Il nostro Istituto non è un'accademia. Ce n'erano tante in Italia prima che, cinque anni fa, il Regime creasse questo Istituto; e dopo che questo Istituto era stato creato e la sua funzione e missione solennemente sanzionata in Campidoglio con l'alto assentimento del Capo del Governo, è sorta una nuova accademia, con fini e carattere profondamente diversi dall'Istituto Nazionale Fascista di Cultura. Il quale dicendosi fascista intende essere un istituto politico: di cultura, ma di cultura animata da un pensiero politico, in quanto c'è un pensiero politico attuale che dev'essere meditato, chiarito, svolto, fecondato nelle menti, difeso dalle critiche degli avversari, cimentato con le opposte o divergenti dottrine: un pensiero, che consiste prima di tutto in un certo orientamento e atteggiamento dello spirito, in una certa fede, in una certa passione, che è e dev'essere l'anima di tutta la concezione della vita del nostro tempo e quindi di tutta la nostra cultura. Un pensiero che vuol essere l'unità della cultura nazionale della nuova Italia. La quale unità, è, o dev'essere, nell'animo e quindi nell'intelligenza di ogni italiano; dà, o deve dare, il tono a tutte le scuole e a tutte le accademie, a quelle almeno che sono utili e vive; ma non è propriamente la mira o il programma a cui direttamente intenda nessuna accademia o nessuna scuola particolare, poiché tutti questi istituti provvedono piuttosto allo svolgimento del concreto vario contenuto della cultura in tutte le sue forme. Così è che ciascuno di essi si rivolge a determinate categorie di italiani: fanciulli, giovani, adulti; e tra essi questi indirizzati al sapere professionale, quelli al sapere scientifico; parte al sapere giuridico e parte alle scienze naturali; alcuni alla letteratura o all'arte e alle scienze biologiche. Accolgono gruppi e classi specializzate a seconda dei diversi interessi e delle rispettive competenze e dei differenti gradi di sviluppo degli elementi costitutivi della nazione. Se si mettono insieme tutte le forme di cultura che risultano dall'attività di tutti cotesti istituti, esse tendono a ordinarsi, a coordinarsi, a unificarsi in un organismo: l'organismo della cultura nazionale. Ma ogni organismo ha un interno principio che lo avviva e perciò unifica; ha un'anima, che individua e caratterizza il complesso delle membra disparate. In quest'organismo è la vita spirituale di tutta la nazione. L'anima di quest'organismo è il programma, il proposito, la funzione dell'Istituto Fascista di Cultura. A questo programma nessuna forma speciale della cultura italiana è estranea; nessuna forma speciale — poiché nell'insieme di tutte le speciali forme è l'organismo vivente di cui esso s'interessa e che deve animare — gli è indifferente. Ma nessuna gli spetta in proprio. E quasi può dirsi che qui nulla s'insegni e nulla s'impari. Si tengono lezioni e conferenze, si pubblicano periodici e collane di studi e di classici, ma in quanto per questa o per quella via si può raggiungere lo scopo: che è sempre quello di agitare un problema di fondamentale interesse per la formazione politica della coscienza nazionale: un problema, in cui ognuno possa sentirsi impegnato per ciò che costituisce la sua personalità di italiano; un problema, che reclama una positiva soluzione perché si fortifichi e vigoreggi quell'anima, che sì nel pensiero nazionale e sì nel profondo di ogni coscienza individuale dev'essere il principio vivente della cultura. Il nostro Istituto è anch'esso una scuola, ma una scuola di vita nel senso più alto della parola. Di quella vita che è l'ideale del nuovo italiano: vita dell'individuo che sente il suo essere immedesimato con quello del tutto, e, in primo luogo, con l'essere della sua patria: vita fusa e suggellata in un sentimento religioso, che è pure ed essenzialmente sentimento politico, poiché l'universalità della patria che si fa