GENTILE, LIRICA POESIA E MUSICA
Ma fra tutti i generi di poesia è sembrato recentemente che uno fosse particolarmente privilegiato come rappresentativo della forma essenziale e immancabile del poetare anzi dell'arte in generale. E cioè la lirica come forma più primitiva e fondamentale del sentimento. E si è detto perciò che l’arte è lirica.
In realtà, se la lirica si spoglia del suo peculiare significato, per cui la lirica non è epica e non è drammatica ed essendo poesia, non è musica, né pittura, né altro special genere artistico, non c'è ragione per dire che l'arte è lirica, e non dire che l'arte è musica (come tante volte è stato pur detto), o è pittura, o dramma, o scultura magari, od architettura, il cui ideale, dice pure empiricamente l'architetto, è quello di radunare in qualche modo tutte le arti figurative (e perché non anche le altre?). L'arte infatti è lirica come espressione del sentimento; ma, poiché questo sentimento si oggettiva e si configura in qualche cosa di oggettivo, che riempie l'animo dell'artista, e gli rappresenta perciò il mondo come un epos (qualche cosa di affatto oggettivo, alla cui contemplazione il soggetto si affacci), l'arte è anche epica. E poiché questo mondo epico è portato dalla sua essenziale identità col soggetto che vi si specchia, a rispecchiare l'umanità, a presentarci perciò l'umano ne' suoi contrasti, e nella sua storia, sia che vi partecipino più individui aspiranti di conserva alla soluzione del problema della loro vita, sia che la promuova per suo conto e con le sue forze sole l'individuo che la vive, l'epos si spiega come dramma; e l'arte non può essere epica senza diventare drammatica. E d'altra parte, questa umanità drammatica e la stessa natura, che nell'epos fa da sfondo all'umano, non vivono già nello spirito artistico come persone e cose, che hanno forma e atteggiamenti espressivi della loro vita interiore, in cui si ripercuote l'anima dell'artista? Ed ecco la pittura, ed ecco la scultura. E questa umanità nella natura non si raccoglie e concentra nelle case, nei templi, nei teatri, in questi mondi contratti dalla volontà umana, in cui la natura è già umanizzata e indotta a servire e a partecipare, complemento, cornice e strumento, alla stessa vita dell'uomo? Ed ecco l'architettura.
Ma, sopra tutto, questa più immediata forma dell'arte, che sarebbe la lirica, nella forma sua veramente primitiva e immediata, si sa, non è prosa o recitativo; è parola, ma parola modulata in ritmo, numero e misura; è canto. L'arte non è lirica, se non in questo senso, che è canto. Quel canto che è la prima forma di esprimersi del bambino, ma che, se si attenua via via cogli anni fino quasi a spegnersi nella fioca voce del vecchio, e pare che si venga via via sciogliendo dai vincoli dell'accento e della sua metrica, passando dal verso alla prosa, in realtà non cessa mai; poiché non c'è parola mai senz'accento, né periodo senza ritmo. E la metrica, dalla poesia alla prosa, cambia in varie guise, come da un genere di strofe o di versi all'altro; ma c'è sempre, e scandisce nella parola il sentimento che vi s'incorpora, sempre.
Ora chi dice canto, dice musica. La quale può anche far a meno della voce articolata dall'uomo; poiché quell'articolazione non è per se stessa significativa ove si accompagni ad altra voce che pur si articoli, e moduli, e pur si varii e variamente si atteggi ad attuare quella molteplicità in cui il sentimento del soggetto si analizza oggettivandosi e così manifestandosi. Voce, ugualmente naturale, come quella dell'uomo; ma sempre dall'uomo, come quella che gli suona sulle labbra, scelta, governata, diretta: voce di oggetti sapientemente conformati allo scopo; ma anche voce del vento che soffia tra i rami della foresta o tra le canne d'una riviera; voce del ruscello che col suo murmure risponde a un lene sentimento dell'uomo che vi s'indugia da presso; voce dell'allodola che levandosi su su in alto nel cielo, pare tragga seco nel puro aere infinito verso il sole, verso la luce, l'anima dell'uomo in cui si riecheggia il suo trillo. L'uomo tutte le voci della natura chiamerà intorno a sé, dentro di sé; le chiuderà ne' suoi strumenti sonori e canori; e con questa sua nuova e sempre più perfetta tecnica, tornerà e continuerà a cantare, trovando sempre nuove parole onde sigillare il proprio sentimento. Ecco la musica, che si sviluppa in mille guise, ma essenzialmente è in quel misurato ritmo onde il sentimento si muove, e movendosi esce nel canto: nel canto che può sonare per l'aria, in quanto l'aria stessa appartiene alla interna natura, di cui s'è parlato sopra, corpo dell'anima; ma per sonare nell'aria, bisogna perciò che suoni dentro; come vi suona infatti nel silenzio segreto dell'anima, dove un Beethoven sordo ascolta le sue sublimi armonie.
A considerare poi come la musica sia intelligibile egualmente a uomini di diversi linguaggi, che non s'intenderebbero se tentassero di esprimersi ciascuno nella propria lingua, a vedere come in una sala anime le più diverse tremano insieme intorno al fremito d'una corda, può parere, ed è parso, che la musica più della poesia, più d'ogni altra arte, parli al cuore dell'uomo; e nella sua maggiore universalità esprima più direttamente della stessa lirica l'essenza primigenia della poesia, che ha sempre virtù di unire gli spiriti in un sentimento solo. Ma la verità è che anche il violino, e ogni musica, è una lingua speciale; e come tutti gli uomini di una folla che stanno a sentire un oratore e lo intendono, perché egli parla la loro lingua, possono ignorare tante altre lingue, e tutte certamente non potranno conoscerle tutti, così i molti che si commuovono ad ascoltare il pezzo d'un solista, non è una singolarità che conoscano tutti la lingua del violino, e siano tuttavia di nazioni e di lingue diverse.
Ma né il violino, né, in generale, la musica, né la pittura e nessun'altra arte, neppure la lirica, sono propriamente la forma dell'arte; perché sono tutte tecniche, e come tali, pensiero, suscettibile di variazioni infinite, della cui varietà il sentimento sempre trionfa, movendosi e commovendosi egualmente sia alla contemplazione d'un quadro, sia all'ascoltazione del rapsodo, sia alla lettura d'una poesia, sia allo spettacolo d'un dramma, sia (se ha appreso la lingua!) alla comprensione d'una lezione di filosofia, o d'astronomia, o di matematica. E si racconta infatti di un maestro insigne di calcolo infinitesimale, che nelle sue lezioni si dimenticava, e quando aveva riempito la tavola nera di formule, conchiusa la deduzione laboriosa e dimostrato chiaramente il teorema preso a trattare, si fermava a contemplare il quadro così descritto con volto irradiato di gioia; e gli scolari sentivano commossi la verità dell'esclamazione, con cui egli esprimeva in quel punto quel che sentiva, mormorando: — Bello! — La commozione dell'applauso da cui un uditorio non si sa astenere, è il sentimento stesso di cui si parla nel Jone platonico, quando agli ascoltatori sembra che invisibili catene scendano dal cielo a legare i loro animi per tirarli in alto.
(G. Gentile)