GARIN, IL FILOSOFO E LA BOMBA
Siciliani. Quella guerra, e quella straordinaria, incredibile
conseguenza che fu l'uso risolutivo dell'atomica. Che ricordo ne serba oggi?
Come ripensa ai giorni successivi al 6 agosto dei '45?
Garin. La bomba, certo. Ne fui profondamente sconvolto; a
mano a mano che le notizie filtravano, ci rendevamo conto di quanto fosse stato
terribile. Di tragedie, e grandi, ne avevamo viste e sentite tante, anche da
noi; però quello che allora mi colpi di più fu il lancio della seconda bomba, a
Nagasaki: quella incredibile folla di morti, un fatto gratuito, un salto di
qualità rispetto a ciò che ognuno di noi sapeva, aveva saputo fino a quel
momento della guerra. Terribile, in ogni senso.
Siciliani. In quei giorni lei si occupava di "scuola e
politica", di "storia della filosofia" (anche per i licei) e di Giovanni Pico
della Mirandola, di umanesimo medioevale, della cultura filosofica del '900, di
esistenzialismo... Quali i termini del rapporto tra i suoi studi di quei giorni
e i tragici fatti bellici?
Garin. Difficile rispondere con esattezza. Occorre guardarsi
dal senno del poi come dalle insidiose sollecitazioni della memoria: ma una
sorta di catastrofe ce l'aspettavamo; temevamo che avvenisse, anche se in un
altro modo: per cui non fu una novità assoluta. In taluni ambienti si diceva,
già prima della fine della guerra, dello sforzo che la Germania veniva facendo
con la collaborazione attiva dei suoi grandi scienziati, dei suoi massimi
fisici. Sapevamo di gruppi di ricercatori molto impegnati in certe direzioni.
Non era difficile prevedere che le loro indagini, prima o poi, avrebbero avuto
degli effetti; tanto folle era... la concorrenza. S'era diffuso l'orrore che i
tedeschi, dopo i bombardamenti selvaggi dell'Inghilterra, tentassero cose
peggiori. In Giappone, poi, si sapeva di ambienti militaristi irriducibili, dei
"signori della guerra" che non intendevano gettare la
spugna.
Siciliani. Vuol dire che in Italia ci si sentì come sollevati
quando, a servirsi della bomba, furono gli americani? Se la guerra finalmente
finiva contro chi l'aveva scatenata, questo non lasciava bene
sperare?
Garin. Li per lì, forse, ci fu anche questo. Però apparve
subito con evidenza la tragedia inquietante della distruzione totale di intere
città. Quando si seppe che più di centomila persone erano morte, lo sgomento fu
grande. Anche da noi i morti non si erano contati; ma era stato diverso. Dopo
Hiroshima, e soprattutto dopo Nagasaki, maturò l'idea che si fosse alla vigilia
di qualcosa di più terribile; che si fosse in presenza di un'istantanea
distruzione totale, che tutto metteva in crisi: il senso della vita e del nostro
lavoro, i rapporti sociali, umani, le nostre individualità. Tutto, via via che
il tempo passava, ci appariva come in un'altra luce: ma ci volle del tempo per
capire, anche se eravamo come predisposti. Alla fine ne uscimmo sconvolti,
"rivoluzionati". E forse anche di più, perché erano stati proprio gli americani
a usare la bomba. Era stata 1'altra parte", erano stati i massimi avversari del
nazismo a eseguire quello che i nazisti avevano certo progettato, ma non erano
riusciti a realizzare. Nonostante ogni differenza, pur grande, e pur evidente,
la gravità di quall'atroce "soluzione finale" rimaneva.
Siciliani. Il 22 agosto 1945, sulla prima pagina de "l'Unità"
campeggiano due titoli: a sinistra quello relativo agli alleati che stanno per
sbarcare in Giappone (a 15 giorni dalla bomba); a destra quello concernente i
quattro milioni e mezzo di morti ad Auschwitz (subito dopo la scoperta dei lager
nazisti).
Garin. Era la guerra. Gli americani commisero un atto enorme,
a suo modo decisivo. Con questo non dico che uguagliassero i tedeschi. Troppo
diverse erano le motivazioni le finalità rispettive, anche se certi
comportamenti si assomigliano, se gli esiti furono ugualmente e gratuitamente
distruttivi, per opera degli uni e degli altri. Diverse, senza dubbio, le
responsabilità di fondo.
