GENTILE, GENERI LETTERARI E PSEUDOCONCETTI
Tutto ciò non significa che nell'istinto del sentimento tutto si confonda insieme e si tinga di un sol colore. Il sentimento si distingue mediante il pensiero, assumendo sempre forme determinate. Ma in ogni sua forma determinata, per chi consideri, e in quanto si ha motivo di considerare l'opera dello spirito dal rispetto dell'arte, esso è sempre il medesimo sentimento, sempre la stessa anima. Così, qualunque sia il discorso che stia facendo uno de' nostri familiari, egli è sempre lui, e lo sentiamo all'accento. Qualunque sia l'atteggiamento e l'espressione di una fisionomia, c'è sempre un non so che, che sfuggirà sempre ai vani tentativi di descrizioni in cui s'affanna la polizia scientifica, quell'indefinibile «aria» che ci fa riconoscere ogni uomo a noi noto, solo che si volga a noi e ci guardi. Varia la melodia, e il motivo fondamentale rimane immutato. Si succedono, in un romanzo, capitoli a capitoli, scene a scene, dialoghi a dialoghi, in una grande varietà assolutamente determinata; ma attraverso a tutte le pagine, dalla prima all'ultima, vi circola dentro uno stesso spirito, vi si respira sempre la stessa aria, si vive nella stessa atmosfera. La varietà c'è, ma è la varietà dell'unità, in cui consiste la poesia, il calore, la vita del tutto.
Né d'altra parte si creda che, in questa sterminata varietà in cui l'arte si moltiplica attraverso la tecnica che investe il sentimento, non ci sia termine di mezzo tra l'unità del sentire e quest'infinita moltitudine delle tecniche. Il fatto che la tecnica di un genere letterario non riguardi l'elemento estetico dell'opera d'arte, e si riduca a semplice antecedente dell'arte in cui s'annulla, non significa che non vi si rifletta e non dia al sentimento una sua determinata individualità. Il sentimento vi si specchia dentro, facendo di questi suoi antecedenti il suo contenuto nell'atto di oggettivarsi e di produrre la così detta opera d'arte. Né la tecnica, il pensiero, come sappiamo, può ritenersi qualche cosa di estrinseco e sopraggiunto, poiché la realtà del sentimento si ha solamente nella sintesi, in cui il sentimento si specchia nel corpo del pensiero, e quindi nella sua tecnica.
Quel che importa, una volta presa l'arte nella concreta opera d'arte, dove l'arte ha un contenuto, che è tragedia, o romanzo, o sonetto, ecc., è penetrare dentro questo contenuto, fino a scoprire il nucleo vivo, e in esso sentire il contenuto determinato. Il genere letterario è sulla soglia dell'arte; e certo, chi voglia conoscerla com'è fatta, bisogna che entri dentro.
Altra critica è quella che, nel genere letterario e in ciascuna delle arti, vede bensì una forma di tecnica, ma una forma generica e astratta. La quale, in concreto, non è la tragedia, ma l'Antigone, non è la pittura ma un Raffaello o un Goya. E allora si dice: due sono le realtà, o l'universale o l'individuo. E qui: o l'arte, o un'opera d'arte singola. Una speciale arte non è un concetto (a cui corrisponda qualche cosa di reale), ma uno pseudo-concetto.