persona, e quindi coscienza e volontà, nello Stato, partecipa e si consacra dello stesso valore delle cose divise. Giacché la politica a cui s'inspira l'Istituto Fascista di Cultura, non è la materiale politica delle vecchie dottrine e dei vecchi partiti. Lo Stato della politica fascista è una realtà ideale, una personalità, che può essere e farsi valere come assoluta in quanto ha in sé un valore morale (sia che questo valore gli si riconosca come immanente e intrinseco, sia che gli si attribuisca come partecipato). E ogni valore morale ricongiunge l'uomo a Dio, legandolo a Lui con un vincolo indissolubile. Carattere etico, e perciò carattere religioso (nel senso proprio di questa parola) dello Stato, come concreta realtà dell'idea che fu santa per ogni popolo e per ogni uomo civile, l'idea della Patria. Perciò la nostra politica governata dal concetto di uno Stato così concepito può essere un principio unificatore di tutta la cultura. Il Fascismo, si ripete, è totalitario; investe cioè tutta la vita dell'uomo che vi aderisca. Non è norma della sola pubblica condotta, ma della pubblica e della privata, perché norma della condotta del pensiero. Ha una risposta, ha un sì o un no, come il demone che parlava nel petto di Socrate, alla domanda che ognuno può e deve rivolgere a se stesso in ogni momento della sua esistenza. Se io dicessi che è una filosofia, solleverei forse qualche protesta, qualche malcontento, perché c'è sempre qualcuno che, a sentirla solo nominare, la filosofia, che egli scambia con la professione dei filosofi, si sente dentro un non so che, almeno in Italia, che lo turba e non gli lascia aver pace. Dirò che il Fascismo somiglia alla filosofia: è una concezione della vita, una fede, che ha qualche cosa da dire all'uomo, sia che operi sia che pensi, qualunque sia l'oggetto del suo pensiero; una fede che dà un tono, un senso, una forza a tutta la vita. Un fede! Ma bisogna intendersi anche su questa definizione. C'è fede e fede. C'è la fede di coloro che diremo i savi, come il Nathan di Lessing, pel quale tutte le fedi hanno lo stesso valore. E si può anche dire la fede di quelli che non ne hanno nessuna, poiché le considerano tutte dall'esterno. Chi ne ha una, non può essere indifferente e savio. Non s'è trovato uno mai che avesse fede e saviezza. E la stessa saviezza dei tolleranti, dei liberali, voi la conoscete, e sapete quanto poco sia savia e quanto intollerante! Dunque, c'è una fede, se mai, per modo di dire, che si chiude nell'astratta intelligenza, vive e lascia vivere. E c'è una fede che si riversa invece nell'azione e nel mondo, e tende a vincere, a trionfare, e cioè a sopprimere tutte le altre. Ho bisogno di aggiungere che questa non è una fede per modo di dire, ma la fede seria, che si piglia sul serio, che è, in altri termini, sincera e immedesimata con l'anima che la professa? Più di una volta parlando di questa nota del Fascismo, m'è venuto fatto naturalmente di ricordare il Mazzini, e la sua dottrina scolpita nel motto: Pensiero e azione; quella dottrina che egli sentì profondamente il bisogno d'inculcare nel cuore degl'italiani perché alla loro vecchia Italia delle accademie oziose e della retorica senza umanità sottentrasse la Giovane Italia dell'insurrezione, dell'azione vendicatrice e creatrice energica della patria già troppo a lungo vagheggiata da un'imbelle letteratura e ormai da volersi finalmente con risolutezza virile; quella dottrina per cui si negò che il pensiero si possa disgiungere dall'azione, e che altra possa perciò essere la regola del pensare, altra quella dell'agire. Fede dunque illiberale e intollerante per tutto ciò che sia e debba essere contenuto della fede stessa. Fede perciò sanamente morale; perché dove non è una fede siffatta, è lo scetticismo dell'altro è il dire e altro è il fare, è il ghigno delle negazione rispetto a tutte le idee che ci comandano di vivere