Siciliani. Tornerei ai suoi studi. Non è solo di contenuti di
ricerca, che vorrei chiederle; ma pure delle forme, dei metodi, delle modalità
delle sue indagini storiche.
Garin. Prima ancora che come "storici" o "filosofi", le
domande che ci rivolgemmo ce le rivolgevamo come "uomini". Erano interrogativi
su "noi stessi"; questioni alle quali era spesso difficile rispondere. Subito
neppure ci rendemmo conto. Io non mi sono reso conto che ciò che era accaduto,
in quell'agosto del '45, era qualcosa di assolutamente inedito: un punto di
rottura di portata straordinaria, un punto di non ritorno. Di orrori, nel corso
della guerra, ne erano stati commessi a iosa, specialmente nell'ultimo periodo;
ma l'orrore della bomba (ripeto, soprattutto quella su Nagasaki) li superò
tutti. Di conseguenza, il nostro modo di essere uomini, e storici di noi stessi,
non poté non risentirne. Ci fu un mutamento di prospettiva, nuovo, radicale,
soprattutto in politica. Maturarono o intervennero pensieri per così dire
inediti: e prese forma una mentalità di "transizione", da un modo di pensare a
un altro modo di pensare, di prospettarsi certi temi: per esempio la libertà...
Stavano cambiando e le condizioni e le ragioni delle nostre scelte, delle
"ragioni" della nostra vita. La "soluzione finale" della guerra, con la bomba,
aveva rimesso in discussione "tutto". Tutto. E in questo senso in presenza cioè
della globalità della posta in gioco a me parve di vedere, d'un tratto, cose
nuove e diverse: anche se mancava, certo, un'effettiva consapevolezza dei loro
significati, se non se ne vedevano fino in fondo cause ed
effetti...
Siciliani. Eppure, sul terreno dei "precedenti", val forse la
pena di ricordare come lei stesso ha fatto che, subito dopo la liberazione, "Il
Ponte", la rivista di Calamandrei, nell'aprile del 1945 apriva il suo primo
fascicolo proponendosi di "cominciare a ricostruire in tutti i campi la fede
nell'uomo" e "il senso operoso di fraterna solidarietà umana per cui ciascuno
sente rispecchiata nella sua libertà e nella sua dignità la libertà e la dignità
di tutti gli altri". E Calamandrei continuava, in termini quasi lapiriani,
"contro ogni comodo e malinteso storicismo, che la vita è retta da fermi e
chiari principi, superiori alla storia" e "non è la storia che fa la fede, ma è
la fede che fa la storia", e "gli atti contano solo in quanto sono espressione e
testimonianza di convinzione morale sentita come regola di vita". Di qui a
digerire, dopo pochi mesi, Hiroshima e Nagasaki, il passo mi sembra assai
lungo.
Garin. Indubbiamente, anche se oggi parecchie di quelle
affermazioni, di quei pensieri, danno il senso della distanza, lasciano
trasparire l'età che hanno e svelano la loro ingenuità. Il che non toglie il
merito di Giorgio La Pira di aver promosso quella ricerca di pace nel mondo,
quell'esigenza di fraternità e giustizia resa possibile proprio dall'incontro di
popoli e razze e fedi... Ecco perché la bomba atomica non poté non colpirci
tutti, direi quasi nell'intimo. Ci imponeva, infatti, un ben diverso scenario. E
il cambiamento fu radicale: e si manifestò variamente anche in filosofia, nella
filosofia come luogo separato, tecnico, della riflessione critica. Non fu più
possibile, dopo, pensare come prima; non mi fu possibile. Il "dopo" Hiroshima
Nagasaki (anche se non l'immediatamente dopo) esigeva processi di pensiero,
aperture autocritiche, decisioni intellettuali mai sperimentate
prima.
Insisterei comunque sulla complessità di quei momenti. Non
dimenticherei, cioè, che nel '45 nonostante tutto, nonostante che si fosse in
presenza di un mondo in cui non c'erano ormai più "confini all'uccidere" c'era
ancora la speranza. Sebbene l'orrore dell'assurda strage di Nagasaki non
consentisse più di farsi illusioni, rimaneva uno spiraglio, la fiducia di
riuscire a incontrarsi con gli altri sul piano di una comune ragionevolezza, del
"denominatore comune accettabile" di Anders. Ecco perché fu proprio nel '45 che
sembrò opportuno incominciare a rendersi storicamente conto di ciò che era
avvenuto allora, ma anche in precedenza, prima della catastrofe, della bomba.
