Hollander, La creduloneria come tossicodipendenza politica

Hollander afferma che la creduloneria degli intellettuali occidentali, nonostante tutte le scusanti, rimane “qualcosa di spaventoso”, come una specie di tossicodipendenza.

 

P. Hollander, Political Pilgrims [Pellegrini politici, 1981]

 

Qualsiasi cosa si possa considerare – la predisposizione favorevole dei simpatizzanti, la minuziosità nell’organizzazione dei processi, le confessioni degli imputati, la minaccia del nazismo, l’entusiasmo per i rapidi progressi economici compiuti dal regime – la creduloneria degli intellettuali occidentali rimane qualcosa di spaventoso, se si accetta l’idea che gli intellettuali siano per definizione critici e scettici.

Come ho già detto in precedenza, le spiegazioni di questa creduloneria non si devono cercare in alcuni fraintendimenti isolati, per quanto spettacolari possano essere, come quelli relativi alle prigioni e ai processi-purga. Per la gran parte dei visitatori creduloni, le caratteristiche attraenti della società sovietica formavano una “confezione” unica in cui era difficile separare le singole componenti. Essi non arrivavano a pensare o a dire, ad esempio, che la sconfitta dell’analfabetismo o la riduzione della mortalità infantile erano un risultato ammirevole, ma che chiaramente le purghe e il terrore di polizia non lo erano. Quelli che ammiravano il declino della mortalità infantile riuscivano anche a convincersi del fatto (salvo alcune importanti eccezioni) che anche i processi giudiziari erano degni di ammirazione. In alcuni casi estremi come quello di Jerome Davis (ed altri come Shaw, Hewlett Johnson, i Webbs, Corliss Lamont, Harry F. Ward, l’ambasciatore Davies), i creduloni non riuscivano a smettere di credere. Diventavano dei tossicodipendenti politici; come l’alcolizzato, che non può piú essere una persona che beve solo quando è in compagnia, i piú creduloni tra i simpatizzanti dell’URSS erano incapaci di fissare un limite. Se uno credeva a X perché non doveva credere anche a Y? Se Jerome Davis credeva che quelli che confessavano nei processi di Mosca erano colpevoli, perché non credere anche che il popolo baltico aveva accolto con entusiasmo l’annessione all’Unione Sovietica? Perché non credere alle professioni di innocenza dei sovietici riguardo al massacro di Katyn in Polonia? Perché non credere alla versione sovietica delle ragioni per cui l’Armata Rossa si era fermata alle porte di Varsavia nel 1944 ed aveva lasciato che i nazisti macellassero i combattenti non comunisti della resistenza polacca?

Finché si manteneva un atteggiamento di generale benevolenza nei confronti del regime, la versione sovietica dei fatti era sempre la piú credibile e tutte le nefandezze che si riscontravano nella società e nella politica sovietica potevano sempre essere “inserite nel contesto” e confrontate con nefandezze presumibilmente piú grandi che c’erano altrove, e cosí esse venivano in definitiva tollerate. Naturalmente per molte persone l’accumularsi di “nefandezze” equivaleva ad una perdita della fede, o comunque a non aver piú una disposizione favorevole; quando questo accadeva non c’era piú niente del sistema che funzionasse, non avevano piú alcun senso le impressionanti statistiche sulla mortalità infantile o sugli impianti idroelettrici. Ma questa è un’altra storia. In questo libro sono analizzate infatti le attrazioni della società sovietica, quali erano, come erano collegate l’una all’altra, quali le ragioni della loro durevolezza.

Il fraintendimento o l’incomprensione di fatti ed istituzioni specifiche, quando erano giganteschi, non si possono capire se si isolano dal piú generale entusiasmo per il sistema nel suo complesso. Per coloro che erano in cerca di alternative alla propria società di appartenenza, vuota e decadente, non era possibile credere all’esistenza di crepe nel modello ideale che si era scelto. O l’Unione Sovietica era una società totalmente e irresistibilmente affascinante e stimolante, o non lo era affatto.

 

P. Hollander, Pellegrini politici, Il Mulino, Bologna, 1988, pagg. 236-237