Ma questa critica che, dopo avere interdetto ai timidi ed inesperti una innocua terminologia, utile e necessaria non pel giudizio estetico ma per le designazioni orientative ed euristiche che sono indispensabili allo storico, e dopo aver fatto incredibili sforzi, tra la buona volontà e la rassegnazione universale, per cacciarla da ogni villa, ha dovuto cedere alle pratiche necessità della storiografia e riammettere i proscritti generi letterari con tutti gli onori (3); questa critica si regge sulla fragili basi di quella disgraziatissima dottrina realistica, alla quale abbiamo avuto più volte occasione di accennare. È sempre la dottrina che vuota la conoscenza, individuale od universale, d'ogni contenuto, e ne fa una sorta di tessera rappresentativa, in sede soggettiva, di una realtà non si sa in che modo o a qual titolo corrispondente. Realtà individuale — percezione, o intuizione; realtà universale — concetto. Sarà magari questa realtà, individuale o universale, spirito; ma uno spirito, che non è quello stesso che si realizza nella relativa conoscenza. A questa filosofia è estranea ogni nozione di autocoscienza, come realtà che si realizza nel pensiero (forse perché autocoscienza e realtà sanno di filosofia teologizzante). Il suo spirito, che pure si gratifica dell'appellativo di Tutto, con l'iniziale maiuscola, e malgrado tutta la ripugnanza al teologizzare, è per cotesta filosofia né più né meno che Dio stesso, questo Spirito è concetto universale e assoluto concetto, senz'essere la realtà, ma tutt'al più il pensiero della realtà! Filosofia, nel suo realismo e intellettualismo ingenuo, essenzialmente atea e, come avrebbe detto Gioberti, condannata al nullismo più desolato.
Il pensiero, invece, per la filosofia moderna idealistica, non si riferisce alla realtà. Al pensiero volgare il rapporto tra soggetto e oggetto nella cognizione si rappresenta in questo modo: prima l'oggetto, autonomo, per sé stante, indipendente da ogni relazione che con esso possa acquistare il soggetto (concepito sempre come un soggetto particolare). Per la filosofia oggi, invece, l'oggetto è lo stesso soggetto. Anche il naturalista conosce la natura (una mitica natura preesistente al suo pensiero e ad ogni pensiero), ma la sua natura; quella natura che è nella sua esperienza e desta il suo interesse, e fa nascere i suoi problemi: e bisogna che quest'esperienza con i relativi interessi e problemi già si sia formata perché s'istituisca una certa indagine scientifica e si pervenga quindi a una certa conoscenza. La quale non sarà una definizione che il pensiero getterà sopra una presunta esterna natura, quasi per coprire le sue abbaglianti nudità in cui lo sguardo non si possa fissare; ma sarà un nuovo ordine che il pensiero metterà in se medesimo, e una nuova forma in cui verrà perciò a realizzarsi la coscienza di sé.
Da questo punto di vista, che è il solo che regga alla riflessione critica, ogni distinzione di grado nella conoscenza vien privata di ogni ragion d'essere. La più infantile parola come il sistema filosofico più elaborato è un momento dell'autocoscienza, che racchiude una verità infinita, tutta cioè la verità che si possa desiderare di conoscere in quel momento dell'autocoscienza. Si tratta sempre dello stesso conoscere e della stessa realtà conosciuta. E il sistema filosofico non si paragona dall'esterno alla parola vaga del bambino, quasi che fossero possibili due forme di conoscenza e due realtà correlative. Il paragone si fa, e il filosofo giudica il pensiero inferiore; ma si fa nell'interno dell'unico pensiero, poiché il pensiero superiore contiene l'inferiore; e, contenendolo, lo supera e lo giudica.
E tornando ai famosi pseudoconcetti, è vero che siffatti concetti generali (come uomo, cane, pianta, nome, verbo, avverbio, tragedia, satira ecc.) non sono categorie, cioè forme a priori e perciò pure e necessarie e assolute del pensiero quando se ne fa la critica, e si dimostra che il pensiero ne può anche far a meno. È vero che una regola grammaticale o poetica o rettorica è una formazione storica, che corrisponde a certe idee, a certe tradizioni di cultura, a certe date opere giudicate eccellenti, ma il cui valore non può essere elevato a forza normativa che agisca fuori di esse; è vero che ogni poesia ha la sua poetica, e ogni discorso la sua grammatica. Ma è anche vero che siffatti concetti generali per chi li adopera e per quel tanto che si possono adoperare con utilità (e chi adopera mai qualche cosa che non gli sia utile?) hanno quella necessità che è propria delle categorie del pensiero, ed hanno insieme quella individualità che è propria della conoscenza storica; almeno quando la storia s'intende come dev'essere intesa; ossia non come storia di una realtà data, ma della stessa realtà che si realizza nel fare la storia.
