La città di cui parla Agostino è definita chiaramente fin dall'inizio dell'opera. Dio ne è fondatore e re: essa vive quaggiù per la fede, ex fide vivens; essa è in pellegrinaggio tra gli empi: inter impios peregrinatur: fine del suo pellegrinaggio è il cielo: in stabilitate sedis aeternae. Si tratta dunque della storia di una società d'origine ed essenza soprannaturali, la Civitas Dei, confusa provvisoriamente con quest'altra società che non vive per la fede, la civitas terrena. I Cristiani fanno parte necessariamente dell'una e dell'altra città. Non soltanto essi sono membri dello Stato, ma la loro religione impone loro il dovere di comportarsi da cittadini irreprensibili; la sola differenza è che quello che i membri della sola città terrestre fanno, quando lo fanno, per amore verso il loro paese, i Cristiani lo fanno per amore verso Dio. Questa differenza di motivi non impedisce quindi l'accordo di fatto nella pratica delle virtù sociali. I pagani hanno una certa probità naturale “quamdam sui generis probitatem”, che fece, un tempo, la grandezza di Roma: poiché le virtù soprannaturali dei Cristiani impongono loro gli stessi doveri verso lo Stato, non c'è ragione per cui le due città non possano accordarsi. Questo è anche il significato provvidenziale della grandezza di Roma:
Con l'immensa prosperità e con lo splendore dell'Impero Romano, Dio ha mostrato ciò che potevano le virtù civili, anche senza la vera religione, per far capire che, con l'aggiunta di questa, gli uomini diventano cittadini di un'altra città, il cui re è verità, la cui legge è carità e la cui misura è eternità.
Considerata nel suo fine, la città di Dio deve condurre gli uomini a quella felicità che tutti cercano e che la città terrestre è incapace di dar loro. Che la città terrena ne sia incapace, lo confessano i suoi stessi dottori, che sono i filosofi. Essi hanno cercato ovunque la sapienza che doveva rendere l'uomo felice, ma non l'hanno trovata perché essi hanno condotto la loro ricerca soltanto con l'aiuto della ragione: “quia ut homines humanis sensibus et humanis ratiocinationibus ista quaesierunt” (XVIII 41). La città di Dio invece procede con sicurezza perché si appoggia all'autorità di Dio per condurre gli uomini alla felicità. Basta paragonare queste due forme di sapienza per vederne la differenza. Presso i pagani, si ammettevano 288 soluzioni razionali possibili del problema morale; nella Chiesa non se ne riconosce che una, formulata da un piccolo numero di autori sacri, che dicono tutti la stessa cosa. Così, da una parte molti filosofi i cui discepoli si sparpagliano in minuscole sette, dall'altra parte pochi scrittori sacri, tutti d'accordo, e un'immensa moltitudine che li segue.
Questa differenza fondamentale spiega che l'atteggiamento della Chiesa riguardo alla sapienza non è quello dello Stato pagano. In linea di massima, quest'ultimo si disinteressa di ciò che insegnano i filosofi. Non si è mai visto lo stato pagano assumere la protezione di una setta filosofica ed impedire l'esistenza delle altre. Per questo, d'altronde, il nome mistico della città terrena è Babilonia, che significa confusione. Vi si insegna il vero insieme al falso, e poco importa al diavolo, suo re, quale errore trionfi, poiché tutti conducono egualmente all'empietà. Il popolo di Dio non ha mai conosciuto simile licenza, perché i suoi filosofi e i suoi sapienti sono dei profeti, che parlano a nome della sapienza di Dio. Tutto ciò che dicono di vero i filosofi, l'hanno detto i Profeti, e scevro di ogni errore: un Dio unico, creatore e provvidenza, che impone il culto di virtù quali l'amor di patria, la fedeltà nell'amicizia e la pratica delle opere buone, ma che ci insegna, inoltre, a qual fine tutte queste virtù debbano riferirsi e in qual modo si debba riferirvele. Custode di questo deposito, la Chiesa deve conservarne l'unità a mezzo della stessa autorità che glielo ha affidato per la felicità degli uomini. Di qui quei fenomeni, sconosciuti agli antichi, l'eresia e l'eretico. Ciò che nella città terrena non è che una libera opinione diventa, nella città di Dio, rottura del legame dottrinale che costituisce la sua unità e, di conseguenza, del legame sociale che garantisce la sua esistenza. Non si può quindi chiederle di tollerare queste cose: “quasi possent indifferenter sine ulla correptione haberi in Civitate Dei, sicut civitas confusionis indifferenter habuit philosophos inter se diversa et adversa sentientes” (XVIII 51). Il magistero divino che la Chiesa esercita ha come fine il mantenimento dell'unità della sapienza rivelata, che è la legge costitutiva della città di Dio.
(da Gilson, "La filosofia nel Medioevo", La Nuova Italia Ed., Firenze, 1973).