GENTILE, IL GENIO

 

La nostra teoria della bella natura conferisce chiarezza a un'idea oscura, della quale, sebbene oscura, né il pensiero comune né la filosofia hanno mai potuto far a meno. Espressa con una o con un'altra parola, da Platone in poi, essa è stata sempre presente alla coscienza critica e storica nella valutazione dello spirito artistico e in generale dello spirito umano, e dal secolo XVIII in qua si denomina genio. Il quale è cosa profondamente diversa dall'intelligenza o dall'ingegno, intesi entrambi non come funzioni speciali dello spirito, ma come alta potenzialità del complesso delle sue funzioni. E per lungo tempo all'ordine del giorno delle ricerche psicologiche del secolo passato fu questa del criterio con cui propriamente si potesse distinguere l'ingegno dal genio; senza che si giungesse mai a un risultato di carattere scientifico, fondato cioè su principii certi e solidamente ragionato e dedotto. Il genio è di quelli cui spetta il nome che più dura e più onora: dei poeti. Essi sono i creatori, come suona la parola greca, i quali arricchiscono il mondo umano di nuove forme, che siffattamente s'intrecciano e immedesimano a quelle preesistenti da rinnovare l'aspetto e il valore del tutto; e possono perciò dirsi i creatori del mondo spirituale, in cui gli uomini vivono. La natura — questa natura che nessuno per poco che sia riflessivo considera puramente esterna, senza sentirla dentro di sé come quello che ognuno è alle sue radici — sembrerebbe agli uomini una breve prigione, ancorché costi loro tanto sudore della fronte padroneggiarla e cavarne il pane quotidiano, se essi non ne dilatassero gli orizzonti ad ora ad ora con la potenza creatrice dell'arte, che la trasfigura e rende infinita. Perciò alla coscienza ingenua vien fatto di assomigliare l'artista alla Divinità; e perciò l'arte fu sempre concepita presso a poco come imitatrice della natura, ossia intenta a fare quel medesimo che la natura, e a moltiplicarne quindi le produzioni. Perciò gli uomini sono riconoscenti ai poeti, nel senso universale del termine, li onorano ed amano. Per essi e con essi, vengono in possesso del loro mondo. In essi ritrovano se stessi, non quali sarebbero per natura, immediatamente e senza fatica, ma quali aspirano ad essere. Vi ritrovano la loro vita ideale; quella in cui giova loro progredire di giorno in giorno, sempre più avanti, sempre più in alto, con emozioni nuove, più intense, più fini, più vive. Se la poesia si spegnesse, il mondo in cui gli uomini vivono, si oscurerebbe; gli uomini ad ogni nuova opera d'arte che sorga all'orizzonte, si volgono ad essa con animo ansioso, come al sole oriente. Onore simile tributano sì ai pensatori e agli uomini d'azione. Ma, agli occhi loro, tra questi due gruppi di spiriti magni e i poeti corre differenza notevole, che essi sentono vivamente, al punto da esserne tratti a vedere nei poeti una sorta di spiriti privilegiati, che se ne stanno a parte, divisi da tutto il resto dei loro simili. E la differenza è questa: che i pensatori e gli uomini d'azione richiedono da chi voglia elevarsi insieme con loro in quella sfera superiore, dove si attua il loro mondo spirituale, una speciale fatica, che spesso, a chi deve cominciare, e quindi alla moltitudine, si presenta dura, aspra, difficile: la fatica del pensare; e non di un qualsiasi pensare, ma di un certo pensare, che si è determinato attraverso molto pensiero; e questo pensiero è tutto da rifare, da chi voglia partecipare al pensiero del pensatore, all'intenzione che è nel programma dell'uomo di azione. Il mondo del pensatore e dell'uomo di azione è una costruzione. Il mondo invece del poeta è l'anima stessa al principio della costruzione: quel sentire che è lo stesso sentire in ogni uomo, nello splendore del soglio regale e nello squallore del più vile tugurio, nell'animo dell'addottrinato teologo come nel cuore della pia femminetta, nell'accademia dei dotti e nell'amplesso degli amanti, sì nella gioia e sì nel dolore. E non importa se anche a ravvisare quest'anima e questo fondamentale sentire umano occorra pure leggere libri e intenderli; e, per intenderli, studiare, e mettervi cultura e attenzione; e insomma, da capo, sostener la fatica del pensiero; non importa se, a non aver nessuna cultura d'arte, c'è da confonder un Tiziano con un'oleografia; e a non aver nessuna cultura letteraria, c'è da perdere la testa al teatro, senza penetrare il pensiero d'un dramma. Ma la cultura, il pensiero e la fatica possono essere una gran cosa e possono essere una quantità trascurabile; e quando la fatica