Herbert of Cherbury, Sull’innatismo

Dopo attento esame il filosofo inglese giunge alla conclusione che nonostante tutto non si possa negare che le idee innate esistano. Egli ne enumera cinque.

Herbert of Cherbury, De religione gentilium, errorumque apud eos causis

 

Avendo a lungo e molto meditato se, al fine di acquistare la salvezza eterna siano stati proposti all’intero genere umano alcuni princípi comuni tali che da essi si possa costruire e stabilire l’universale provvidenza divina, non pochi dubbi mi sorgevano al proposito. Infatti appresi che moltissimi Padri della Chiesa non soltanto ridicolizzarono l’antica e famosa religione dei pagani, ma anche la condannarono, e successivamente i teologi non pensarono con maggior indulgenza di chiunque si trovasse fuori del loro ambito; tanto che, secondo la loro teoria, la parte senz’altro maggiore degli uomini dovrebbe esser condannata ai supplizi eterni. Sembrandomi quindi troppo severe queste teorie per potersi applicare agli attributi del “Dio ottimo e massimo”, cominciai a esaminare i libri dei pagani. Ma, poiché non soltanto gli uomini, ma anche le loro storie attestano che gli dèi da loro per lo piú descritti si macchiarono di crimini, e poiché anche mi accorsi che i loro sacrifici, riti e cerimonie sono stati inetti e insani, mi guardai bene dall’accedere all’opinione volgare intorno ai pagani.

Del resto, comprendendo che l’universale provvidenza divina non poteva venir asserita in tal maniera adeguatamente alla sua dignità, cominciai a ricercare assiduamente per vedere se Dio fosse un tempo inteso nella stessa accezione in uso presso noi. Mentre per noi Dio è perfetto, immenso, eterno, vidi che presso i pagani spesso esso designava una natura o una forza imperfetta, finita e caduca: sí da essere divinizzati per opinione comune non soltanto il cielo, i pianeti, le stelle e lo spirito dell’etere e dell’aria, ma anche persone illustri della stirpe umana, o benemerita della patria; e anzi persino gli imperatori (ed anche alcuni pessimi tra loro) mentre erano ancora in vita, e la stessa febbre, la paura, il pallore furono chiamati dèi e dee presso i pagani; e in tal modo qualsiasi cosa fosse un po’ al di sopra del destino normale degli uomini o dell’intelligenza del volgo, veniva subito considerata Dio da loro. Tuttavia quando insieme fu attribuito da essi a Dio l’attributo di “sommo, ottimo e massimo”, è abbastanza chiaro che anche il nostro Dio e comune Padre è stato indicato con gli stessi attributi; perciò vi è qui sotto una omonimia, spiegando la quale svaniranno senza molta fatica i dubbi che sorgono dal confronto degli dèi pagani col nostro Dio.

Ma né i sacrifici né i riti dei pagani fecero sí che le plebi e il popolo di quei tempi mi siano del tutto odiosi. Giacché quei sacrifici e quei riti furono per la prima volta inventati dai sacerdoti, perciò la colpa di ciò deve ricadere non sui pagani, che furono solo obbedienti a un precetto, ma sui loro sacerdoti. Ritengo cioè che non vi sia alcun dubbio che furono i sacerdoti a introdurre le superstizioni e l’idolatria non meno che le risse e le contese. Perciò sono pienamente convinto che non si debba stabilire cosí drasticamente come hanno fatto alcuni teologi intorno allo stato futuro dei pagani laici, in quanto l’unica colpa che si può loro attribuire è quella di essersi sottoposti totalmente all’autorità dei loro pontefici e al loro collegio sacerdotale.

Dovendosi dunque non a torto attribuire a colpa dell’ordine sacerdotale la deviazione da un culto devoto del Dio sommo, mi proposi allora di ricercare se dalla congerie delle superstizioni pagane si possa districare un qualche filo di verità, attraverso cui essi possano liberarsi dal labirinto di quegli errori. A tale scopo rintracciai cinque princípi, che non soltanto le nostre genti, ma quelle dell’intero universo debbono ritenere veri e indubitabili. Essi sono: 1) che vi è un Dio sommo; 2) che lo si deve venerare; 3) che la virtú e la pietà sono parti essenziali del culto divino; 4) che bisogna pentirsi dei peccati e ravvedersene; 5) che da parte della bontà e della giustizia di Dio viene dato un premio o una pena, o in questa vita oppure dopo questa vita.

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 516-517