o di morire, c'è la fede ipocrita senza le opere. Signori, vogliate consentirmi un'autocitazione. Bisogna ricordare il nostro punto di partenza. Vi rileggo due paginette del mio primo Discorso inaugurale del 19 dicembre 1925. Allora io dicevo: «Noi del Fascismo, usciti dalla battaglia vittoriosi, abbiamo ormai raggiunto quella piena libertà di spirito, per cui possiamo spogliarci di certe passioni della prima ora, e riconoscere pertanto il valore nazionale così di certe forme di cultura, che a noi riescono false in quanto insufficienti, come di tanti uomini che non ebbero occhi né cuore per vedere in alto il segno a cui avrebbero dovuto guardare e trarre la gioventù italiana, ma pur lavorarono seriamente, onestamente, a recare in campo quelle pietre, con cui la nuova Italia ha cominciato a costruire il suo grande edifizio. Noi a quelle pietre — perché non dirlo? — non possiamo, non vogliamo rinunziare. Noi non siamo venuti a negar nulla del bene, che in qualunque modo è stato fatto o altri continui a fare per la nazione e per lo spirito umano. E abbiamo sempre sentito come uno dei nostri primi doveri, quello di riconoscere e far riconoscere tutti i valori autentici del patrimonio spirituale italiano. «Intransigenza assoluta, in quanto non si potrà mai dare una direzione o un posto di comando a chi ripugni tuttavia alla nuova coscienza italiana. Il che, mi sia permesso di affermarlo qui, non equivale a dire: a chi non abbia la tessera del Partito Fascista. Non c'è vera intransigenza che possa contentarsi di una tessera o di un distintivo materiale. Ma transigenza massima, dove una cultura o altro valore, che si professa strumentale, possa infatti adoprarsi come valido strumento alla grande opera di costruzione, che è la missione del Fascismo. Transigenza, che diverrà ogni giorno più facile via via che, adempiuto il secondo termine, apparirà sempre più opportuno e più giusto il primo termine del grande monito romano: parcere subiectis et debellare superbos. Poiché non è lontano, se non m'inganno, il giorno in cui tutta l'Italia sarà fascista, e il Partito potrà, superbo della vittoria, aprire le sue file a tutti gl'italiani e con tutti fondersi nella fede resa più forte e sicura dai grandi fatti compiuti e dalla necessità universalmente sentita di marciare sulla vita gloriosa. «La storia conforta a siffatte previsioni, il cui avverarsi, naturalmente, dipende, per quanto riguarda la cultura, così dai fascisti come da quegli antifascisti che si celano ancora nelle università, dopo essere stati scovati dalle logge o dall'Aventino. Io ricordo quel che avvenne in Italia nel '60 o subito dopo — se ormai, come credo, i vecchi nostri avversari ci consentono di parlare di rivoluzione fascista, che si possa in qualche modo paragonare a quella operata in Italia nell'anno suddetto —; quando gli uomini più rappresentativi del liberalismo dovettero non solo mutar leggi fondamentali e urtare contro costumi e tradizioni, in qualche regione resistentissime, ma ricorrere nel campo della cultura a metodi, che non mi pare siano stati per anco adoperati dal Regime fascista. Governava l'istruzione Francesco De Sanctis, il maestro dei letterati e filosofi liberali di oggi, quando furono esonerati, d'un tratto, trentaquattro professori di una sola università, quella di Napoli; e lo stesso De Sanctis, ministro dell'Istruzione nel governo presieduto da Camillo Cavour, mandava a spasso, in un sol giorno, tutti i membri di quell'Accademia Reale, per far posto a filosofi, giuristi, archeologi, letterati e scienziati del nuovo regime. Qualcuno non era paragonabile per ingegno e dottrina a chi gli sottentrava. Ma c'erano pure uomini insigni. E furono collocati a riposo senza neanche pensare a leggi speciali fascistissime. I nostri liberali, se ce n'è ancora qualcuno in giro, potrebbero ricordare gli esempi che ci sono stati dati dai maestri nei