Gassendi, Ancora contro Descartes sulla conoscenza umana

Nella Quarta meditazione Descartes si è sforzato di togliere a Dio ogni responsabilità per gli errori umani: per Gassendi, invece, Dio è in qualche modo responsabile delle imperfezioni presenti nel mondo da lui creato.

 

P. Gassendi, Disquisitio metaphysica seu Dubitationes et Instantiae adversus Renati Cartesii Methaphysicam, in Med. IV, Dub. II

 

II Ecco perché, quando voi dite un poco dopo che è, in certo modo, una maggior perfezione nell’Universo il fatto che alcune delle sue parti non sono esenti da errore, che se fossero tutte simili, è lo stesso che se diceste che è, in certo modo, una piú grande perfezione in una repubblica il fatto che alcuni dei suoi cittadini siano cattivi, che se tutti fossero persone dabbene. Donde accade che, come sembra esser augurabile ad un buon principe di non avere che delle persone dabbene per cittadini, egualmente sembra che avrebbe dovuto essere conveniente al disegno ed alla dignità dell’Autore dell’Universo di fare in modo che tutte le sue parti fossero esenti da errore. E benché possiate dire che la perfezione di quelle che ne sono esenti sembra maggiore per il contrasto con quelle che vi sono soggette, questo, tuttavia, non accade che per accidente; proprio come, se la virtú dei buoni risplende, in certo modo, per l’opposizione dei cattivi, non è, pertanto, che per accidente che essa splende di piú cosí. Di guisa che, come non è a desiderare che vi siano dei malvagi in una repubblica, affinché i buoni ne sembrino migliori, egualmente sembra che non fosse conveniente che alcune parti dell’Universo fossero soggette all’errore, per dar maggior lustro a quelle che ne erano esenti.

Voi dite di non avere nessun diritto di lamentarvi, se Dio, avendovi messo al mondo, non ha voluto che foste dell’ordine delle creature piú nobili e piú perfette. Ma questo non toglie la difficoltà, che sembra vi sia, di sapere perché non gli sarebbe bastato darvi posto fra le meno perfette, senza mettervi nell’ordine di quelle fallaci e difettose. Poiché, precisamente come non si biasima un principe, perché non eleva tutti i suoi cittadini ad alte dignità, ma ne riserba alcuni per gli uffici mediocri, ed altri ancora per gl’infimi, tuttavia sarebbe estremamente colpevole, e non potrebbe esentarsi dal biasimo, se non soltanto ne destinasse alcuni alle funzioni piú vili e piú basse, ma ne destinasse anche ad azioni malvagie e perverse.

Voi dite che non vi è in effetti nessuna ragione, che possa provare che Dio avrebbe dovuto darvi una facoltà di conoscere piú grande di quella che vi ha dato; e che, per quanto destro e dotto operaio ve l’immaginiate, non dovete, per questo, pensare che egli avrebbe dovuto mettere in ognuna delle sue opere tutte le perfezioni che può mettere in alcune. Ma ciò non risponde alla mia obbiezione, e voi vedete che la difficoltà non è tanto di sapere perché Dio non vi ha dato una piú ampia facoltà di conoscere, quanto di sapere perché ve ne ha data una fallace; né si mette in questione perché un operaio perfettissimo non voglia mettere in tutte le sue opere tutte le perfezioni della sua arte, ma perché voglia mettere in alcune anche dei difetti.

Voi dite che, benché non possiate trattenervi dall’errare per mezzo di una chiara ed evidente percezione di tutte le cose, che possono cadere sotto la vostra deliberazione, avete, tuttavia, in vostro potere un altro mezzo per impedirvene, che è di ritenere fermamente la risoluzione di non dar mai il vostro giudizio sulle cose, di cui la verità non vi è nota. Ma quando anche aveste ad ogni momento un’attenzione abbastanza intensa per badare a ciò, non è forse sempre un’imperfezione, non conoscere chiaramente le cose, sulle quali abbiamo a dare il nostro giudizio, ed essere continuamente in pericolo di errare?

Voi dite che l’errore consiste nell’operazione in quanto procede da voi, e che essa è una specie di privazione, e non nella facoltà che avete ricevuto da Dio, e neppure nell’operazione in quanto dipende da lui. Ma io concedo che non vi sia errore nella facoltà considerata come proveniente immediatamente da Dio; ve n’è, tuttavia, se la si considera piú da lontano, in quanto essa è stata creata con questa imperfezione di poter errare. Cosí, come dite benissimo, voi non avete motivo di lamentarvi di Dio, che, in effetti, non vi ha mai dovuto nulla; ma avete motivo di ringraziarlo di tutti i beni che vi ha concesso. Ma v’è sempre di che stupirsi perché non ve ne abbia dati di piú perfetti, se è vero ch’egli sapeva farlo, poteva farlo, ed era immune da invidia [...].

Poiché, benché Dio non concorra alla privazione che si trova nell’atto, la quale è propriamente ciò che si chiama errore e falsità, concorre, nondimeno, all’atto, cui se non concorresse, non ci sarebbe privazione; e, d’altronde, egli stesso è l’autore della potenza che s’inganna o che erra, e, pertanto, egli è l’autore di una potenza impotente, e cosí sembra che il difetto che si trova nell’atto non debba tanto essere riferito alla potenza, che di per sé è debole ed impotente, quanto a colui che ne è l’autore, e che, avendo potuto renderla potente, o anche piú potente di quel che fosse necessario, l’ha voluta fare qual è.

 

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XII, pagg. 763-765)