terra in 24 ore, con moto, come ho detto, quasi contrario al loro
naturale e proprio.
Vengo alla terza interrogazione,
e gli domando con quale di questi due movimenti il Sole produca il giorno e la
notte, cioè se col suo proprio o pure con quel del primo mobile? _ forza
rispondere, il giorno e la notte esser effetti del moto del primo mobile, e dal
moto proprio del Sole depender non il giorno e la notte, ma le stagioni diverse
e l’anno stesso.
Ora, se il giorno depende non dal
moto del Sole, ma da quel del primo mobile, chi non vede che per allungare il
giorno bisogna fermare il primo mobile, e non il Sole? Anzi, pur chi sarà
ch’intenda questi primi elementi d’astronomia e non conosca che, se Dio avesse
fermato ‘l moto del Sole, in cambio d’allungar il giorno l’avrebbe scorciato e
fatto piú breve? perché, essendo ‘l moto del Sole al contrario della conversione
diurna, quanto piú ‘l Sole si movesse verso oriente, tanto piú si verrebbe a
ritardar il suo corso all’occidente; e diminuendosi o annullandosi il moto del
Sole, in tanto piú breve tempo giugnerebbe all’occaso: il qual accidente
sensatamente si vede nella Luna, la quale fa le sue conversioni diurne tanto
piú tarde di quelle del Sole, quanto il suo movimento proprio è piú veloce di
quel del Sole. Essendo, dunque, assolutamente impossibile nella costituzione di
Tolomeo e d’Aristotile fermare il moto del Sole e allungare il giorno, sí come
afferma la Scrittura esser accaduto, adunque o bisogna che i movimenti non
sieno ordinati come vuol Tolomeo, o bisogna alterar il senso delle parole, e
dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò ‘l Sole, voleva dire che
fermò ‘l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a
fatica idonei a intender il nascer e ‘l tramontar del Sole, ella dicesse al
contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati.
Aggiugnesi a questo, che non è
credibile ch’Iddio fermasse il Sole solamente, lasciando scorrer l’altre sfere;
perché senza necessità nessuna avrebbe alterato e permutato tutto l’ordine, gli
aspetti e le disposizioni dell’altre stelle rispett’al Sole, e grandemente
perturbato tutto ‘l corso della natura: ma è credibile ch’Egli fermasse tutto
‘l sistema delle celesti sfere, le quali, dopo quel tempo della quiete
interposta, ritornassero concordemente alle lor opre senza confusione o
alterazion alcuna.
Ma perché già siamo convenuti, non
doversi alterar il senso delle parole del testo, è necessario ricorrere ad
altra costituzione delle parti del mondo, e veder se conforme a quella il
sentimento nudo delle parole cammina rettamente e senza intoppo, sí come
veramente si scorge avvenire.
Avendo io dunque scoperto e
necessariamente dimostrato, il globo del Sole rivolgersi in sé stesso, facendo
un’intera conversione in un mese lunare in circa, per quel verso appunto che si
fanno tutte l’altre conversioni celesti; ed essendo, di piú, molto probabile e
ragionevole che il Sole, come strumento e ministro massimo della natura, quasi
cuor del mondo, dia non solamente,
com’egli chiaramente dà, luce, ma il moto ancora a tutti i pianeti che intorno
se gli raggirano; se, conforme alla posizion del Copernico, noi attribuirem
alla terra principalmente la conversion diurna; chi non vede che per fermar
tutto il sistema, onde, senza punto alterar il restante delle scambievoli
relazioni de’ pianeti, solo si prolungasse lo spazio e ‘l tempo della diurna
illuminazione, bastò che fusse fermato ‘l Sole, com’appunto suonan le parole
del sacro testo? Ecco, dunque, il modo secondo il quale, senza introdur
confusione alcuna tra le parti del mondo e senza alterazion delle parole della
Scrittura, si può, col fermar il Sole, allungar il giorno in Terra.
(G. Galilei, Lettere,
Einaudi, Torino, 1978, pagg. 103-109)