c'è, è come una forte spesa che si sia già sostenuta; e lo sforzo è fatto, e non ci si pensa più; poiché l'arte non sta nel pensiero, sì in quel punto dell'animo, in cui torna a vibrare nella sua semplicità il sentimento; e i grandi si ritrovano piccoli, e i dotti esultano con gl'ignoranti, e tutti si ritrovano uomini, di un solo sentire: essi e la natura, tutto. Non è la poesia l'attributo dell'infanzia ideale dello spirito? Via dunque l'erudizione e i libri, via la tecnica laboriosa e la riflessione che copre di rughe la fronte e fa incanutire. Via la fatica. L'arte ci riconduce alle fresche e pure acque della sorgente, donde fluisce eterna la vita. Pure anche il pensatore e l'uomo d'azione sono onorati ed esaltati. Ma la loro luce è quella che su di essi si riflette dall'immanente poesia che anima ogni pensiero e perciò ogni azione, ogni forma di umanità. E così non è forma schietta di umanità che non senta o non faccia sentire la potenza del genio. Ma è sempre il genio che inizia e crea e dà il senso del nuovo e del giovanile, e insomma della vita che comincia: il genio poetico. [...] Il genio non è pensiero, non è l'arte nel senso antico del termine, onde l'arte si contrappone a natura (natura an arte?): non è sapere, né scienza, né filosofia. Tanto meno rivelazione che infonda nell'anima un sapere sovrumano, e faccia parlar l'uomo come uno strumento: ne annienti cioè la soggettività per far valere in lui e a' suoi occhi una Realtà assolutamente oggettiva. Il genio contraddistingue l'individualità meglio dotata, e cioè più energica e fattiva, e che pertanto più si faccia valere. Tanto è individuale che non si trasmette e non s'insegna: perciò attira gli sguardi dell'universale e suscita l'ammirazione delle moltitudini che vedono nella genialità un singolare e incomunicabile privilegio degli spiriti superiori. Si scambia con i caratteri naturali; e naturale esso è, se il concetto di natura si concepisce con gli accorgimenti da noi raccomandati. Partecipa infatti di quella relativa immediatezza che è propria del sentimento, in cui è la vita e la realtà propria della natura. È esso stesso la soggettività del soggetto, che nulla può perdere e nulla acquistare, al quale nulla si può sottrarre e nulla aggiungere: sì che, a malgrado dell'intima e inscindibile connessione del sentimento e della riflessione nella sintesi dell'autocoscienza, né occorse mai grande studio a render possibile la manifestazione della genialità, né mai essa poté essere conquistata a forza di scuola e di regole. Eccellenti letterati possono perciò lasciarci freddi e distratti; e il rozzo poetare d'uno spirito incolto può con la sua forza spontanea colpire direttamente il nostro animo e svegliarvi un tumulto di affetti. E nella stessa filosofia o scienza, nella stessa azione, vale più sempre la geniale ispirazione e il felice impeto del soggetto verso la realtà che non la più agguerrita e guardinga sapienza degli addottrinati. E c'è il giovane scienziato che con le così dette intuizioni fa compiere d'un tratto grandi passi alla ricerca del vero, e c'è il vecchio studioso che commenta ed illustra le fatte scoperte con erudizione e chiarezza logica la maggiore che si possa desiderare. Ma, così inteso, il genio, è evidente, non è più, se non per chi si contenti di empiriche osservazioni, il privilegio di alcuni spiriti superiori. Il genio è di tutti, quantunque possa parere che molti lo smarriscano o lo seppelliscano sotto una cattiva cultura, sotto velleità di pensiero e di opere sproporzionate e incongrue alla loro soggettiva energia: avvolgendosi in idee, che non sono le loro idee e gettandosi praticamente in un mondo che non è né anch'esso il loro mondo. Spostati della vita spirituale, sprecano i loro talenti, quantunque anch'essi li abbiano avuti dal Signore. Li sprecano, s'intende, perché non li fanno fruttare quanto avrebbero potuto. Ma, a rigore, anch'essi vivono di quei talenti; e quel poco che conchiudono nella vita, lo ricavano dal loro soggettivo peculio, per quel tanto di sintesi spirituale che riescono a realizzare: giacché anche i cattivi poeti e i pittori falliti e i filosofi mancati e tutti gl'inconcludenti, che son tali per ciò che han voluto rappresentare, sono stati pure uomini che hanno vissuto la loro vita quantunque modesta. E vivere è pensare; e, chi dice pensare, dice prima di tutto soggetto; e quindi genialità, sia pure in piccola o piccolissima dose. [...] Il genio che conclude, che riesce, che non sbaglia, e perciò crea, è la stessa natura, che non è mai fuorviata da quel falso sapere che è il mezzo