A questo punto possiamo stabilire un collegamento tra la discussione della riflessività e i dibattiti intorno alla postmodernità. Il termine «postmodernità» viene spesso usato come sinonimo di postmodernismo, di società postindustriale, ecc. Se l'idea di società postindustriale, che dobbiamo in ogni caso a Daniel Bell, è ben definita, altrettanto non può dirsi degli altri due concetti sopra citati. Farò una distinzione tra i due. Il termine postmodernismo, ammesso che significhi qualcosa, si presta meglio a descrivere stili o movimenti in ambito letterario, pittorico, artistico e architettonico. Esso riguarda aspetti di riflessione estetica sulla natura della modernità. Anche se a volte è designato in maniera piuttosto vaga, il modernismo è, o è stato, una prospettiva ben precisa in questi vari campi ed è stato forse sostituito da altre correnti di tipo postmodernista. È un tema su cui si potrebbe scrivere un libro a parte, ma che ora conviene lasciare cadere.
Il termine postmodernità indica invece qualcos'altro, almeno a mio modo di intendere questo concetto. Andare incontro a una fase di postmodernità significa che la traiettoria dello sviluppo sociale si allontana dalle istituzioni della modernità e punta verso un nuovo e diverso tipo di ordine sociale. Il postmodernismo, ammesso che esista in forma cogente, può esprimere la consapevolezza di tale transizione ma non dimostra che essa esista.
A cosa si riferisce normalmente il concetto di postmodernità? Oltre al senso generico di vivere in un periodo di marcata diversità rispetto al passato, questo termine presenta di solito uno o più dei seguenti significati: la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti «fondamenti» dell'epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la «storia» è priva di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di «progresso»; e infine la nascita di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazioni ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere. Quasi nessuno oggi identifica la postmodernità con il significato che un tempo tutti le attribuivano: l'avvento del socialismo al posto del capitalismo. Il fatto di allontanare questa transizione dal centro della scena è in realtà uno dei fattori primari che ha animato le discussioni intorno alla possibile dissoluzione della modernità, data la visione olistica che Marx aveva della storia.
Scartiamo innanzitutto come priva di ogni serio interesse intellettuale l'idea che non sia possibile erigere alcun sapere sistematico intorno alle azioni umane o alle tendenze di sviluppo sociale. Se qualcuno lo credesse davvero (e se in effetti non fosse di per sé assurdo), non ci si potrebbe certo scrivere sopra un libro. L'unica possibilità sarebbe di ripudiare in blocco l'attività intellettuale - anche scherzosamente distruttiva - a favore, per esempio, di un sano esercizio fisico. Qualsiasi cosa implichi l'assenza di fondamentalismo in epistemologia, non si tratta di questo. Per trovare un punto di partenza più plausibile possiamo guardare al «nichilismo» di Nietzsche e Heidegger. Nonostante le differenze che li dividono, questi due filosofi hanno un punto in comune. Entrambi associano alla modernità l'idea. che la «storia» possa identificarsi con un'appropriazione progressiva dei fondamenti razionali del sapere. Secondo Nietzsche e Heidegger questo trova espressione nella nozione di «superamento»: ogni nuova comprensione serve a identificare ciò che vale e ciò che è privo di valore nell'insieme cumulativo del sapere Entrambi ritengono di dover prendere le distanze dalle pretese fondamentaliste dell'Illuminismo, eppure non possono criticarle dalla posizione avvantaggiata di ipotesi superiori o meglio fondate. Per questo lasciano cadere il concetto di «superamento critico», che è così centrale per la critica illuminista del dogma.
Chiunque voglia leggervi una transizione fondamentale dalla modernità alla postmodernità si scontra però con grandi difficoltà. Una delle principali obiezioni è ovvia e ben nota. Dire che la postmodernità soppianta la modernità è come appellarsi proprio a ciò che si dichiara (ora) impossibile: attribuire una qualche coerenza alla storia e individuare il posto che noi vi occupiamo. E inoltre, se Nietzsche è stato il principale autore che ha scisso la postmodernità dalla modernità (un fenomeno che si suppone sia ora in corso), come ha potuto prevedere tutto ciò quasi cent'anni fa? Come poteva Nietzsche compiere un tale balzo in avanti senza far altro che svelare i presupposti nascosti dell'Illuminismo stesso, come egli liberamente ammise?
