Il Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo esprime in forma dialogica e dialettica il confronto fra
la convinzione che bisogna andare avanti accettando le novità e la paura che se
si lascia l’autorità degli antichi, in particolare di Aristotele, ci si troverà
in un mare aperto senza piú certezze né punti di riferimento stabili. I
protagonisti del dialogo sono Salviati e Sagredo, che esprimono il punto di
vista di Galilei, e Simplicio, che sostiene le vecchie tesi aristoteliche.
G. Galilei, I due massimi
sistemi del mondo
Salviati. Tuttavolta
che voi vogliate accordar quel che vi mostrerà il senso con le piú salde
dottrine d’Aristotile, non ci averete una fatica al mondo. E che ciò sia vero,
Aristotile non dic’egli che delle cose del cielo, mediante la gran lontananza,
non se ne può molto resolutamente trattare?
Simplicio. Dicelo
apertamente.
Salviati. Il
medesimo non afferm’egli, che quello che l’esperienza e il senso ci dimostra,
si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato? e
questo non lo dic’egli resolutamente e senza punto titubare?
Simplicio. Dicelo.
Salviati. Adunque di
queste due proposizioni, che sono ambedue dottrina d’Aristotile, questa
seconda, che dice che bisogna anteporre il senso al discorso, è dottrina molto
piú ferma e risoluta che l’altra, che stima il cielo inalterabile; e però piú
aristotelicamente filosoferete dicendo “Il cielo è alterabile, perché cosí mi
mostra il senso”, che se direte “Il cielo è inalterabile, perché cosí persuade
il discorso di Aristotile”. Aggiungete che noi possiamo molto meglio di
Aristotile discorrer delle cose del cielo, perché, confessando egli cotal
cognizione esser a lui difficile per la lontananza da i sensi, viene a
concedere che quello a chi i sensi meglio lo potessero rappresentare, con
sicurezza maggiore potrebbe intorno ad esso filosofare: ora noi, mercé del
telescopio, ce lo siam fatto vicino trenta e quaranta volte piú che vicino non
era ad Aristotile, sí che possiamo scorgere in esso cento cose che egli non
potette vedere, e tra le altre queste macchie nel Sole, che assolutamente ad
esso furono invisibili: adunque del cielo e del Sole piú sicuramente possiamo
noi trattare che Aristotile.
Sagredo. Io sono nel
cuore al signor Simplicio, e veggo che e’ si sente muovere assai dalla forza di
queste pur troppo concludenti ragioni; ma, dall’altra banda, il vedere la
grande autorità che si è acquistata Aristotile appresso l’universale, il
considerare il numero de gli interpreti famosi che si sono affaticati per
esplicare i suoi sensi, il vedere altre scienze, tanto utili e necessarie al
pubblico, fondar gran parte della stima e reputazion loro sopra il credito
d’Aristotile, lo confonde e spaventa assai; e me lo par sentir dire: “E a chi
si ha da riccorrere per definire le nostre controversie, levato che fusse di
seggio Aristotile? qual altro autore si ha da seguitare nelle scuole, nelle
accademie, nelli studî? qual filosofo ha scritto tutte le parti della natural
filosofia, e tanto ordinatamente, senza lasciar indietro pur una particolar
conclusione? adunque si deve desolar quella fabbrica, sotto la quale si
ricuoprono tanti viatori? si deve destrugger quell’asilo, quel Pritaneo, dove
tanto agiatamente si ricoverano tanti studiosi, dove, senza esporsi
all’ingiurie dell’aria, col solo rivoltar poche carte, si acquistano tutte le
cognizioni della natura? si ha da spiantar quel propugnacolo, dove contro ad
ogni nimico assalto in sicurezza si dimora?” Io gli compatisco, non meno che a
quel signore che, con gran tempo, con spesa immensa, con l’opera di cento e
cento artefici, fabbricò nobilissimo palazzo, e poi lo vegga, per esser stato
mal fondato, minacciar rovina, e che, per non vedere con tanto cordoglio
disfatte le mura di tante vaghe pitture adornate, cadute le colonne sostegni
delle superbe logge, caduti i palchi dorati, rovinati gli stipiti, i
frontespizi e le cornici marmoree con tanta spesa condotte, cerchi con catene,
puntelli, contrafforti, barbacani e sorgozzoni di riparare alla rovina.
Salviati. Eh non
tema già il signor Simplicio di simil cadute: io con sua assai minore spesa
torrei ad assicurarlo del danno. Non ci è pericolo che una moltitudine si
grande di filosofi accorti e sagaci si lasci sopraffare da uno o dua, che
faccino un poco di trepito; anzi non pure col voltargli contro le punte delle
lor penne, ma col solo silenzio, gli metteranno in disprezzo e derisione
appresso l’universale. Vanissimo è il pensiero di chi credesse introdur nuova
filosofia col reprovar questo o quello autore: bisogna prima imparare a rifar i
cervelli degli uomini, e rendergli atti a distinguere il vero dal falso, cosa
che solo Dio la può fare.
G. Galilei, La prosa,
Sansoni, Firenze, 1978, pagg. 343-345