Finivano il fascismo e il nazismo, rivivevano le 1ibertà"; e questo imponeva che
si ripensasse il passato, che si rivedessero molte posizioni. Eppure ci fu chi
continuò a difendere le antiche convinzioni, il suo vecchio modo di
pensare...
Siciliani. Tra il '45 e il '46 si situano alcuni libri di
filosofia, che mi sembra utile ricordare: gli Studi per un nuovo razionalismo di
L. Geymonat, Storia della filosofia occidentale di B. Russell, La società aperta
e i suoi nemici di K. Popper, La libertà comunista di G. della Volpe,
L'esistenzialismo è un umanismo di J. P. Sartre ecc. ecc. A suo avviso, c'è una
qualche relazione tra questi testi e l'incredibile episodio che pose fine alla
guerra? Trova questi testi tempestivi, spostati in avanti o ancora appiattiti
sul passato? Pur facendo gli opportuni, necessari distinguo, come vede oggi il
nesso tra la filosofia dell'opera e le terribili prove della storia? Quali
autori e testi filosofici menzionerebbe a conferma di un rapporto critico
autocritico, ovvero a riprova di un'assenza o carenza o sproporzione della
riflessione filosofica in relazione all'esperienza
dell'atomica?
Garin. Ciascuno di quei testi meriterebbe un discorso a
parte. Il più delle volte, però, si trattò di libri non nuovi, che erano
sorpassati ancor prima di uscire. La realtà di quei tempi imponeva revisioni
radicali, non stanche autogiustificazioni (come nel caso di Popper e della
"società aperta"). Non tutti se la sentirono di procedere a una storicizzazione
delle proprie e altrui posizioni filosofiche, a una relativizzazione della
stessa idea di filosofia, a un bilancio delle discussioni piuttosto che alla
riaffermazione di stanche "concezioni del mondo".
Siciliani. Proprio nel '45 muore Kitaro Nishida, fondatore
presso l'Università di Kyoto della scuola filosofica della logica del nulla"
(tra pensiero orientale e speculazione occidentale), uno dei maggiori filosofi
del Giappone moderno. Se ne seppe niente in Italia?
Garin. lo no. Più tardi, attraverso riviste, se ne seppe
qualcosa, anche del suo pensiero complessivo. In Giappone avevo un amico che ora
è morto, Junichi Shimizu. Tradusse il mio L'umanesimo italiano; era di
Hiroshima; aveva una buona conoscenza della filosofia tedesca; studiava Giordano
Bruno; e rifletteva sulla funzione dell'uomo di cultura in un paese
tecnologicamente avanzato come il Giappone...
Siciliani. Lei è sempre stato sensibile a questo
tema.
Garin. Certamente, la razionalità scientifica e quella
tecnologica, in quanto tali, non sanno di valori: indifferentemente esse
producono strumenti di vita e di morte, "senza ridere né piangere". Come
dimostra il loro carteggio, sia Albert Einstein che Max Born si erano resi conto
che l'uso dell'energia atomica a fini bellici aveva determinato un salto di
qualità: al di là dei conflitti ideali, delle ideologie, delle concezioni del
mondo, si era giunti al punto di dover decidere tra la sopravvivenza della
civiltà umana la vita del pianeta Terra e la fine di tutto e di tutti. Si era
ormai arrivati a un passaggio più complesso e decisivo: che si lasciava indietro
una problematica ancora diversa, rispetto a quella pur recente dell'uso o meno
delle bombe al fosforo contro le popolazioni civili, delle "coventrizzazioni",
dei "razzi volanti" ecc. Il terrorismo atomico è stato un'altra
cosa.
Siciliani. In questo senso, anche l'orrore e l'esecrazione
nei confronti dell'uso dei gas nella prima guerra mondiale, rimangono mille
miglia indietro dai sentimenti maturati nel corso della seconda guerra mondiale,
e alla sua conclusione iperdistruttiva.
Garin. Senza dubbio. E anche il modo di filosofare, l'idea
stessa di filosofia, ne sono risultati sconvolti. Occorrerà, da Hiroshima e
Nagasaki in poi, rendere storicamente ragione di ogni atto di ragione,
storicizzare la ragione filosofica alla luce della dimensione atomica, che
presenta rischi assolutamente inimmaginabili prima del suo concreto, tragico
manifestarsi.
(Eugenio
Garin, in Luigi Cortesi [a cura di], 1945: Hiroshima in Italia,. CUEN, Napoli
1995 Il colloquio con Nicola Siciliani De Cumis si è svolto nel giugno 1994 a
Firenze)