GENTILE, FASCISMO E UNIVERSITà
Da un pezzo non si sente più il monito sonante: Fascistizzare l’università! Forse perché si sono inquadrati i professori, gli assistenti e gli studenti? No, perché l'inquadramento ha lasciato fuori quadro tutti gli antifascisti, se si può dire che ce ne siano ancora, e i non fascisti. E poi metto pegno che tra gl'inquadrati, anche se debitamente tesserati (con tessere nuove, e magari con tessere vecchie), ce ne sono ancora da fascistizzare, se per esser fascista non basta stare nei ranghi. O forse perché, comunque, s'è fatto gran cammino, dentro e fuori dei quadri, verso la mèta a cui si mirava quando, due anni fa e un anno fa, si affermava la necessità urgente di fascistizzare l'università? Neppure: le posizioni son sempre quelle. E non perché i non fascisti non si siano venuti conciliando al Fascismo, e convincendo che non si tratta di un movimento effimero e arbitrario dovuto all'ambizione di una o di poche persone, ma di qualcosa di serio, duraturo, storicamente necessario, superiore agli arbitrii dei singoli individui. Si può anzi dire che certe avversioni si siano venute naturalmente attenuando e gli animi, quelli che parevano più ostili e mal disposti, abbiano disarmato, per ciò che si riferisce all'essenza del regime, e al suo carattere e significato obbiettivo. Ma le posizioni reciproche di quelli che erano dentro e di quelli che restavan fuori si mantengono, non solo perché, formalmente, nuove iscrizioni al Partito non se ne fanno, ma perché quelli che nel 1924 e nel '25 non avevan capito, e credevano ancora che il Fascismo potesse forse liquidarsi da un giorno all'altro come uno de' vecchi partiti parlamentari, sono respinti e guardati con sospetto in tutti i campi in cui il Partito ammette che si possa e debba accettare la collaborazione degli italiani capaci e onesti, anche non fascisti. C'è sempre il famigerato manifesto o antimanifesto, che è sempre un caso strano come abbia potuto, quattro anni fa, raccogliere tante firme sotto una dichiarazione polemica banale e stizzosa, scritta senza la più piccola dose di coscienza della gravità e serietà dell'atto nazionale che s'intendeva compiere. C'è l'antimanifesto, e gli zelanti, nelle amministrazioni statali e negli uffici del Partito, vanno spesso a scartabellare gli elenchi dei firmatari, per rinfrescarsi la memoria e confermare periodicamente la sentenza di bando contro questo o quell'altro intellettuale segnato nigro lapillo: bando da una commissione giudicatrice, da un ufficio tecnico, da una cattedra, a cui si accederebbe magari per trasferimento ecc. E quante volte, negli ultimi tempi, non si è avuto l'impressione che alcuni fascisti non per puro e disinteressato amore degli ideali fascisti e per ardore e profondità di convinzioni politiche tenessero a negare o contrastare il passo a questo o a quello dei vecchi firmatari? E non importa se questi si fosse dimenticato di quella firma! Giacché non è una facezia che alcuni di costoro non si ricordino più di quella firma; come altri non ne seppero nulla quando il loro nome fu esibito nelle liste dei giornali antifascisti; e la maggior parte cedettero per leggerezza e vanità da intellettuali apolitici all'invito che in quel periodo di sbandamento fu loro insistentemente rivolto di unirsi per far numero, con una firma che non costava nulla e s'accodava a qualche nome illustre in un gesto brillante. Poiché la verità è questa, che tra gl'intellettuali italiani quelli che avevano gusto di cose politiche e senso di responsabilità, fin d'allora erano nel Partito fascista: e gli altri erano i soliti letterati, delle cui idee e manifestazioni politiche non è il caso di tener conto, perché possono essere parole e vane esteriorità, ma non coscienze, persone, caratteri. E però fin da principio per i più di loro io andavo ripetendo dentro me stesso l'ignosce illis, quia nesciunt...
Ma molti sono stati di diverso avviso, e dei firmatari, anche se avevan dati segni evidenti di ravvedimento e di docilità sconfinata, per un bel pezzo non s'è voluto più vedere il naso fuori delle loro aule scolastiche; e gruppetti d'avanguardia giornalistica o studentesca più d'una volta han tentato di snidarli anche di lì.
