GENTILE, MARX E LA PRASSI

 

La chiave di volta di questa costruzione filosofica sta nel concetto della “prassi”. Concetto, come ben nota lo stesso Marx, nuovo rispetto al materialismo, ma nell'idealismo vecchio quanto l'idealismo medesimo, anzi nato proprio a un parto con esso, già fin dal soggettivismo di Socrate. Il quale non sapeva concepire una verità già bella e formata, che potesse trasmettersi per tradizione o insegnamento; e pensava invece che ogni verità sia risultato ultimo di personale lavorio inquisitivo, nel quale il maestro non può fare se non da compagno e collaboratore al discepolo desideroso del vero. Quindi il celebre paragone della sua arte con quella maieutica della madre Fenarete. Non egli produceva il saper nella mente dei discepoli; ma questi erano soltanto aiutati da lui a formarsi, a fare questo sapere. Aiutati nella prassi, direbbe Marx. Il sapere, pertanto, importava già per Socrate un'attività produttiva, ed era una soggettiva costruzione, una continua e progressiva prassi. Né Platone si lasciò sfuggire l'importantissima dottrina; anzi la definì meglio e sviluppò nella sua dialettica delle idee, tutte fornite di energia creativa. E fino ad Hegel non c'è stato idealista, che non abbia inteso, più o men bene, il sapere come opera dello spirito umano; eccezion fatta dei rari sostenitori dell'intuito intellettuale. Il nostro Vico, vantato per solito unicamente come fondatore della filosofia della storia, vide molto addentro in questa materia. E in questo concetto della cognizione come prassi sta tutta la ragione della sua critica inesorabile contro Cartesio. Al quale il filosofo napoletano non poteva perdonare, che avesse posto come punto di partenza e fondamento della scienza l'immediata coscienza del pensiero (“cogito ergo sum”); dove, secondo lui, bisogna giustificare, quando facciamo scienza, il fatto della coscienza, ricostruendone il nascimento lo sviluppo: non partire cioè dal puro fatto, ma, come ora diciamo, cominciare dalla spiegazione del fatto stesso, rifacendolo noi. Verum et factum convertuntur; la verità quindi si scopre, facendola. E poiché è risultato, e non dato, della ricerca scientifica, questa non può procedere per analisi, come pretende Cartesio; - analisi, che presupporrebbe innanzi a sé il concetto della verità da analizzare, - bensì per sintesi, che è attività produttiva della mente. Quindi il valore inestimabile delle divinazioni del genio, delle felici intuizioni, che creano, quasi, più che fare, lo scibile, di così difficile acquisto. Il fare, secondo Vico, è la condizione impreteribile del conoscere. Quindi la certezza delle matematiche, - e in ciò s'accordava con Cartesio, - nelle quali gli oggetti del nostro conoscere, non sono dati, ma costruiti. [...] E in verità, se si può conoscere ciò che è propria opera, il mondo naturale è da rimettersi, pensa Vico, alla cognizione di Dio, che ne è l'unico fattore; ma il mondo storico, prodotto dell'umana attività, è l'oggetto di cui possono conseguire la scienza gli uomini che l'han fatto. Ma per Vico questo operare umano era operare della mente dell'uomo; quindi il suo concetto, che la storia avesse tutta a spiegarsi con la considerazione e lo studio delle modificazioni della mente. Cambia in Marx il principio dell'operare, e, invece delle modificazioni della mente, sono radice della storia i bisogni dell'individuo, come essere sociale. Ma il concetto che s'invoca della prassi, rimane quello. Né soffre critica o correzione. [...] Che cos'è l'esperimento, se non un rifare ciò che la natura fa, rifacendolo in condizioni che ne agevolino e assicurino l'osservazione? Certo, questo fare o rifare non è sempre un materiale ed effettivo fare; anzi le più volte è puramente un fare o un rifare col pensiero. Ma lo stesso fare o rifare materiale ed effettivo giova forse all'intendimento del fatto per l'immediato meccanismo; o non piuttosto per il pensare via via le singole parti del meccanismo? La risposta è facile per chi consideri che la mente non ha occhi né mani né strumenti, se non per metafora; e alla meccanica del fare esterno non può accompagnarsi se non per via di successive rappresentazioni. Questa attività originale, che si deve sviluppare per il conseguimento della scienza, è evidentissima, per esempio, nel calcolo aritmetico. Avete i fattori; e cercate il prodotto. Questo prodotto non è da voi intravisto per intuito; è il risultato di un'operazione che dovete eseguire. E ciò che dicesi di questo prodotto aritmetico, è da dire di ogni prodotto di conoscenza, di tutto lo scibile: non è dato, ma bisogna arrivare a esso con l'atto operoso