momenti in cui, “rebus ipsis dictantibus”, si fece sul serio, cioè fascisticamente... Ma i fascisti del '48 e del '60, assiso il nuovo regime sulle solide fondamenta, che abbiamo trovate noi che dalla guerra ci affacciammo a un nuovo orizzonte, deposero le armi. E così a poco a poco borbonici e granduchisti sparirono, poiché non rappresentarono più nulla; e l'Italia fu tutta italiana, accogliendo nel suo seno anche gl'impenitenti lodatori del tempo antico. I quali si unirono, prima o poi, agli innovatori, dianzi veduti in veste di tiranni; e insieme con essi collaborarono, ciascuno al suo posto, e ciascuno facendo quel che poteva pel popolo italiano» (2). Così dicevo il 19 dicembre 1925. Le previsioni di cinque anni fa non sono del tutto fallite; ma potremmo dire che si siano tutte avverate? È un fatto che molti dei firmatari dell'antimanifesto della famigerata fiera dell'acredine e piccineria letteraria, si sono più o meno sinceramente pentiti di quella firma; e non ho dubbio che, chiamati a un nuovo appello, si affretterebbero a schierarsi dalla parte nostra. Molti hanno aperto gli occhi e l'animo, e comprendono che il Fascismo oggi non è una parte, ma l'Italia; e che combatterlo, non in questa o in quella persona, non in quella o questa manifestazione, ma nel principio e nell'essenziale, è lavorare alla rovina della Patria. Ma che tutti i superbi siano stati debellati, non si può affermare. Forse perché il Regime non ha seguito, nel campo della cultura, salvo qualche provvedimento sporadico, il grande esempio fascista del liberale Francesco De Sanctis? Forse perché certe forme polemiche degli arditi o squadristi del giornalismo quotidiano hanno esasperati e non vinti gli animi, creando simpatie incoraggiatrici intorno a vecchie idee e a vecchi uomini, pur meritevoli di apprezzamento e di rispetto? Forse perché s'è dato scandalo agli avversari con lo spettacolo non infrequente che scrittori e uomini del Fascismo hanno offerto di acri discordie sopra concetti fondamentali, inducendo nel sospetto che non s'avesse un'idea chiara di quel che si pensa o di quel che si vuole? Forse perché, si deve pur confessarlo, non sono stati sempre fermi e rigidi il criterio della necessaria intransigenza e della pur doverosa transigenza, a cui si accennava nel '25? Probabilmente, per tutte queste ragioni insieme. E ognuno di noi, che, poca o molta, ha una responsabilità dell'andamento delle cose, facendo un esame di coscienza, dovrà confessarsi in colpa, se oggi, dopo otto anni dalla Marcia del 28 ottobre, la battaglia non è finita, e bisogna ancora combattere, anche duramente, con intransigenza oculata e intelligente, ma spietata. Per la mia parte, devo confessare che anch'io qualche volta ho sperato che convenisse più blandire che colpire, e pel rispetto dovuto alla scienza fosse piuttosto da indulgere, che da infierire verso talune persone che la coltivano con onore. L'esperienza oggi mi disinganna: mi disinganna sopra tutto rispetto a quegli scrittori che si occupano di filosofia e di storia, e in generale di scienze morali: dove non è possibile non prender partito (come è possibile, poniamo, nelle matematiche) pro o contro il Fascismo. I quali scrittori continuano, o tornano, a parlare del movimento fascista come di una sorta di processo morboso, che sia capitato, non si sa come, alla povera Italia: magnificato bensì, quasi una grande civiltà nuova, da interessati furbi o da intellettuali sempliciotti, ma privo d'ogni ragione e significato nella storia italiana. Se ci sono pensatori e storici di alta reputazione, di cui il Fascismo possa vantarsi, la cui adesione possa, almeno al primo aspetto, garantire la serietà del movimento, per costoro s'impone la necessità e si presenta quanto mai agevole l'impresa di aggredirli e rappresentarli con selvaggio livore agli occhi dei giovani e dei distratti e del gran pubblico, che non