Questo fu
compreso abbastanza bene da molti intellettuali europei. Ma che cosa sarebbe
avvenuto dopo una pace atomica? Effettivamente questo problema non fu invece
intuito con la necessaria chiarezza. Si è soltanto intuito che qualcosa di
radicale cambiava nello sviluppo della storia. Ma nessuno degli intellettuali
ebbe in genere la capacità di riflettere sui caratteri di fondo di questo nuovo
periodo apertosi con l'utilizzo della bomba atomica. Che si trattasse di una
svolta radicale nello sviluppo della storia dell'umanità fu naturalmente
compreso da molte persone, ma l'esatta comprensione di cosa sarebbe poi
concretamente avvenuto dopo costituiva un problema ben diverso, al quale non si
era ancora in grado di dare una risposta soddisfacente. Non bisogna inoltre
dimenticare che negli Stati Uniti esisteva pure una corrente di pensiero che
pensava che quel dopo includesse necessariamente l'utilizzazione della bomba
atomica contro l'Unione Sovietica per determinarne una catastrofe finale. La
minaccia di utilizzare la bomba atomica contro l'Unione Sovietica fu in realtà
una minaccia enorme e ci volle tutta la durezza del governo sovietico per non
cedere a questa minaccia. Del resto non sarà privo di interesse ricordare che lo
stesso Russell nel 1960, partecipando ad una tavola rotonda sulle questioni
nucleari con la signora Eleanor Roosevelt, fu scandalizzato nell'ascoltare la
moglie del Presidente americano che affermava di preferire che la razza umana
andasse distrutta piuttosto di pensarla "preda del comunismo". Insomma: se per
Russell poteva anche essere accettabile lo slogan provocatorio "meglio rossi che
morti" va anche ricordato che vi era però chi gli ribatteva, con non minor
polemica, meglio morti che rossi"!.
Minazzi. Il realismo politico induce a rifuggire da tutte quelle posizioni per le quali le forzature volontaristiche potrebbero condizionare in modo determinante le guerre. In realtà, e forse in misura più rilevante, la forza economica e la potenza materiale degli stati determinano una specifica, differente, "capacità di guerra" dei singoli stati e occorre pertanto partire anche da una seria considerazione di queste cause materiali per ben comprendere i problemi che emergono oggettivamente nella nostra civiltà. In sostanziale accordo con questo realismo il filosofo dovrebbe quindi contribuire sia a squarciare ogni velo che nasconde le vere difficoltà della civiltà contemporanea. Conseguentemente nel corso degli anni della "guerra fredda" il primo dovere di un filosofo doveva essere proprio quello di contribuire a far percepire con maggior chiarezza le reali caratteristiche della situazione internazionale in tutta la sua drammaticità.
Geymonat. Sì, ma questo fu uno dei punti caratterizzanti anche della posizione di Stalin, che non si piegò mai di fronte alla minaccia del bombardamento atomico dell'Unione Sovietica e continuò pertanto a trattare con gli Stati Uniti da pari a pari. Questo è un carattere della politica staliniana che non può essere assolutamente dimenticato poiché in quel momento si poteva pensare che la guerra era finita con la vittoria assoluta degli Stati Uniti e quindi l'Unione Sovietica non avrebbe avuto altro da fare che arrendersi. Devo dire che personalmente non ho mai avuto la tentazione di giustificare l'atteggiamento di resa senza condizioni (da molti cortesemente suggerito all'Unione Sovietica) che pure avrebbe avuto un senso poiché sembrava che dal punto di vista delle forze militari in campo l'Unione Sovietica fosse talmente "sconfitta" e talmente "superata" (sulla carta) dalla forza delle armi americane, che "sensata" sarebbe stata appunto unicamente la resa dell'Unione Sovietica all'America. Questo atteggiamento sta alla base di tutta la politica tra queste due superpotenze mondiali che ha caratterizzato l'intero periodo della "guerra fredda". Per la verità questo atteggiamento non è scomparso improvvisamente proprio perché per vincerlo fu necessario che anche l'Unione Sovietica fosse in grado di produrre armi altamente sofisticate (atomiche incluse) pari a quelle americane. La guerra tra due potenze atomiche (non più una sola potenza atomica contro il resto del mondo) rappresenta infatti una "conquista" di enorme importanza epocale. Questa lotta tra pari chiude un periodo: il periodo dell'assoluta superiorità delle armi americane rispetto alle armi sovietiche e ha contemporaneamente aperto la possibilità di rapporti da pari a pari tra le due diverse nazioni riportando in primo piano il concetto della guerra. Senza dubbio come si è già accennato ci troviamo di fronte ad una accezione radicalmente nuova della guerra: la guerra è una catastrofe per tutta l'umanità ma ora, occorre aggiungere e l'aggiunta non è veramente di poco conto non più per una sola parte dell'umanità, ma per tutti gli uomini.
