La traduzione più letterale del detto dice: “Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo”. [...] L'insistenza ostinata con cui cerchiamo di pensare grecamente il pensiero dei Greci non ha affatto lo scopo di presentare un quadro storiografico più esatto della Grecità, intesa come una forma di umanità passata. Noi andiamo alla ricerca di ciò che fu greco non per amore dei Greci, né in vista d'un progresso della scienza, e neppure allo scopo di rendere il dialogo più rigoroso; ma lo facciamo esclusivamente in vista di ciò che in questo dialogo potrebbe giungere a farsi parola, nel caso che vi giunga in base a se stesso. Si tratta di quel Medesimo che, in maniere diverse, investe, in conformità della sua struttura [geschicklich], i Greci e noi. Si tratta di ciò che porta il mattino del pensiero nel destino [Geschick] della terra della sera. Solo in virtù di questo destino i Greci divengono Greci in senso storico. “Greco” non significa, nel nostro linguaggio, un carattere etnico nazionale, culturale o antropologico. “Greco” significa il mattino, l'inizio del destino secondo cui l'essere stesso si illumina nell'ente e pretende un'essenza dell'uomo che, in quanto conforme a questo destino [geschicklich], trova il suo corso storico [Geschichtsgang] nel modo in cui essa è custodita nell'essere o da esso dimessa, senza tuttavia esserne mai separata.
Il greco, il cristiano, il moderno, il planetario, l'occidentale nel senso suddetto, qui sono intesi in base a un tratto fondamentale dell'essere, che esso, in quanto Aletheia più che svelare nasconde nella Lethe. Questo nascondimento della sua essenza e della sua origine essenziale è il tratto in cui l'essere inizialmente si illumina, in modo tale che il pensiero non lo segua. L'ente non entra in questa luce dell’essere. Il non-esser-nascosto dell'ente, la chiarezza accordata ad esso, oscura la luce dell'essere.
L'essere si sottrae in se stesso mentre si scopre nell’ente. [...] Così l'essere sta in se stesso con la sua verità. Questo mantenersi-in-se-stesso è la maniera aurorale del suo scoprimento. Il primo segno del mantenersi in se è la Aletheia. Mentre produce il non-esser-nascosto dell'ente, essa instaura l'esser-nascosto dell'essere. Il nascondimento è sempre fondato nel rifiuto dell'essere che si mantiene in sé.
Questo illuminante mantenersi in sé con la verità della propria essenza, possiamo chiamarlo l'epokhé dell'essere. Questo termine, di origine stoica, non significa qui, come in HusserI, il metodo della sospensione dell'atto tetico della coscienza nell'oggettivazione. L'“epoca” dell'essere appartiene all'essere stesso. Essa è pensata a partire dall'oblio dell'essere.
Dalla epocalità dell'essere deriva la natura epocale del suo destino [Geschick] in cui è [ist] la storia autentica del mondo. Ogni qual volta l'essere si mantiene in sé nel suo destino, ne eviene improvvisamente ed imprevedibilmente un Mondo. Ogni epoca della storia del Mondo è un'epoca dell'erramento. L'essenza epocale dell'essere rientra nel carattere segretamente temporale dell'essere e caratterizza l'essenza del tempo, pensata nell'essere. Ciò che si intende ordinariamente per “tempo” non è che una rappresentazione vuota del tempo, desunta dall'ente preso come oggetto.
Il carattere estatico dell'Esserci [Da-sein] è per noi la prima apprensione della corrispondenza col carattere epocale dell' essere. L'essenza epocale dell'essere istituisce l'essenza estatica dell'Esser-ci. L'ex-sistenza dell'uomo sopporta I'estaticità dell'essere e ne salvaguarda in tal modo l'epocalità, all'essenza della quale appartiene il “Ci” [Da] e quindi l'Esser-Ci. [...] Cerchiamo ora di tradurre il detto di Anassimandro: ... katà tò khreón; didónai gàr autà diken kai tísin allélois tés adíkías....lungo il man-tenimento; essi lasciano infatti appartenere l'accordo e quindi anche la cura-riguardosa dell'uno per l'altro (nella risoluzione) del disaccordo.
Non è possibile né dare una dimostrazione scientifica di questa traduzione, né ricorrere alla fede in qualche autorità. La dimostrazione scientifica ha una portata troppo corta. Per la fede non c'è posto nel pensiero. La traduzione può esser ripensata solo nel pensamento del detto. Ma il pensiero è la Poesia [Dichten] della verità dell'essere nel dialogo storico dei pensanti. Ecco perché il detto non ci dirà nulla fin che ci limiteremo ad analizzarlo con criteri storiografici e filologici. Il detto ci parlerà il suo linguaggio straordinario solo se avremo tolto la parola al nostro modo abituale di rappresentarci le cose, per meditare su ciò in cui consiste lo sconvolgimento del destino attuale del mondo.
L’uomo sta per slanciarsi su tutta la terra e nella sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura - ridotto a "forze” - e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria. Quest’uomo in rivolta non è più in grado di dire semplicemente che cosa è [ist], di dire che cos’è che una cosa è.
Il tutto dell’ente è divenuto l’unico oggetto di un’unica volontà di conquista. La semplicità dell’essere è sepolta in un oblio totale. Quale fra i mortali avrà la possibilità di spingersi col pensiero sino nel fondo dell’abisso [Abgrund] di questo sconvolgimento? Si ha un bel cercare di chiudere gli occhi di fronte a questo abisso. Si possono innalzare paraventi su paraventi. Ma l’abisso resterà sempre lì dinanzi.
Le teorie della natura, le dottrine della storia, sono impotenti di fronte allo sconvolgimento. Esse confondono tutto nell’inconoscibile, perché esse stesse si nutrono della confusione che regna nei confronti della differenza fra ente ed essere.
C’è qualche salvezza? Essa c’è in primo luogo e soltanto se il pericolo è [ist]. Il pericolo è se l'essere stesso va all’estremo e capovolge l’oblio che proviene dall’essere stesso.
Ma se l'essere, nella sua stessa essenza, man-tenesse l’essenza dell'uomo? E se l’essenza dell’uomo riposasse nel pensare la verità dell’essere? Allora il pensiero deve poetare l’enigma dell’essere. Esso porta l’aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da pensarsi.
[M.Heidegger, Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 307, 313-315, 347-348]