può leggere e giudicar da sé, ma pesa tuttavia politicamente con le opinioni che comunque riesce a formarsi, a rappresentarli, dico, come uomini ormai in piena decadenza. È di ieri una brutta polemica (3) contro il maggiore storico vivente che abbia l'Italia, condotta da spiriti inaciditi nella malinconica e disperata attesa di non so quali ritorni; una polemica, in cui si arriva per questo valentuomo a parlare di «sensibilità morale che non vuol morire»! E si tratta di uno studioso che fino a ieri fu de' maestri più universalmente stimati e amati, come scrittore e come uomo. I gregari tolgono l'esempio dai corifei. Uno dei quali, il più celebrato, da anni non si concede tregua in questa forma sopraffina di polemica diretta a dimostrare che, in sostanza, l'Italia d'oggi è l'Italia dell'antimanifesto del 1925, quando si pretese dare al mondo la sensazione che tutta l'intelligenza italiana fosse contro il fascio littorio. Andate a cercare nel suo pensiero l'ispirazione segreta di certi suoi giudizi: non troverete altro che un'irriducibile passione politica, divampante da preconcetti pseudofilosofici e acrimonia personale; una specie di odium theologicum, di cui gli stessi suoi amici si meravigliano e si rammaricano. Egli interviene nei primi di settembre di questo anno, fuori d'Italia, a una riunione internazionale dei filosofi (4). Congresso filosofico, si dirà; dunque, chiuso a discussioni politiche concrete; e poi, all'Estero, è evidente, un italiano non andrà a parlare delle faccende di casa. E infatti il nostro italiano non nomina il Fascismo. Lo chiama “antistoricismo”: un antistoricismo facilmente identificabile, che pone, egli dice, «il suo ideale in ordinamenti che sopprimano l'iniziativa individuale, e con ciò la concorrenza, la gara, la lotta e impongano la regola; sia che la regola propugnata venga desunta da nuove escogitazioni e si configuri in nuovi assetti economici, sociali e statali, sia che la si ritagli da taluna delle età o società della storia passata»: un antistoricismo, per cui «ci s'illude di poter sostituire con vantaggio l'azione dell'autorità» al germinare spontaneo delle forze dello spirito. Insomma, il ritratto più somigliante che un antifascista possa fare del Regime fascista. Il quale, secondo questo filosofo, non è «delineazione, sia pure ancor vaga e indeterminata, di una nuova e più alta vista spirituale». Ogni creazione vuole amore. Ahimè: «Quanto poco amore», egli esclama, «ai giorni nostri, nel mondo! E quanta poca gioia, e quanto pigro entusiasmo! Come suonano fiacche e false le corde dell'amore se la retorica degli energicisti e degli autoritarii si prova, come fa talvolta, a toccarle! E come risuonano invece, aspre e forti, quelle della prepotenza, dello scherno, del sarcasmo, dello stolido e cupo fanatismo!». Il fascismo, cioè «l'odierno antistoricismo», è «tutto sfrenatezza di egoismo o durezza di comando, e par che celebri un'orgia o un culto satanico». Ecco il bel ritratto in cui ci si vuol raffigurare. Diciamo noi che i nostri precedenti prossimi sono da cercare nella guerra? Sì, anche per il nostro avversario filosofo bisogna rifarsi dalla guerra per intendere l'antistoricismo odierno. Ma qual è la guerra che egli vede? Quella che recise il fiore della gioventù: «della più coraggiosa, della più generosa, della più intelligente»; quella che coltivò «la disposizione alla violenza, e col comando e con la disciplina soldatesca la desuetudine dalla lotta civile»; quella che depresse e disfece l'abito critico. — Visione più fosca, più psicologicamente falsa, più moralmente disfattista, più filosoficamente sbagliata fu mai espressa? Da quella guerra che Fascismo poteva nascere? «Impoverimento mentale, debolezza morale, eretismo, disperazione, nevrosi, e, insomma, un'infermità, da superare con la pazienza e con la costanza come tutte le infermità». Tutti i fatti storici, anche