Essere soggetto, signore del
proprio movimento, non significa ancora essere cosciente di sé e del proprio
rapporto oggettivo e dialettico con l’esterno. La coscienza è una peculiarità
dello “spirito”.
Fra gli animali ce n’è uno che
può operare la saldatura fra mondo della Natura e mondo dello Spirito: è l’uomo
che, con il suo corpo, è ancorato alla natura e alla materia e con la sua
ragione è elevato sopra di esso, è coscienza e spirito; è l’uomo il ponte fra
la Natura e lo Spirito.
Per illustrare il passaggio dalla
coscienza all’autocoscienza e alla Ragione, Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito,
utilizza la “figura” del rapporto dialettico fra il servo e il signore.
G. W. F. Hegel, Fenomenologia
dello Spirito, Autocoscienza
Il Signore
è la coscienza che è per sé; ma non piú soltanto il concetto della
coscienza per sé, anzi coscienza che è per sé, la quale con sé è mediata da un’altra
coscienza, cioè da una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere
sintetizzata con un essere indipendente o con la cosalità [l’essere
cosa] in generale. Il signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa
come tale, all’oggetto, cioè, dell’appetito; e alla coscienza cui è essenziale
la cosalità. E mentre egli a) come concetto dell’autocoscienza è
immediato rapporto dell’esser-per-sé, pur essendo in pari tempo b)
come mediazione o come esser-per-sé che è per sé soltanto mediante un altro, si
rapporta a) immediatamente ad ambedue, e b) mediatamente a
ciascheduno mediante l’altro. Il signore si rapporta al servo mediatamente
attraverso l’indipendente essere, ché proprio a questo è legato il servo;
questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e
perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità. Ma
il signore é la potenza che sovrasta a questo essere; giacché egli mostrò
infatti che nella lotta questo essere gli valeva come un negativo. Siccome il
signore è la potenza che domina l’essere, mentre questo essere è la potenza che
pesa sull’altro individuo, cosí, data questa disposizione sillogistica, il
signore ha sotto di sé questo altro individuo. Parimenti, il signore si
rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo; anche il servo,
in quanto autocoscienza in generale, si riferisce negativamente alla cosa e la
toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo indipendente; e però, con il suo
negarla, non potrà mai distruggerla completamente; il servo può soltanto
trasformarla con il suo lavoro. Invece, per tale mediazione il rapporto immediato
diviene al signore la pura negazione della cosa stessa: ossia il godimento.
Ciò che non riuscí all’appetito, riesce a quest’atto del godere: esaurire la
cosa e acquetarsi nel godimento. Non poté riuscire all’appetito per
l’indipendenza della cosa; ma il signore che ha introdotto il servo tra la cosa
e se stesso, si conchiude cosí con la dipendenza della cosa, e puramente la
gode. Peraltro il lato dell’indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo
che la elabora.
In questi
due momenti per il signore si viene attuando il suo esser-riconosciuto da
un’altra coscienza; questa infatti si pone in essi momenti come qualcosa di
inessenziale; si pone una volta nella elaborazione della cosa, e un’altra volta
nella dipendenza di un essere determinato; in entrambi i momenti quella
coscienza non può signoreggiare l’essere e arrivare all’assoluta negazione. Qui
è dunque presente il momento del riconoscere per cui l’altra coscienza,
togliendosi come esser-per-sé, fa ciò stesso che la prima fa verso di lei; ed è
similmente presente l’altro momento, che l’operare della seconda coscienza è
l’operare proprio della prima; perché ciò che fa il servo è propriamente il
fare del signore. A quest’ultimo è soltanto l’esser-per-sé, è soltanto
l’essenza; egli è la pura potenza negativa per cui la cosa non è niente; ed è
dunque il puro, essenziale operare in questa relazione; il servo peraltro non è
un operare puro, sibbene un operare essenziale. Ma al vero e proprio
riconoscere manca ancora il momento per il quale il signore fa verso l’altro
individuo ciò che fa verso se stesso, e per il quale il servo fa verso di sé
ciò che fa verso l’altro. Con ciò si è prodotto un riconoscimento unilaterale e
ineguale.
La
coscienza inessenziale è quindi per il signore l’oggetto costituente la verità
della certezza di se stesso. È chiaro però che tale oggetto non corrisponde al
suo concetto; è, anzi, chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo
compimento, gli è divenuta tutt’altra cosa che una coscienza indipendente; non
una tale coscienza è per lui, ma piuttosto la coscienza dipendente; egli non è
dunque certo dell’esser-per-sé come verità, anzi la sua verità è
piuttosto la coscienza inessenziale e l’inessenziale operare di essa medesima.
La verità
della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile.
Questa da prima appare bensí fuori di sé e non come la verità
dell’autocoscienza. Ma come la signoria mostrò che la propria essenza è
l’inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere, cosí la servitú, nel
proprio compimento, diventerà piuttosto il contrario di ciò ch’essa è
immediatamente; essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in
sé, e si volgerà nell’indipendenza vera.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg. 507-509)