Minazzi. In questi anni che ne è della speranza della pace! Che dire dei vari movimenti pacifisti, Partigiani della pace inclusi?
Geymonat. Considerai sempre il pacifismo un'utopia. Questa
corrente pacifista così spinta e così ingenua, mi apparve sempre incapace di
comprendere le ragioni storiche delle guerre e dei grandi conflitti. In questo
senso il pacifismo mi sembrava reggersi (e mi sembra reggersi tutt'ora) su di
una mera astrazione da non prendersi realmente sul serio. A mio giudizio, sul
serio andava invece preso il pericolo di uno schiacciamento dell'Unione
Sovietica da parte dell'America con le sue armi potentissime. D'altra parte
anche alla luce dell'esperienza della guerra contro i nazisti e contro i
fascisti si era ben visto che l'ideale del pacifismo costituiva veramente una
pia illusione dovuta ad una sostanziale incomprensione dei motivi profondi delle
guerre.
Compresi abbastanza presto che lo sviluppo dell'umanità sarebbe stato
dominato da questo realismo e questa constatazione mi permetteva di comprendere
adeguatamente anche i meriti del governo tirannico dell'Unione Sovietica attuato
da Stalin. Senza dubbio il modo di governare di Stalin fu "tirannico" in molti
sensi e in molti aspetti della vita civile, tuttavia rappresentò anche in modo
altrettanto indubitabile una validissima barriera contro un'altra tirannia
(quella dell'imperialismo americano che spesso si celava anche nelle vesti di un
ottimismo pacifista senza fondamento). Si badi: la tirannia degli Stati Uniti
era mascherata ma era altrettanto feroce perlomeno quanto la dittatura di
Stalin.Naturalmente nel dir questo non voglio dire che la speranza costituisca
unicamente una componente di dissipazione totale. La speranza è anche,
foscolianamente, "l'ultima dea": un pizzico di speranza non danneggia,
tutt'altro. Ma è diverso se si pretende di vivere e di muoversi politicamente
basandosi unicamente e totalmente sulla speranza ignorando la concretezza e la
durezza della realtà. La speranza può essere un movente della storia e
dell'azione umana ma non può pretendere di fagocitare tutto il mondo alla sua
unica dimensione. Per questa ragione il movimento pacifista mi sembrava
fortemente inconcludente sul piano politico. Questo spiega perché aderii
immediatamente al movimento dei Partigiani della pace ma senza nutrire soverchie
illusioni. Il movimento dei Partigiani della pace mi sembrava infatti possedere
degli ideali nobili e belli anche se, contemporaneamente, mi parevano assai
carenti le modalità politiche utilizzate per perseguire quei fini. Anzi,
complessivamente mi sembrava un movimento alquanto confuso che a causa della sua
confusione (connaturata alle premesse della sua stessa formazione) non avrebbe
mai potuto perseguire concretamente i fini che pure, del tutto sinceramente,
cercava di realizzare. Del resto questo movimento nel giro di pochi anni finì
per estinguersi anche se contribuì in una certa misura ad un avanzamento della
coscienza democratica presso alcuni strati della popolazione.
(Ludovico Geymonat, in Luigi Cortesi (a cura di), 1945: Hiroshima in
Italia,. CUEN, Napoli 1995 Dialogo con Fabio Minazzi il 15 luglio 1991 in casa
di Geymonat a Barge, Cuneo, e successivamente rivisto, integrato e corretto
dagli Autori)