quelli che paiono arrestare il progresso o sviare il cammino della libertà, e cioè del pensiero e della civiltà, hanno agli occhi del filosofo la loro ragione e producono la loro parte di bene. Anche il Secondo Impero. Solo l'antistoricismo d'oggi stringe il cuore al filosofo, e lo mette in angoscia. E questa angoscia egli porta al Congresso non si sa se per chiedere un conforto o il giudizio della storia, dimentico che la storia che si può giudicare, e cioè intendere, è quella che si fa; e che la storia italiana non si fa propriamente a Oxford. Dunque, da capo. I fascisti sono accusati d'intransigenza; ma intanto, oggi, dopo cinque anni di dittatura, gl'intransigenti più accaniti sono invece gli antifascisti. I superbi non sono debellati, e, a sentirli, dal tono sprezzante e sdegnoso con cui parlano del Fascismo, si direbbe che siano sicuri essi della vittoria. Prima o poi, pazienza e costanza, e si vincerà: questa la loro fede segreta. Se ti accostano e ti fanno l'onore di rivolgerti la parola, ti guardano in faccia con un certo risolino, come per dirti: «Ne sarai persuaso anche tu. Le cose vanno male. La retorica, ormai lo sentono tutti, è retorica. La realtà è quella che è: illudersi non giova, e non è più possibile. Confessa che anche tu hai perduta la fede». E infatti ce ne sono fascisti tesserati e responsabili, o almeno collocati in posti di responsabilità, che non sono alieni dall'indulgere al vezzo antico della maldicenza e della critica negativa e scettica, che dà corpo alle ombre, deforma la realtà e ingrandisce a dismisura la proporzione delle cose men belle, vede il particolare e perde di vista l'insieme, attribuisce al Governo la pioggia e la siccità, il terremoto e la crisi economica del mondo, le eterne passioni degli uomini e i dolori ineluttabili della vita. Ci sono spiriti superficiali con tanto di distintivo all'occhiello, i quali aspettano sempre il miracolo e ogni giorno il grande avvenimento, e poiché il sole è già sull'orizzonte ed essi beneficiano della luce che ha fugato le tenebre e rende possibile il godimento di questa scena magnifica della grande natura e il lavoro creatore della ricchezza, della potenza e insomma dell'opera lenta ma divina dei secoli, trovano che infine la parte del Fascismo è compiuta, la sua ora forse passata, e che ormai la dittatura è piuttosto incomoda; laddove sarebbe pure un bel gusto per tutti tornare alla beata libertà di quando ognuno diceva la sua e ognuno era così lieto di potersi opporre a chiunque si provasse a fare, a risolvere un problema, a fare una scuola, a costruire un ponte, ad aprire una strada, a battezzare un quadrivio, a spendere una lira. E così, tra antifascisti e fascisti, si forma un'aria di perplessità e di smarrimento, in cui gli uni ammiccano e sorridono, gli altri scrollano le spalle e sfuggono alla discussione, e i perché rimangono senza risposta e la fede vacilla. No, signori antifascisti o pseudofascisti! Il Partito sarà troppo numeroso e forse andrà decimato. Bisognerà che esso si liberi dagli infidi e dai malfidi, di tutti quelli che sfruttano il Regime e non lo servono, e vivono di esso e per esso non darebbero la vita. Ma l'ora non è passata. Il fatto stesso che ci sono ancora nel 1930 italiani sull'Aventino, dimostra che la funzione storica della Rivoluzione non si è esaurita, che il popolo italiano ha bisogno ancora dell'educazione e della disciplina, che è l'antico desiderio dei grandi italiani; dimostra che la fede non deve, non può estinguersi; che non è giunto il momento di parcere subiectis. Ancora una volta conviene stringer le fila, e marciare. Soltanto così potrà il popolo italiano raggiunger la mèta segnatagli dal Duce, necessaria al suo destino di grande nazione moderna: acquistare cioè una salda coscienza politica, in cui il proprio essere o non essere, e quindi la propria realtà ed esistenza come di uno Stato che sia