Tentativi e dibattiti, che non hanno giovato a dimostrare per l'Italia e per l'Estero quello che è la pura verità: che nelle università italiane, tra gl'intellettuali italiani, se ne togli una sparutissima schiera di malinconici ideologi legati a un passato che agonizza nei loro stessi petti o smarriti obliosamente nella maldicenza infeconda delle mormorazioni maligne, non c'è più un'opposizione antifascista; e tutti son pronti a servire il Regime, che è lo Stato. Affinché questa verità si manifesti nella sua evidenza basta che i fascisti non parlino più di antimanifesto, e sgombrino la loro fantasia delle ombre vane dei poveri firmatari, appartenenti ormai alla preistoria dell'Italia presente.
Chi ha inteso questa verità, è stato anche questa volta il Duce. E lo dimostra la lista dei primi trenta accademici da lui nominati; nella quale, con grande meraviglia dei più candidi fascisti, s'è visto venir a galla qualche nome dei non meno esecrati tra i firmatari dell'antimanifesto. E confido che egli procederà su questa via, e troverà il modo di liquidare il ricordo d'un passato che è ben passato: ricordo, che evidentemente non può essere interesse del Regime mantenere in vita artificialmente. Ho sentito parlare di una nuova formula di giuramento, in cui gl'insegnanti sarebbero invitati a giurare fedeltà anche al Regime. Se questo avverrà, son certo che, tranne quattro o cinque, che saranno essi stessi contenti di aver un'occasione d'uscir dall'equivoco, lasciando il servizio dello Stato che sotto i loro occhi s'è trasformato radicalmente e non può più ammettere divergenze di tendenze e di dottrine politiche tra sé e i suoi professori, giureranno in buona coscienza, lealmente; e proveranno che dal '25 al '29 anche l'Italia intellettuale ha fatto molto cammino, e l'antimanifesto va buttato, finalmente, in soffitta.
Ma bisognerà altresì porre mente a un altro aspetto della questione relativa a questi rapporti dell'università col Fascismo: all'aspetto scientifico-didattico, che è pure strettamente collegato con quello personale di cui finora ho parlato. Il Fascismo è azione e storia, ma anche dottrina e teoria. Ha un suo concetto dello Stato e un nuovo diritto pubblico; ha una sua economia e una sua etica; e ha, se è lecito dirlo senza scandalo degli animi più timorati, anche una sua storia. Anzi, sopra tutto, una sua storia. E allora, s'è detto, bisogna pure che nelle università la nuova classe dirigenti trovi questa nuova scienza. E si sono fondate nuove Facoltà, e si chiedono ogni giorno nuove cattedre.
Non voglio far dispiacere a nessuno; ma il metodo adottato, o che si vuole adottare, non solo non è il più adatto, ma è il più contrario allo scopo che si vuol raggiungere. Non si tratta di aggiungere, ma di trasformare. Il Fascismo è come la religione: la quale in una scuola non è, e non può essere, una materia d'insegnamento da aggiungere alle altre; perché se le altre non sono religiose, la religione aggiuntavi non vi starà in funzione di religione; ed essa, sempre che sia qualche cosa di reale e di vivo, non si contenta rincantucciarsi in un angolo della mente, ma investe tutta l'anima. Il Fascismo non sarà una religione, ma è pure uno spirito nuovo e una concezione totalitaria, come oggi si dice, la quale investe tutta la vita, e deve perciò governare tutto il pensiero. Il diritto corporativo dev'essere un capitolo, e quindi una nuova dottrina dello stesso Diritto pubblico. La Facoltà fascista, sì, ci vuole; ma dev'essere la stessa Facoltà di giurisprudenza, la stessa Facoltà di scienze politiche, la stessa Facoltà di lettere.
Perché si vogliono le nuove istituzioni? Si dice: perché le vecchie sono detenute da uomini di vecchia mentalità; e occorrono uomini nuovi, ai quali perciò conviene, almeno in un periodo transitorio, aprir l'adito all'insegnamento con nuove Facoltà e nuove cattedre. È perciò, anche questa volta, questione di persone. Ma, senza dire che tante volte per avere questi uomini nuovi, bisogna chiudere un occhio sulla loro preparazione scientifica e didattica, e talvolta magari tutt'e due, con grave discredito della nuova scienza nell'ambiente universitario e demoralizzazione conseguente dei giovani indotti a considerare questi nuovi insegnamenti come la scuola minorum gentium; rimane sempre un inconveniente essenziale. Ed è quello di creare artificialmente quel che non si può ottenere naturalmente; e contentarsi quasi di appendere a una pianta sterile frutti non suoi. L'importante è, ripeto, trasformare. Recidere i rami secchi, se ce ne sono; ma attendere, e aver la saggezza elementare della pazienza, che dà tempo al tempo, finché si formi schietta, rigogliosa, dalle radici, la nuova cultura scientifica nazionale. Altrimenti si improvvisa, ma non si costruisce.
(G. Gentile)