GENTILE, SUL LIBERALISMO

 

Chi conosce la storia del liberalismo sa bene che esso ha origini storiche circostanziate e contingenti e uno sviluppo storico aderente allo sviluppo della società borghese e industriale europea dalla fine del 600 in qua: ossia che esso non è propriamente una dottrina filosofica dell'uomo considerato - come lo considera sempre la filosofia - sub specie æterni, ma la soluzione di un determinato problema storico. Il quale, comunque, è risoluto e sorpassato. E coincide con la formazione di quello che si dice lo Stato moderno, che passa per due forme differenti, variamente rappresentate in modo più o meno distinto e significativo nei vari paesi d'Europa, ma così strettamente connesse che la seconda non s'intende senza la prima di cui è lo svolgimento necessario. Queste due forme muovono dalla negazione dello Stato feudale del medio evo, e chi oggi, esaltando il sistema liberale, ne cerca gli incunaboli nei parlamenti medievali, dimostra in verità di non possedere un chiaro concetto di quel che sia storicamente la ragione e l'essenza dello Stato liberale. Giacché lo Stato feudale è quello dell'autorità che scende dall'alto, per diritto divino, per grazia di Dio, come qualche cosa di natura, un che di immediato. La feudalità e i parlamenti in cui essa si organizza variamente, non toccano questa essenza dell'autorità in cui si concretano il potere e il valore dello Stato. La quale invece è negata con lo stato delle Signorie, prodotto dell'umanesimo italiano: quando la forza, o virtù che si dica, dell'uomo operante secondo la logica del Principato crea storicamente lo Stato, che né Pontefici né imperatori instaurano, nulla di trascendente l'umano volere pone in essere, ma deriva appunto dall'atto di questo volere, anzi è questo atto. E la Signoria è una trasformazione del Comune, che è sì, esso, la culla dello Stato liberale. Ma la Signoria rispetto al Comune ha un vantaggio essenziale: essa introduce l'unità del potere e risolve l'atomismo degl'individui e delle classi nella personalità dello Stato, che vuole attuarsi compiutamente come autocoscienza. Dalle Signorie l'assolutismo dei monarchi nazionali, che conquistano, detengono e difendono il dominio, e possono dire: l'Etat c’est moi. E politici e filosofi s'inchinano al monarca illuminato, in cui vedono l'interesse e il pensiero dei cittadini, eguagliati sotto il potere supremo in comunanza di diritti e di doveri, fatto persona, autocoscienza. E se tutti i cittadini potessero essere veramente uguali, come quella filosofia li presuppone, e cioè indifferenti, quell'assolutismo sarebbe l'ideale dello Stato. Il quale regge infatti finché nella sfera della società civile che il monarca dirige e governa, non si viene sensibilmente rompendo cotesta indifferenza, col costituirsi di interessi di individui e di gruppi sociali che col lavoro, l'iniziativa, l'ingegno, l'operosità, ecc., vengono assommando a sé cospicue energie sociali della cui plusvalenza e prevalenza a poco a poco diventa impossibile non tener conto. Sorge la borghesia. Di fronte alle classi privilegiate (clero e nobiltà, naturali alleati del dispotismo che, pur essendo un prodotto storico, si pone di fronte al cittadino come un immediato e un limite da riconoscere meccanicamente) sorge questa nuova classe che scalzerà le altre e vorrà esser tutto: la classe degli uomini senza passato e senza investitura, figli di sé stessi, e forti della forza che essi stessi vengono di fatto dimostrando col lavoro e ogni altra sorta di attività personale, nell'industria creatrice dei beni di cui tutti han bisogno per vivere. Questa classe raccoglie in verità tutti gli uomini che siano degni di questo nome nello Stato moderno, in cui l'uomo (il principe) vale tanto quanto sa e può, e perciò quanto è capace di produrre e metter di suo nel mondo. Questa classe, la borghesia, con la sua effettiva produttività, mentre si differenzia dalle vecchie classi e si differenzia in sé stessa per la necessaria varietà del lavoro e degli interessi che esso crea - non è più riducibile al principio del Principato, ma concorre con questo nella creazione degl'interessi che lo Stato contiene e tutela. Vi concorre in vario modo, e in misura sempre maggiore a mano a mano che l'industria con lo sviluppo del lavoro (del pensiero) si svolge, e aumenta sempre più il proprio valore. La rivoluzione francese, come già la inglese e l'americana, è l'affermarsi del terzo Stato, ossia della borghesia, che a un certo punto del suo sviluppo si sveglia, sente che il Principe di contro a essa è puro arbitrio, e gli sorge di fronte per limitarlo alla funzione di organo esecutore della propria volontà. Che d'ora innanzi si presumerà possa manifestarsi attraverso la rappresentanza nazionale. Ed ecco il liberalismo. Ma c'è bisogno di ricordare che nel secolo passato lo sviluppo della grande industria doveva evocare dietro al terzo, il quarto stato, poiché l'industria aveva creato il capitalismo, e il lavoro dei capitalisti o detentori delle ricchezze conquistate col lavoro diventava un'astrazione senza il lavoro dei lavoratori? Anche una volta il popolo minuto insorse contro il popolo grasso. Sorse il socialismo e il comunismo; e lo Stato liberale, lo Stato della borghesia cominciò a essere scrollato come Stato incapace a garantire la libertà della maggioranza dei cittadini, che è costituita dalla massa dei lavoratori. Lo Stato liberale entrò in crisi, da quando cominciò a staccarsi dalla realtà sociale-economica, per la cui organizzazione politica era nato. I