Pierre Gassendi (1592-1655), contemporaneo di Descartes e
frequentatore del circolo di Mersenne, è vicino alle posizioni dei libertini.
L'orientamento scettico del suo pensiero lo portò a confrontarsi a fondo con la
teologia razionale cartesiana, di cui fu un severo critico. All'interno del
processo deduttivo, utilizzato da Descartes per arrivare alla dimostrazione
dell'esistenza di Dio, Gassendi individua una serie di contraddizioni che ne
inficiano la validità.
P. Gassendi, Disquisitio metaphysica seu Dubitationes et
Instantiae adversus Renati Cartesii Methaphysicam, in Med. III, Dub. I e IV
I [...] Quando tu dici se si ignora ciò che bisogna
sapere di Dio, di nessuna cosa si può avere assoluta certezza, o vi
comprendi anche la certezza di quella proposizione Io penso o non ve la
comprendi: se ve la comprendi non hai concluso ancora niente e sei stato
temerario a fare una enunciazione e dei ragionamenti intorno al fatto che tu
pensi, che tu esisti e tutto il resto; ed anzi sei destinato nuovamente a non
concludere nulla, dal momento che tutto ciò che disputerai ed asserirai in
merito a tutte le altre cose, presuppone la certezza e la fondatezza di quel
tuo punto piú che archimedeo. Se poi non ve la comprendi, allora quella tua
principale certezza non dipenderà né da Dio né dalla conoscenza che di lui si
ha; anzi la certezza della conoscenza di Dio sortisce la sua saldezza da
quella, e addirittura ogni certezza riguardo qualsiasi altra cosa può essere
ricondotta non alla certezza dell'esistenza e veracità di Dio, ma alla certezza
di quella tua proposizione Io penso. [...]
IV Riguardo a ciò che voi aggiungete dell'idea di Dio,
ditemi, di grazia, poiché voi non siete ancora certo della sua esistenza, come
potete sapere che esso ci è rappresentato dalla sua idea come un Essere eterno,
infinito, onnipotente e creatore di tutte le cose, ecc.? Quest'idea che ve ne
formate non viene piuttosto dalla conoscenza che avete avuto per lo innanzi di
lui, in quanto esso vi è stato piú volte rappresentato sotto questi attributi?
Poiché, a dir vero, lo descrivereste voi cosí, se non ne aveste mai nulla udito
dire di simile? Voi mi direte, forse, che questo non è ora portato che come
esempio, senza che definiate ancor nulla di lui. Io l'ammetto; ma badate di non
farne dopo un presupposto.
Voi dite che v'ha piú realtà oggettiva nell'idea di un
Dio infinito che nell'idea di una cosa finita. Ma, innanzi tutto, lo
spirito umano, non essendo capace di concepire l'infinità, non può neppure
avere, né figurarsi, un'idea, che rappresenti una cosa infinita. E, pertanto,
colui che dice una cosa infinita attribuisce ad una cosa che non comprende un
nome che egualmente non intende, poiché, siccome la cosa si estende al di là di
ogni sua comprensione, cosí questa infinità, o questa negazione di termini, che
è attribuita a questa estensione, non può essere intesa dalla sua intelligenza
che è sempre ristretta e rinchiusa da limiti. Di piú, tutte quelle alte
perfezioni che siamo soliti attribuire a Dio, sembrano tratte dalle cose che
ammiriamo ordinariamente in noi, come la durata, la potenza, la scienza, la
bontà, la felicità, e cosí via, alle quali avendo dato tutta l'estensione
possibile, noi diciamo che Dio è eterno, onnipotente, onnisciente, sovranamente
buono, perfettamente felice, e cosí via.
E cosí l'idea di Dio rappresenta, sí, in verità, tutte
queste cose, ma essa non ha per questo piú realtà oggettiva di quanta ne hanno
le cose finite prese tutte insieme, dalle idee delle quali è stata composta
questa idea di Dio, e di poi ingrandita nel modo che testé ho descritto.
(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano,
1968, vol. XII, pagg. 752-754)