sapere, il quale fa sbagliare così spesso gli uomini. È la natura che non opera dall'esterno, come l'uomo che con la sua scienza (mezza scienza) s'illude di poter entrare dal di fuori nell'interno del vivente, veder com'è fatto, e perciò (una volta finalmente!) rifarlo; e creare artificialmente l'homunculus. Come la natura non conosce artificio, così il genio compie i miracoli stessi della natura senza vano uso di espedienti, senza regole e senza ricette. Non cerca il suo mondo fuori di sé, ma in se stesso; e dal suo interno infatti lo genera con quella stessa virtù irresistibile che è nel rigoglio della pianta, che si spinge in alto e intorno al suo asse per accamparsi nello spazio e trarre quanto più può del mondo circostante nel suo proprio circolo vitale. Questa identità del genio con la natura non è una metafora, bensì l'espressione di un puro concetto speculativo. Ed è chiaro per chi abbia inteso quale sia l'energia dialettica del sentimento, che è l'anima del corpo e del pensiero, e per chi sia penetrato nel nostro concetto della natura, come realtà pulsante spiritualmente nel sentimento: corpo, ma in quanto corpo infinito. Quella vis interna naturæ, che sfugge all'analisi scientifica della chimica e della meccanica, perché rimane sempre, al di là di ogni analisi, come la forza operante della sintesi, quella vita che è oscura infatti alla ricerca scientifica come quella che trascende la sfera dei fenomeni, a cui l'indagine scientifica è costretta a limitarsi, e che pur è sempre là, sotto gli occhi di tutti a reggere e rinnovare con potere inesauribile tutte le forme vitali, in cui la natura continuamente ci si rappresenta; è per l'appunto questa vita che ci pullula dentro e ci riscalda e ci dà modo di non restare, pensando, passivi spettatori del mondo, ma di parteciparvi attivamente, anzi di crearci via via il mondo nostro, in cui tutta la nostra vita si spiega. Tuttavia bisogna sempre bene avvertire, che questa vis interna può intendersi come quella che si fa pensiero ad un patto: che non si assuma come una forza circoscritta racchiusa nel seme di una pianta, o nella pianta stessa, esterna a noi, come esterna ad ogni altra pianta e a tutte le restanti cose del mondo; a quel modo che per concepire l'anima mia, io non posso raffigurarla — come una volta si fantasticava — incapsulata dentro al mio corpo particolare. Così la pianta come il mio corpo particolare sono il prodotto dell'astratta analisi, nella quale non si può insistere senza cadere in quella concezione materialistica, che è l'assurdo. La vis di cui si parla, è infinita: e perciò batte con lo stesso polso così nella pianta come nel mio cuore: ed è la forza naturale del genio. Il quale, di questa natura che è spirito e trova nella sintesi spirituale la sua attualità, non è imitatore. Di mimèsi poteva parlare Platone che distingueva e separava due cose, anzi, in fondo, tre: idee, natura e spirito umano; onde Dante dirà che l'arte a Dio (Idea delle idee) quasi è nepote. Ma la mimèsi è un mito; e quando ci si voglia render conto di quello che esso dovrebbe significare, non è possibile più trovarvi dentro un pensiero. Dato infatti il dualismo di modello e imitazione, non si vede come il paragone e il rapporto sia mai possibile. Il concetto d'imitazione accenna bensì, in forma ancora immatura ed impropria, all'identità di arte e natura; identità, che non si sa ancora precisamente spiegare, e perciò si attenua e presenta come semplice analogia. La quale importerebbe non pur l'analogia dell'attiva produttività, sì anche quella del prodotto: di modo che un ritratto fosse l'analogo della persona viva. Che è una negazione dell'originalità assoluta che compete all'arte come alla natura. La quale, in tal senso, non imita mai se stessa (ancorché paia che i figli somiglino ai padri, e tutti gl'individui d'una stessa specie abbiano indubbiamente tra loro manifesta similitudine), né mai si ripete, creando sempre nuovi esseri; e così il genio, che opera per la stessa virtù, non presenta mai alcuna forma di sé, che non sia affatto singolare e imparagonabile, per quel che è proprio del genio, ad altra forma qualsiasi. Giacché il ritratto si può bensì ragguagliare alla persona a cui si riferisce; ma il ragguaglio concerne sempre e soltanto i particolari, a cui l'analisi può bensì astrattamente fermarsi, laddove il carattere estetico del ritratto non è se non nella sintesi, dove riluce l'anima dell'artista. Senza quest'assoluta originalità il genio non sarebbe creatore, e non s'innesterebbe alla natura, di cui possiede il potere.

 

(G. Gentile)