Geymonat, La favola delle api

Pubblicata anonima nel 1705 con il titolo Ronzio di arnie, o Furfanti divenuti onesti, nel 1714 La favola della api di Mandeville fu ristampata, con l'aggiunta del sottotitolo “Vizi privati e pubbliche virtú”. Essa rappresenta uno dei primi tentativi di formulare una morale della nuova società industriale, una morale svincolata dai canoni tradizionali di tipo teologico, e incentrata sull'utilità e il bene dello stato e della collettività. Secondo Ludovico Geymonat, Mandeville riesce solo parzialmente nel suo intento: i concetti di “peccato” e di “vizio” associati a quello di “piacere” sono il tipico retaggio di una morale di impostazione teologica. Questo limite avrebbe impedito a Mandeville - secondo Geymonat - di cogliere quegli elementi presenti nella società industriale che potrebbero costituire la base per una morale “umanistica e laica”: fra questi elementi l'esaltazione del “risparmio” contrapposto al “lusso”. L'atteggiamento di Geymonat è tipico di quella storiografia filosofica che utilizza gli schemi concettuali dell'interprete (in questo caso l'economicismo marxista) per valutare un pensiero che a quegli schemi non può essere storicamente sottoposto. A noi piace, piuttosto, avvicinare il lavoro di Mandeville, che mostra come i fini particolari degli individui (il piacere e quindi il vizio) sortano spesso effetti opposti a quelli voluti (il bene dello stato), alla concezione vichiana dell'“eterogenesi dei fini”.

 

L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. III, cap. II, v

 

Il pensiero morale di Mandeville ebbe grandissima risonanza anche grazie a una straordinaria capacità dell'autore di esprimere gli aspetti piú importanti della sua impostazione filosofica in aforismi paradossali, che colpivano la fantasia (ne fornisce un esempio il sottotitolo della sua opera piú famosa, che afferma crudamente che i vizi privati sono fonte di bene pubblico).

La tesi di Mandeville, estremamente penetrante per spiegare la “ricchezza” di una società capitalistica, è che i vizi (come il lusso, lo sperpero, l'invidia, la lussuria, ecc.) sono utili al fiorire della società, perché costringono i ricchi a spendere, quindi a mettere in circolazione capitali e a dare lavoro ai poveri. Il vizio di seguire la moda e di vestirsi lussuosamente, ad esempio, costringe a farsi continuamente abiti nuovi, e implica l'ambizione di farli piú belli di quelli del vicino che si invidia. [...] Invece la “virtuosa” massima di accontentarsi del proprio stato, di ricercare la ricchezza interiore anziché quella del mondo è, socialmente, sinonimo di pigrizia, e pertanto risulta “nociva all'industria”, causa della povertà delle nazioni. La conclusione di Mandeville è quindi spregiudicatamente realista, e dà un quadro certo non completo, ma assai penetrante dei primi decenni ruggenti di un secolo che vide l'impetuoso affermarsi, soprattutto in Inghilterra, della rivoluzione industriale. [...]

Perfino le calamità, non teme di affermare Mandeville, sono utili alla società. I disastri provocati a Londra da un incendio, scrive, hanno causato lutti, pianti e rovine; ma hanno dato lavoro a innumerevoli carpentieri, manovali, fabbri, falegnami; sicché la somma dei benefizi provocati da quella catastrofe supera la somma dei dolori. Ciò vale anche per le guerre, che provocano distruzioni ma stimolano la produzione.

Nonostante che le radici hobbesiane e machiavelliche di queste realistiche considerazioni sulla società della prima rivoluzione industriale siano evidenti, il pensiero di Mandeville conserva però un impianto teologico. Dalla teologia infatti egli accetta il concetto che il piacere sia cosa viziosa (e per piacere intende tutto ciò che va al di là delle necessità immediate del nudo selvaggio e del monaco che si ritira dal mondo), sicché mentre rovescia la morale ascetica, ne conserva paradossalmente i valori. Giunge pertanto a considerare il commercio, l'industria, la stessa cultura, l'amore per l'arte e per le invenzioni tecniche che consentono di evitare disagi e fatiche, come peccato, non come elementi di una nuova morale umanistica e laica, sicura del proprio orizzonte e capace di cercare in esso nuovi valori che elimino le conseguenze nefaste della prima rivoluzione industriale, conservandone i pregi. [...]

Malgrado questo fondamento teologico, Mandeville suol essere considerato il primo acuto moralista della società industriale sebbene sia doveroso notare che anche da questo punto di vista la sua pur brillante analisi risulta alquanto carente. Nell'esaltazione del lusso e non del risparmio, egli appare ancora legato agli schemi del capitalismo commerciale, per il quale la ricchezza consisteva nella circolazione delle merci, piú che a quelli del capitalismo industriale. Non capí che le forme di “ascesi mondana” dei puritani, dei giansenisti, degli stessi primi grandi capitani d'industria, realizzavano una condizione essenziale per lo sviluppo industriale: l'accumulazione del capitale da investire e la priorità data all'investimento sul consumo di lusso.

 

(L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. III, Garzanti, Milano, 1971, pagg. 65-66)