della mente. Una conoscenza data, non è vera conoscenza, se non s'intende, cioè se non si ricostruisce; e però non è più data, ma prodotta, o riprodotta. E la scienza, in generale, s'acquista forse a un tratto, quasi per uno sguardo acutissimo lanciato in giro a un largo orizzonte? Il rifare sarà più agevole del fare; e leggere un libro scientifico è più facil cosa che scriverlo. Ma né anche nella lettura il nostro spirito, se vuol profittare, può rimanere inerte e passivo; anzi deve accompagnare l'intelligenza dell'autore, in ogni momento del suo procedere, e svolgere, quindi anch'esso, un'energia, e fare anche lui. Nella lingua già si scorgono le tracce di questo importantissimo concetto del conoscere o intendere che è un fare. Il latino facilis (rimasto in tutte le lingue romanze) deriva dal verbo facere; ed etimologicamente quindi vorrebbe dire soltanto «che si può fare»; dove, e in latino e in tutte le lingue romanze, significa anche: che si può conoscere o intendere. Così è facile un'operazione a farsi; ed è pur facile una verità a conoscersi, o un teorema a intendersi. Questo concetto che la conoscenza va di pari passo con l'attività, con la prassi, è l'anima del metodo pedagogico del Froebel. «Il punto di partenza per lui era il fare, al quale tien dietro il conoscere; e la conoscenza non è altro che lo sviluppo genetico del fare medesimo». Ma il Froebel non derivava neanche lui cotesto principio da una filosofia materialistica; anzi è stato bene osservato che «il thun (fare), e il metodo genetisch-entwickelnd (dello sviluppo genetico) cotanto inculcato dal Froebel richiamano senza sforzo alla mente quella dottrina (di Fichte) che dal fare primitivo dell'Io tentò di sviluppare tutta la nostra scienza». Cotesto principio vuole Marx dall'astratto idealismo trasportare nel concreto materialismo. Del quale giudica essere stato fino a lui difetto gravissimo, anzi principale, averlo trascurato. Concetto che dimostra l'acume filosofico dello scrittore. In verità, qual era, in fondo, il rimprovero da lui mosso al materialismo, nella teoria della conoscenza? Questo: di credere l'oggetto, l'intuizione sensibile, la realtà esterna un dato, invece che un prodotto; per modo che il soggetto, entrando in relazione con esso, dovesse limitarsi a una pura visione, anzi a un semplice rispecchiamento, rimanendo in uno stato di semplice passività. Marx, insomma, rimproverava ai materialisti, e fra questi al Feuerbach, di concepire il soggetto e l'oggetto della conoscenza in una posizione astratta, e però falsa. In tale posizione s'avrebbe l'oggetto opposto al soggetto e senza veruna intrinseca relazione con esso, che accidentalmente è incontrato, veduto, conosciuto. Ma questo soggetto senza il suo oggetto, di che è soggetto? E questo oggetto senza il rispettivo soggetto, di che è oggetto? Soggetto e oggetto sono pure due termini correlativi, l'uno dei quali si trae dietro necessariamente l'altro. Non sono quindi reciprocamente indipendenti, anzi l'uno all'altro inscindibilmente legati, per modo che la loro realtà effettiva risulti dal loro rapporto nell'organismo, nel quale e pel quale trovano il loro compimento necessario; e fuori del quale non sono se non astrazioni. La vita del soggetto è nella sua relazione intrinseca con l'oggetto; e viceversa. Scindete questa relazione; e non avrete più la vita, ma la morte. Non più due termini reali del fatto del conoscere, ma due termini astratti. Bisogna dunque concepirli nella loro mutua relazione. La natura della quale è chiarita da ciò che s'è detto circa l'attività propria del conoscere. Quando si conosce, si costruisce, si fa l'oggetto, e quando si fa o si costruisce un oggetto, lo si conosce; dunque l'oggetto è un prodotto del soggetto; e, poiché soggetto non c'è senza oggetto, bisogna soggiungere che il soggetto, a mano a mano che vien facendo o costruendo l'oggetto, vien facendo o costruendo se stesso; i momenti della progressiva formazione del soggetto corrispondono ai diversi momenti della progressiva formazione dell'oggetto. Chi poco ha conosciuto, poco dicesi abbia sviluppato le sue idee, il suo pensiero; e via via che accresce le sue conoscenze (oggetto), vien crescendo rispettivamente nella potenza di comprensione e d'intendimento (soggetto). La conoscenza, insomma, è uno sviluppo continuo; e, poiché non è essenzialmente che un rapporto di due termini correlativi, equivale a un progressivo sviluppo parallelo di questi due termini. La radice intanto, la causa permanente di questo sviluppo è nell'attività, nel fare del soggetto, che forma se stesso, formando l'oggetto [...].

 

(G. Gentile)