È difficile sottrarsi alla conclusione che la rottura con il fondamentalismo costituisce un'importante cesura del pensiero filosofico, che affonda le sue radici tra la metà e la fine del XIX secolo. Ma certamente si è autorizzati a vedere in ciò «la modernità che inizia a comprendere se stessa» piuttosto che il superamento della modernità come tale. Possiamo interpretare questo processo secondo quelle che chiamo prospettive provvidenziali. Il pensiero illuministico e la cultura occidentale in generale sono scaturiti da un contesto religioso che enfatizzava la teleologia e l'ottenimento della grazia divina. Quella di divina provvidenza è stata a lungo l'idea-guida del pensiero cristiano. Senza questi precedenti l'Illuminismo non sarebbe stato in pratica possibile. Non sorprende che la difesa della ragione liberata abbia solo dato nuova forma alle idee della divina provvidenza, piuttosto che spazzarle via. Un tipo di certezza (legge divina) è stata sostituita da un'altra (la certezza dei nostri sensi e dell'osservazione empirica), mentre la divina provvidenza è stata sostituita dal progresso provvidenziale. L'idea provvidenziale della ragione coincide inoltre con l'ascesa del dominio dell'Europa sul resto del mondo. La crescita della potenza europea forniva per così dire il supporto materiale all'idea che la nuova visione del mondo si fondasse su solide basi che, oltre a dare sicurezza, emancipavano dal dogma della tradizione.
Eppure i semi del nichilismo erano contenuti fin dall'inizio nel pensiero illuministico. Se la sfera della ragione è slegata da ogni vincolo, nessun sapere può reggersi su basi certe perché anche i concetti più radicati possono essere considerati validi solo «in principio» oppure «salvo nuove scoperte». Essi scivolerebbero altrimenti nel dogma e verrebbero separati dalla sfera stessa della ragione che stabilisce ciò che in prima istanza è valido. Benché i più vedessero nella prova fornita dai nostri sensi l'informazione più sicura che possiamo ottenere, anche i primi filosofi illuministi erano ben coscienti del fatto che questa < prova» è, almeno in linea di principio, sospetta. I dati sensoriali non possono mai fornire una base del tutto sicura per ogni pretesa di sapere. Grazie alla maggiore consapevolezza del fatto che l'osservazione mediata dai sensi è intessuta di categorie teoriche, il pensiero filosofico dei nostri giorni ha preso ormai le distanze dall'empirismo. Inoltre, dopo Nietzsche, abbiamo acquisito una maggiore coscienza della circolarità della ragione e dei rapporti problematici che intercorrono tra sapere e potere.
Più che portarci «al di là della modernità», questi sviluppi offrono una maggiore comprensione della riflessività connessa alla modernità stessa. La modernità non è solo inquietante per la circolarità della ragione, ma perché la natura di questa circolarità lascia in ultima analisi perplessi. Come possiamo votarci alla ragione nel nome della ragione? Paradossalmente è stato proprio il positivismo logico a inciampare su questo punto, avendo voluto cancellare ogni traccia di tradizione e dogmatismo dal pensiero razionale. La modernità si rivela enigmatica nella sua intima essenza e apparentemente non vi è modo per «superare» questo enigma. Restiamo a confrontarci con degli interrogativi là dove un tempo sembravano esserci solo risposte, e in seguito vedremo che non sono solo i filosofi a rendersi conto di questa situazione. Una generica consapevolezza di questo fenomeno affiora nelle ansie di tutti.
La postmodernità è stata associata non solo alla fine del fondamentalismo ma addirittura alla «fine della storia». Non mi soffermerò oltre su quest'ultimo concetto, che ho già esaminato prima. La «storia» non presenta alcuna forma intrinseca né alcuna superiore teleologia. Si possono scrivere una pluralità di storie che non si possono fissare facendo riferimento a un punto di Archimede (come l'idea che la storia abbia una direzione in cui si evolve). La storia non va scambiata con la nozione di «storicità», che è chiaramente legata alle istituzioni della modernità. Il materialismo storico marxiano ha commesso l'errore di identificare l'una con l'altra e quindi non solo ha attribuito una falsa unità allo sviluppo storico ma non è riuscito a discernere le qualità specifiche della modernità. Questi aspetti sono stati ben analizzati nel corso del celebre dibattito tra Lévi-Strauss e Sartre. Il fatto di «usare la storia per fare storia» è sostanzialmente un fenomeno della modernità e non un principio generalizzato che possa applicarsi a tutte le epoche: è una versione della riflessività della modernità. Anche la storia intesa come fatto cronologico, il tracciare le sequenze dei cambiamenti intervenuti tra diverse date, è un modo specifico di codificare la temporalità.
