“Un nome o appellativo è una voce umana,
arbitrariamente imposta come un contrassegno per recare alla mente qualche
concetto concernente la cosa cui è stato imposto” (Elementi di legge
naturale e politica, V, 2). Le rappresentazioni, pur rendendosi
completamente autonome dagli oggetti, non possono eliminare il legame che si è
generato con essi nel momento della sensazione; i “segni” (i nomi), invece, in
quanto nostra imposizione arbitraria alle rappresentazioni (cioè ai concetti)
nella loro autonomia, non hanno nessun rapporto con le cose.
Th.
Hobbes, Leviatano, I, cap. VI
L'uso generale del linguaggio
consiste nel tradurre i nostri discorsi mentali in discorsi verbali, o la serie
dei nostri pensieri in una serie di parole; ciò per ottenere due vantaggi, uno
dei quali consiste nel registrare le conseguenze dei nostri pensieri i quali,
facili come sono a sfuggire dalla memoria e a costringerci cosí a un nuovo
lavoro per richiamarli, possono essere ricordati da quelle parole con le quali
noi li indichiamo. Cosicché il primo uso dei suoni è quello di servire come segni,
o come annotazioni della memoria. L'altro vantaggio consiste nel fatto
che molti usano le stesse parole, disposte in un certo ordine e connessione,
per comunicarsi fra loro ciò che pensano su ciascuna cosa; o i loro desideri, i
loro timori e ogni altro sentimento. E appunto per questo uso al quale servono,
le parole sono chiamate segni. Usi speciali del linguaggio sono questi.
Il primo è quello di registrare ciò che con la riflessione noi troviamo essere
la causa di una data cosa, presente o passata, e ciò che noi vediamo che le
cose presenti o passate producono, cioè l'effetto: il che è in sostanza un
acquisto di capacità. Il secondo uso consiste nel mostrare agli altri la
conoscenza che abbiamo conseguita, il che vuol dire consigliarsi e istruirsi
reciprocamente. Il terzo uso consiste nel fare conoscere agli altri i nostri
desideri e i nostri propositi, in modo che possiamo aiutarci reciprocamente. Il
quarto consiste nel procurare un piacere a noi stessi e agli altri servendoci
delle parole senza uno scopo preciso ma solo per ottenere qualche cosa di
piacevole.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pag. 441)