Dopo aver sottolineato le colpe
dei preti per tutte le contese e le guerre civili da essi scatenate, il
filosofo inglese giunge alla conclusione che alcuni dogmi non solo sono
inutili, ma anche pericolosi. Da queste premesse egli pone le basi di una
religione deista,
fondata sui cinque principi innati da lui scoperti.
Herbert of Cherbury, De
religione gentilium, errorumque apud eos causis
Dopo che compresi che in ogni
secolo esistette sempre una qualche religione (qualunque essa fosse), e che
essa fu espressa a tal fine da spingere gli uomini ad associarsi per cose che
dovevano compiere liberamente e da alimentare una comune concordia tra loro
tutti, nulla mi stupí maggiormente del fatto che i sacerdoti che piú si
servirono di tale religione eccitassero gli uomini a compiere cose che non
dovrebbero accadere e li spingessero ad asprissimi dissensi e lotte. Perciò
cominciai a dubitare che in qualsiasi religione siano congeniti non soltanto
dei dogmi banali, ma anche dei dogmi pericolosi e nocivi, mescolati a dogmi
buoni ed utili. Quindi, riflettendo sulle diverse parti della famosa e
divulgata religione antichissima dei pagani, mi diressi soprattutto a quelle
parti che mi sembravano le piú necessarie e ricavate dalla ragione comune; e
ritenni che esse dovessero venir anzitutto asserite e riscattate, sottraendole
al loro contesto, nel quale esse sfiguravano. E cosí (ma non senza un’analisi e
disamina molteplice e accurata delle religione) rintracciai quei cinque princípi
di cui già piú volte ho parlato. Quando li scoprii mi ritenni piú fortunato di
qualsiasi Archimede.
Che cosa infatti vi avrebbe
potuto essere di piú gradito a me che lo scorgere tra i molteplici dèi o numi
celebrati dai pagani, che ovunque è sancito, quale verità indubbia, di dover
venerare anzitutto un Dio massimo e ottimo, con ogni virtú e pietà? E, dopo
tanti riti di espiazione e purificazioni, quale segno piú giusto di per sé e
piú testimoniante la grazia divina operante nel cuore, o quale rimedio piú
sicuro per l’abolizione dei peccati poté essere escogitato, che il fatto che
gli uomini si pentano intimamente dei loro peccati, e si ravvedano di essi? E
che cosa vi potrebbe essere di maggiormente congruo alla giustizia divina del
fatto che a ciascun uomo, o in questa vita o dopo questa vita, Dio attribuisca
un premio o una pena in retribuzione delle sue azioni, dei suoi detti e dei
suoi pensieri?
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII,
pagg. 517-518