Il concetto di storicità va inteso correttamente. La storicità si potrebbe definire come l'uso del passato per modellare il presente. Ma essa non dipende dal rispetto per il passato; al contrario, storicità significa usare il sapere intorno al passato come mezzo per rompere con esso, o in ogni caso per salvare solo ciò che può essere giustificato in linea di principio. La storicità orienta di fatto verso il futuro. Il futuro viene essenzialmente considerato aperto, eppure condizionato dalle linee d'azione intraprese pensando alle possibilità future. Si tratta di un aspetto fondamentale dello «stiramento» spazio-temporale reso possibile e necessario dalle condizioni della modernità. La «futurologia» - la disciplina che delinea i futuri possibili, probabili o raggiungibili - diventa più importante della scienza che ricostruisce il passato. Ciascuno dei tipi di meccanismi di disaggregazione sopra elencati presuppone un analogo orientamento verso il futuro.
La rottura con le visioni provvidenzialistiche della storia, la scomparsa del fondamentalismo, insieme all'affermarsi di un pensiero condizionale orientato al futuro e allo «svuotamento» del progresso attraverso i continui cambiamenti, sono a tal punto lontani dalle idee portanti dell'Illuminismo da legittimare l'idea che siano avvenute transizioni di vasta portata. Ma identificare queste ultime con la postmodernità è un errore che ostacola una giusta comprensione della loro natura e delle loro implicazioni. Le cesure verificatesi vanno piuttosto intese come il risultato dell'auto-chiarificazione del pensiero moderno, via via che cadevano le spoglie della tradizione e delle visioni provvidenzialistiche. Non abbiamo superato la modernità; al contrario, siamo nel mezzo di una fase di radicalizzazione della modernità.
Il graduale declino dell'egemonia mondiale europea o occidentale, la cui altra faccia è la continua espansione delle istituzioni moderne a livello mondiale, è certamente uno dei maggiori fattori di influenza che entrano qui in gioco. Il previsto «declino dell'Occidente» ha interessato alcuni autori fin dalla seconda metà del XIX secolo. Usata in un simile contesto l'espressione si riferiva di solito a una concezione ciclica del cambiamento storico in cui la civiltà moderna viene vista semplicemente come una civiltà ben definita rispetto alle molte che l'hanno preceduta in altre parti del mondo. Le civiltà avrebbero tutte una loro infanzia, una maturità e una vecchiaia e la loro sostituzione da parte di altre civiltà modificherebbe la distribuzione regionale del potere mondiale. Ma la modernità non è solo una civiltà tra le tante, secondo l'interpretazione discontinuista che ho proposto sopra. L'allentarsi del controllo dell'Occidente sul resto del mondo non è il risultato del diminuito impatto delle sue istituzioni, ma piuttosto il prodotto della loro diffusione globale. Il potere economico, politico e militare che ha dato all'Occidente il suo primato - basato sulla concomitanza delle quattro dimensioni istituzionali della modernità che esamineremo nella prossima sezione - non differenzia più i paesi occidentali dal resto del mondo in maniera così marcata. Possiamo interpretare questo processo come un processo di globalizzazione, un termine chiave nel lessico delle scienze sociali.
Che dire delle altre serie di cambiamenti sovente legati in un senso o nell'altro alla postmodernità, come la formazione di nuovi movimenti sociali e la nascita di nuovi programmi politici? Come vedremo in seguito si tratta di fattori che rivestono un'effettiva importanza. Dobbiamo tuttavia vagliare con una certa attenzione le varie teorie o interpretazioni che sono state avanzate su queste basi. Affronterò la postmodernità come una serie di transizioni immanenti che ci allontanano dai vari agglomerati istituzionali della modernità o che ce li fanno «superare». Vedremo tra poco di individuare questi agglomerati. Anche se non viviamo ancora in un universo sociale postmoderno, già scorgiamo segni concreti dell'affermarsi di modi di vita e di forme di organizzazione sociale che si discostano da quelli prodotti dalle istituzioni moderne.
Alla luce di questa analisi diventa chiaro perché la radicalizzazione della modernità è così inquietante e al contempo significativa. Le sue caratteristiche più appariscenti - il declino dell'evoluzionismo, la scomparsa della teleologia storica, la consapevolezza di una riflessività assoluta e costitutiva, insieme al venir meno della posizione privilegiata dell'Occidente - ci introducono in un universo di esperienze nuove e preoccupanti. Pur riferendosi ancora in primo luogo a coloro che vivono in Occidente - o più precisamente nei paesi industrializzati - queste considerazioni hanno implicazioni che sono avvertite ovunque.
(Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, 1994, pp. 52-59)