Collegando strettamente
l’“evidenza naturale” con l’“evidenza morale”, e utilizzando il principio di
causa ed effetto - cioè di un rapporto necessario -, Hume arriva alla
conclusione che la nostra sensazione di libertà è solo apparente. Dopo aver
considerato il rapporto fra libertà e religione, Hume definisce anche che cosa
intende per necessità.
D. Hume, Trattato sulla natura
umana, Libro secondo, Parte terza, Sez. seconda
Essendo il desiderio di mostrare
la nostra libertà l’unico movente dei nostri atti, non riusciamo mai a
liberarci dai legami della necessità. Anche se immaginiamo di sentire una
libertà in noi, uno che ci osservi può di solito inferire i nostri atti dai
motivi che li determinano e dal nostro carattere; quando poi non vi riesce,
concludo che lo potrebbe se conoscesse perfettamente ogni circostanza della
nostra situazione e del nostro temperamento, i piú segreti impulsi del nostro
complesso psichico e delle nostre inclinazioni. Ora è proprio questa l’essenza
della necessità, secondo quanto abbiamo detto prima.
Un altro motivo per cui la
dottrina della libertà è stata generalmente accolta meglio nel mondo della sua
contraria procede dalla religione, che è stata coinvolta senza necessità
in questa faccenda. Non c’è metodo di ragionamento piú comune e insieme piú
riprovevole di quello per cui si cerca, nelle dispute filosofiche, di confutare
un’ipotesi con il pretesto delle sue pericolose conseguenze sulla religione e
sulla morale. Un’opinione assurda è sicuramente falsa, ma non è
senz’altro falsa un’opinione per il fatto di essere dannosa. Simili
argomentazioni devono essere bandite, come quelle che non servono alla scoperta
della verità e contribuiscono solo a rendere odiosa la persona dell’avversario.
Noto questo in generale, senza pretendere di trarre qualche vantaggio. Mi
sottometto sinceramente a un esame di questo genere ed oso affermare che la
dottrina della necessità, come la intendo, non solo non è dannosa, ma è anzi
utile alla religione e alla moralità.
Definisco la necessità in due
modi, secondo le due definizioni di causa di cui essa rappresenta una
parte essenziale. Essa consiste tanto nell’unione e nella congiunzione costante
di oggetti simili, quanto nell’inferenza della mente da un oggetto all’altro.
Ora la necessità in entrambi i sensi è stata universalmente, sebbene
tacitamente, attribuita alla volontà umana, nelle scuole, dal pulpito e nella
vita quotidiana, e nessuno ha mai preteso di negare che possiamo trarre
conclusioni sulle azioni umane e che queste conclusioni si fondano sulla unione
sperimentata di azioni simili con motivi e circostanze simili. Il solo punto in
cui qualcuno può dissentire da me è che egli si rifiuterà di chiamare ciò
necessità. Ma finché si è d’accordo sul significato, spero che non si farà
questione di parole. Oppure egli sosterrà che c’è qualcosíaltro nei fenomeni
fisici: ma in entrambi i casi la religione non ne va di mezzo, qualunque cosa
ne possa venire per la filosofia naturale.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 918-919)