rappresentanti non rappresentarono più nello Stato l'effettiva volontà del cittadino. Il quale si estraniò dal congegno di questo Stato falso, vuotato del suo proprio contenuto, e cominciò a corroderlo in doppio modo: 1))partecipando al giuoco della rappresentanza sentita come una forma vuota e fallace e destinata perciò a cadere, piegando con la violenza del numero le forme parlamentari al tradimento della loro originaria funzione statale (metodo negativo che ha ne' vari Stati corrotto il sistema parlamentare, disgregando le forze vitali dello Stato che i liberali originari avevano creduto di salvaguardare e rafforzare con la stessa libertà;2))appartandosi nei sindacati, per creare in questi il loro vero Stato, aderente veramente al loro interesse e capace perciò di tutelarli.Il problema dello Stato oggi non è più quello di assicurare il riconoscimento del valore politico del terzo Stato - che fu il cómpito dello Stato liberale - ma di garantire al lavoratore e ai suoi sindacati il valore politico, che essi reclamano e che non possono ottenere finché la molteplicità dei sindacati non si componga nell'unità dello Stato. Perché l'uomo politicamente è Stato; ed è uno Stato o nulla. Laddove i sindacati come raggruppamento di individui secondo le differenti categorie in cui gli individui economicamente, come forze produttive, vengono a distribuirsi, sono al pari degl'individui molti: ciascuno diverso da tutti gli altri, e ciascuno perciò chiuso in sé stesso e non disposto a riconoscere se non il proprio esclusivo interesse. Che è la forza, com'è il difetto del sindacato. Nel quale l'individuo ritrova quella immediatezza che trova in sé stesso: niente che astragga dal suo proprio interesse, niente di generico che gli possa parere imposto dall'alto o dall'esterno. Qualche cosa come la sua stessa famiglia per chi la famiglia senta come l'ampliamento e la concretezza della sua stessa persona in breve cerchia dove tutto gli è noto, tutto domestico e intimo, e suo ogni dolore come ogni gioia, e la vita di cui si parla e per cui si ha interesse è la sua stessa vita. E come la famiglia infatti il sindacato è stato esaltato quale efficacissima scuola dell'operaio, che vi impara naturalmente a uscire dal suo primitivo egoismo, ad apprezzare e sentire come suo un interesse comune, e a trovare, per tal modo, la norma della propria condotta in un ideale superiore all'istinto di natura. Ma il sindacato è il sindacato, e la sua struttura omogenea importa per la divisione del lavoro altri sindacati. Ci sono, e non possono non esserci altri sindacati. E una volta sorti i sindacati contro i datori di lavoro, i lavoratori si troveranno di fronte le unioni di questi datori di lavoro. Un atomismo sociale in flagrante contrasto con le necessarie correlazioni che intercorrono tra ogni sindacato e tutti gli altri. Il sindacato perciò è un atomo, come apparisce alle sue unità, e non è un atomo, perché è superato dal suo naturale nesso cogli altri. Supera e deve superare il particolarismo che è il suo astratto universalismo sociale. Ogni sindacato è una fetta d'uomo, e l'uomo non può essere che uomo intero; e il suo Stato perciò non è sindacato, ma superamento e risoluzione dei sindacati nell'unità fondamentale dell'uomo che si articola in tutte le sue categorie sindacali; e che non è un risultato, ma il principio e la condizione della molteplicità dei sindacati. Sicché lo Stato è sì sindacato allo stesso titolo per cui è individuo: ma individuo consapevole della propria reale complessa universalità la cui attuosa volontà è lo Stato. Così il sindacato è lo stesso Stato quando si eleva dagli angusti suoi limiti di categoria sociale alla piena unità del volere univerale che anima e promuove tutte le categorie. L'errore del vecchio liberalismo che torna sempre variamente camuffandosi a girare pel mondo come l'ultimo figurino della politica estera, è l'errore stesso del sindacalismo: la concezione atomistica della società, intesa come l'accidentale coacervo e incontro di individui, che sono astratti individui, o di sindacati, che male presumono di esistere e male pretendono di esistere perché sono astratti. Come li può concepire soltanto chi alla società guarda materialisticamente, e la vede come moltitudine che convive e deve unificarsi non essendo per sé altro che negazione della unità. Individui esterni l'uno all'altro, partecipi al bellum omnium contra omnes; sindacati esterni del pari reciprocamente e incapaci perciò di attingere quella unità, di cui la loro natura è la negazione. A vincere perciò questo astratto sindacalismo non può essere il liberalismo ugualmente astratto degli individualisti; quella sorta di massiccio materialismo, che fu sempre combattuto da uno che di libertà se ne intendeva, il Mazzini. Il quale voleva sì la libertà, come la vuole ogni uomo consapevole della sua natura; ma sapeva che la libertà non è attributo dell'individuo astratto, ma di quello che è ogni individuo in concreto, il popolo: è libero italiano in quanto libero è il popolo italiano e non può che essere schiavo se schiavo è il suo popolo. Quindi prima unità e indipendenza di esso; che non è un popolo se è diviso e ignora o è inetto ad attuare la coscienza della propria unità; e non è un popolo neppure se è soggetto allo straniero. Dunque, libero è soltanto l'individuo nel libero Stato. O meglio, libero è l'individuo che è Stato libero, poiché lo Stato, realmente, non è tra gli individui, ma nell'individuo, in quella unità di particolare e universale che è l'individuo.

 

(G. Gentile)