Hobbes è sostenitore di un
relativismo etico addirittura piú radicale di quello dei sofisti, che facevano
coincidere il bene con il bene dello stato. Il bene, per Hobbes, si identifica
con il piacere e l'utile per ciascuno: è quindi impossibile qualsiasi forma di
convenzione in campo morale. Trattando del problema etico Hobbes da un lato
mostra in concreto come egli opera con le parole, e dall'altro apre la via alla
soluzione politica che intende proporre: accettare la volontà di un singolo (il
sovrano) come legge universale.
Th.
Hobbes, Leviatano, I, cap. VI
Ma qualunque sia l'oggetto
dell'appetito o desiderio di un uomo, questi lo chiamerà per conto suo bene
e l'oggetto del suo odio e della sua avversione male; mentre l'oggetto del
disprezzo sarà chiamato da lui vile e non degno di considerazione. Infatti
queste parole: bene, male e spregevole, sono sempre usate in relazione alla
persona che le usa, non essendoci niente che sia tale in se stesso e in senso
assoluto e nemmeno una comune regola del bene e del male che si possa ricavare
dalla natura stessa delle cose; una regola del genere deriva solo
dall'individuo stesso là dove non esiste Stato, o, se c'è invece uno Stato
costituito, essa deriva dalla persona che lo rappresenta, o da un arbitro o
giudice che gli uomini in disaccordo consentiranno a istituire, decidendo di
innalzare la sua decisione a regola del bene e del male.
La lingua latina ha due parole il
cui significato si avvicina a quello di bene e di male, ma non vi corrispondono
del tutto: esse sono pulchrum e turpe. La prima di queste due
parole significa ciò che attraverso certi segni esteriori promette il bene,
l'altra ciò che promette il male. Ma nella nostra lingua noi non abbiamo simili
nomi di carattere generale per esprimere queste cose. Noi invece al posto di pulchrum
diciamo riguardo a certe cose fair, riguardo ad altre beautiful, handsome
o galant, oppure honorable, o comely, o amiable; e
al posto di turpe: foul, deformed, ugly, base,
nauseous, e simili epressioni, come richiede l'oggetto; tutte queste
parole, nel proprio posto, significano nient'altro che l'aspetto, o il
modo di apparire, che promette bene o male. Cosicché ci sono due specie di
bene: il bene della promessa, cioè il pulchrum, il bene nell'effetto
come il fine desiderato, che è chiamato jucundum, gradevole, e il
bene come insieme di mezzi, che viene definito come utile, giovevole;
altrettante sono le specie del male: infatti il male nella promessa è
ciò che si chiama turpe, il male nell'effetto e nel fine è il molestum,
spiacevole, fastidioso, e il male nei mezzi, non conducente al
fine, non conveniente, dannoso.
E come nella sensazione ciò che è
realmente in noi è (come ho detto piú sopra soltanto movimento causato
dall'azione degli oggetti esterni, ma all'apparenza per la vista è luce e
colore, per l'udito è suono, per l'olfatto è odore, ecc.; cosí quando l'azione
dello stesso oggetto va dagli occhi, dalle orecchie, e dagli altri organi fino
al cuore, il reale effetto di ciò non è altro che movimento, un tendere, che
consiste in un desiderio o avversione verso l'oggetto che produce quel
movimento.
Questo movimento che è chiamato
“appetito” e per il modo in cui si manifesta gioia e piacere
sembra un rafforzamento del moto vitale e un aiuto ad esso; e per conseguenza
quelle cose che producevano piacere venivano chiamate, e non impropriamente, jucunda,
da juvando, dal fatto che giovano e fortificano, e le opposte molesta,
dannose dal fatto che ostacolano e disturbano il moto vitale.
Il piacere quindi, o gioia,
è l'apparire del bene, la sensazione di questo, e la molestia, o dispiacere
è l'apparire del male, la sensazione di esso. Di conseguenza ogni appetito,
desiderio, e amore è accompagnato da un certo piacere, pari o meno grande; e
ogni odio o avversione da dispiacere e dolore piú o meno grande.
Dei piaceri, o gioie, alcuni
derivano dalla sensazione di un oggetto presente, e possono essere chiamati piaceri
del senso, la parola sensuale, cosí come essa è usata da coloro
soltanto che condannano i piaceri del senso, non avendo significato fino a
quando non esistano delle leggi. Di questa specie sono il fatto del riempire o
del liberare il corpo, come anche tutto ciò che è gradito alla vista,
all'udito, all'odorato, al palato e al tatto. Gli altri derivano dall'attesa
che si fonda sulla previsione del fine, o della conseguenza delle cose, sia che
poi queste cose nella sensazione piacciano sia che dispiacciano. Questi sono piaceri
della mente di colui che ricava tali conseguenze, e sono generalmente
chiamati gioie. Allo stesso modo i dispiaceri sono alcuni del senso, e
sono chiamati pene, gli altri consistono nell'attesa di certe
conseguenze e sono chiamati dolori.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 449-450)