tale, con un suo diritto e una volontà di farlo valere, con una sua missione e una volontà di realizzarla, non rimanga sempre un problema. La libertà? Ma la libertà bisogna conquistarla. Non si possiede dal nascere, come un dono di Dio. La libertà è una filosofia che suppone la vita. Primum vivere, deinde philosophari. Una volta si credette che il popolo italiano vivesse già, già esistesse, perché si era raccolto sotto una sola bandiera, e aveva formato e proclamato un nuovo regno. Qualcuno, in verità, avvertì fin da principio che questa Italia era una forma, che aspettava il suo contenuto. E il contenuto poteva darlo l'educazione del popolo: la grande educazione, che attraverso lo sforzo, il dolore, il sacrifizio di sé, lo scontro con le grandi leggi della realtà, che bisogna vincere e sottomettere alle esigenze dello spirito, forma gli uomini. Venne il grande esame, la guerra. Vedemmo allora che cosa sia, che cosa debba essere un popolo che sia una nazione e uno Stato. Giacché essa non fu una scuola di barbarie, di violenza e di brutalità soldatesca, ma fu una grande educatrice di civiltà, di umanità e perciò di amore, che trasse il popolo a sentire con una sola anima, a mirare a un solo ideale, e a un alto ideale, l'esistenza della Patria fuori della quale e senza la quale l'uomo non ha umanità. In conseguenza della guerra questo ideale superiore, in cui l'individuo trova se stesso, è diventato l'essenza della vita della nostra coscienza come non mai pel passato, salvo rare eccezioni individuali. Per qualcuno ancora è retorica, poiché anche la retorica è eterna. Ma per molti, e nella realtà politica che investe oggi in Italia da ogni parte l'animo del singolo, dal fanciullo al cittadino più maturo, e preme e s'impone e si fa valere, questo ideale è qualche cosa con cui, volere o non volere, bisogna pur fare i conti. È qualche cosa di serio, di cui non parlano soltanto i maestri di scuola e i letterati. Ebbene, questo ideale, pur presente, pur serio e operante, pur uscito dalla scuola nella vita, pur diventato legge dell'educazione del popolo italiano, è un ideale. Deve diventare realtà. Soltanto allora l'Italia sarà la grande Italia degna di esser libera, perché ordinata, disciplinata, fusa in una volontà concorde e fattiva di potenza, che è volontà di vita, l'Italia che è in cima ai nostri pensieri; l'Italia il cui avvento troppo c'indugiammo ad aspettare da una divina grazia, o dal giuoco della fortuna politica, ma oggi sappiamo essere nelle nostre mani. Il Fascismo ha al suo attivo grandi opere compiute o in corso: grandi leggi, riforme, istituzioni, lavori, Ma la sua più grande opera, quella essenziale, è l'Italia, l'Italia morale, la coscienza politica che fa di un popolo uno Stato. Peccheremmo di un'ipocrisia indegna di fascisti se dicessimo che in quest'opera errori non si siano mai commessi. Ma peccheremmo di cecità, se non riconoscessimo che gli stessi errori solo il Fascismo può correggerli, cioè il suo Duce. L'opera procede vittoriosamente. Non è compiuta. Non è vicina al compimento. E come opera di formazione spirituale, d'instaurazione di coscienza e di fede, è essenzialmente opera di cultura. Quindi la funzione importante di tutti gl'Istituti fascisti di cultura sortì per tutta Italia, e in primo luogo di questo Istituto Nazionale che tutti li promuove e coordina. Quindi la coscienza profonda che noi abbiamo della nostra responsabilità di fronte al paese, e prima verso il Duce, che questo Istituto volle, e lo segue con benevolenza, e onora della sua alta fiducia noi che lo dirigiamo chiamando intorno a noi gl'italiani che hanno una fede da difendere e ritemprare nella dura lotta quotidiana contro i nemici di fuori e di dentro. Nel nome di Lui, presente sempre dove gli animi si accingano a nuove battaglie per l'Italia sua e nostra, dichiaro aperto il corso di lezioni dell'anno 1930-31.
(G. Gentile)