Per
Heidegger il linguaggio è la casa dell’essere
e nella sua dimora abita l’uomo. Il filosofo compie un’analisi critica
della téchne e della conoscenza di tipo epistemico, che si fonda sulla
logica e perde l’essere.
M. Heidegger, Brief über den Humanismus,
[Lettera sull’umanesimo] in Platons Lehre von der Wahrheit, [La
dottrina di Platone sulla verità], Bern, 1947, trad. it. di F. Volpi, Segnavia,
Adelphi, Milano, 1987, pagg. 267-269
Ma ciò che prima di tutto “è”, è l’essere. Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell'essere all’essenza dell'uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all'essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall'essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l'essere viene al linguaggio.
Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire è probabilmente il piú semplice e nello stesso tempo il piú alto, perché riguarda il riferimento dell'essere all'uomo. Ma ogni operare riposa nell'essere e mira all'ente. Il pensiero, invece, si lascia reclamare dall'essere per dire la verità dell'essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare. [...] Se vogliamo imparare a esperire nella sua purezza, e cioè nello stesso tempo a portare a compimento, la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dall'interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele. In tale interpretazione, infatti, il pensiero è inteso come una téchne, come il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre. Ma già qui il riflettere è visto in riferimento alla práxis e alla poíesis. Per questo il pensiero, se lo si prende per se stesso, non è “pratico”. La caratterizzazione del pensiero come theoría e la determinazione del conoscere come atteggiamento “teoretico” avvengono già all'interno dell'interpretazione “tecnica” del pensiero. Essa è un tentativo di reazione per salvare ancora un'autonomia del pensiero nei confronti dell'agire e del fare. Da allora la “filosofia” si trova nella costante necessità di giustificare la propria esistenza di fronte alle “scienze”. Essa pensa che ciò possa avvenire nel modo piú sicuro elevandosi a sua volta al rango di una scienza. Ma questo sforzo è l'abbandono dell'essenza del pensiero. La filosofia è perseguitata dal timore di perdere in considerazione e in valore se non è una scienza. Questo fatto è considerato una deficienza ed è assimilato alla non scientificità. Nell'interpretazione tecnica del pensiero, l'essere come elemento del pensiero, è abbandonato. La “logica” è la sanzione di questa interpretazione che prende l'avvio dalla sofistica e da Platone. Si giudica il pensiero con una misura a esso inadeguata. Questo modo di giudicare equivale al processo che tenta di valutare l'essenza e le facoltà del pesce in base alle sue capacità di vivere all'asciutto. Già da molto, anzi da troppo tempo, il pensiero si trova all'asciutto. Ora, si può chiamare “irrazionalismo” lo sforzo di portare di nuovo il pensiero nel suo elemento?
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. II, pagg. 285-286