In primo luogo, tutte le determinazioni del pensiero sono categorie e non sono categorie. Non sono in quanto oggetto del pensiero; sono in quanto funzioni del soggetto nel pensare. Tutte le categorie si deducono (ad eccezione del soggetto) e tutte perciò si formano; ma, una volta formate entrano a far parte della costituzione del soggetto, e funzionano come forme a priori del pensiero. Quindi la categoria è una, e le categorie sono infinite. Molteplicità risoluta in un'immanente unità. Certo, vi devono essere state molte esperienze storiche perché si potesse costituire il concetto di tragedia: concetto indeterminato quanto si voglia e scarsamente suscettibile di precisa determinazione (ci sono forse concetti assolutamente determinati? ci sono forse nelle matematiche?). Ma una volta formato questo concetto, in cui il soggetto conchiude un certo periodo del suo proprio svolgimento, esso si converte in un'acquisizione originaria relativamente alle ulteriori esperienze storiche. Le quali saranno appercepite e qualificate in funzione di quell'acquisizione. Tale il processo eterno del pensiero. Ogni nuovo acquisto viene ad arricchire l'intima soggettività del pensiero. Nulla si perde, e tutto si tesorizza.
In secondo luogo, non è vero che queste categorie, acquisite mediante l'esperienza, disindividualizzino l'individuale più di quanto sia necessario alla sua appercezione. Conoscendo una nuova tragedia come tale, non accade che io, appunto perché la conosco come tale, non ci veda dentro se non qualche cosa di generico, lasciandomi sfuggire tutte le determinazioni peculiari per cui essa è non la tragedia, ma questa tragedia. La verità è che ogni giudizio, come giudizio del logo astratto, è universalizzazione del particolare, ma insieme particolarizzazione dell'universale; e come giudizio del logo concreto, universalizzazione (pensamento) dell'individuo e insieme individualizzazione del pensiero (o universale) (5). I due termini non sono separabili. E quando pare che si separino trattando il concetto di tragedia non come predicato di particolari tragedie, bensì come soggetto di astratte definizioni, che è l'errore addebitato alle poetiche vecchie e nuove, ebbene, per essere giusti e non dire spropositi, bisogna riconoscere che le cose non stanno propriamente come sembra. Giacché in questo come in ogni altro caso, se si dice che cosa è o dev'essere la tragedia, in realtà non si fa che pensare a quel che sono e dovevano essere le tragedie, da cui è nato il concetto di tragedia e però se ne parla. Aristotele pensa ad Eschilo, e il suo concetto della tragedia combacia con l'analisi della sua esperienza. Verranno bensì i pedanti e creeranno le regole per impastoiare la poesia ancor non nata. Ma il carattere normativo che, per esempio, il concetto dell'unità di tempo e di luogo assume nel loro pensiero, chi ben consideri non è una proiezione sull'avvenire e quasi un'anticipazione della regola immanente alla futura poesia, ma, analogamente al processo della poetica aristotelica, l'analisi dei caratteri interni di una tragedia ideale, che il pedante della poetica ha innanzi a sé e presuppone quasi già fosse scritta, sullo stesso piano della trilogia di Prometeo. Non accade evidentemente così per tutte le regole della grammatica, in cui l'autore di una grammatica normativa, o ha presenti gli esempi degli scrittori, o rifà egli mentalmente il discorso, il periodo, la frase, la parola in cui si applica la sua regola? Nel qual caso c'è una normatività; ma quella normatività che è incancellabile nella stessa trattazione storica, che non voglia trattare brutalmente l'espressione linguistica come fatto meccanico privo di qualsiasi valore.
Nulla, dunque, di peculiarmente illegittimo nella teoria dei generi letterari. È un teorizzamento di esperienze storiche, generatore di categorie alle quali non può rinunziare, neanche volendo, il pensiero che di tali esperienze non si può spogliare, e delle quali il pensiero farà buon uso sempre che a siffatte categorie conservi l'elasticità essenziale a concetti che nella storia si vengono via via modificando insieme con tutto il sistema di pensiero di cui fanno parte.
(G. Gentile)