HOBBES, DELLE CAUSE, DELLA GENERAZIONE E DELLA DEFINIZIONE DI UNO STATO

 

La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che naturalmente amano la libertà e il dominio sugli altri) nell'introdurre quella restrizione su loro stessi (in cui li vediamo vivere negli stati) è la previsione di ottenere quel mezzo la propria preservazione e una vita più soddisfacente, vale a dire, di uscire da quella miserabile condizione di guerra, che è necessamente conseguente (come si è mostrato nel capitolo XIII), alle passioni naturali degli uomini, quando non c'è un potere visibile per tenerli in soggezione, e legarli, con il timore della punizione, all'adempimento dei patti e all'osservanza di quelle leggi di natura esposte nei capitoli XIV e XV.

 

Infatti le leggi di natura (come la giustizia, l'equità, la modestia, la misericordia, e insomma il fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi) in sé stesse, senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare, contrarie alle nostre passioni naturali che ci spingono alla parzialità, all'orgoglio, alla vendetta e simili. I patti senza la spada sono solo parole ,n hanno la forza di assicurare affatto un uomo. Perciò, nonostante le i della natura (alle quali ognuno si attiene quando ha la volontà di attenervisi e può farlo senza pericolo) se non è eretto un potere o se non è istanza grande per la nostra sicurezza, ogni uomo vuole e può contare legittimamente sulla propria forza e sulla propria arte per garantirsi contro gli altri uomini. (...). Né è sufficiente per la sicurezza, che gli uomini desiderano duri per tutto il tempo della loro vita, che essi siano governati ti dal giudizio di uno solo per un periodo di tempo limitato, come in battaglia o in una guerra. Infatti, anche se ottengono una vittoria con il unanime sforzo contro un nemico esterno, tuttavia dopo, quando o non hanno un nemico comune, oppure quando colui che è tenuto per un nemico a parte, dall'altra è tenuto per un amico, devono necessariamente, a causa della differenza dei loro interessi, dissolversi e cadere di nuovo in guerra contro sé stessi.

 

È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono fra loro in società (e sono perciò annoverate da Aristotele tra le creature politiche) e tuttavia non hanno altra direzione che i loro giudizi e appetiti particolari, e non hanno la parola con la quale l'una possa significare tra che cosa pensa sia vantaggioso per il beneficio comune; alcuni perciò possono forse desiderare di sapere perché il genere umano non può fare lo stesso. A ciò rispondono:

 

Primo, che gli uomini sono continuamente in competizione per l'onore e per la dignità, cosa che non accade tra queste creature; per conseguenza tra gli uomini sorge, su quel fondamento, l'invidia e l'odio, e, infine, la guerra; tra queste, invece, non è così.

 

Secondo, che tra queste creature, il bene comune non differisce dal privato, ed essendo esse, per natura, inclini al loro bene privato, procurano con ciò il beneficio comune. Ma l'uomo, la cui gioia consiste nel paragonarsi con gli altri uomini, non può gustare se non ciò che è eminente.

 

Terzo, che queste creature, non avendo (come l'uomo) l'uso della ragione, non vedono, né pensano di vedere qualche colpa nell'amministrazione dei loro affari comuni, mentre tra gli uomini, ve ne sono moltissimi che pensano di essere più saggi e più capaci di governare la cosa pubblica degli altri; questi si sforzano di riformare e di rinnovare, chi in un modo, chi in un altro, e portano alla divisione e alla guerra civile.

 

Quarto, che queste creature, sebbene abbiano in qualche modo l'uso della voce per rendersi noti l'un l'altro i propri desideri e le altre affezioni, mancano tuttavia di quell'arte della parola, per la quale alcuni uomini possono rappresentare agli altri ciò che è bene sotto l'aspetto del male e ciò che è male sotto l'aspetto del bene. ed aumentare o diminuire l'apparente grandezza del bene e del male, scontentando gli uomini e turbando la loro pace a loro piacimento.

 

Quinto, che le creature irrazionali non possono distinguere tra ingiuria e danno; perciò, finché si trovano a loro agio, non si sentono offese dalle loro compagne, mentre l'uomo è più turbolento quando più si trova a suo agio; è allora infatti che ama mostrare la sua saggezza e censurare le azioni di coloro che governano lo stato.

 

Infine, che l'accordo tra queste creature è naturale, mentre quello tra gli uomini è solo per patto ed è artificiale; nessuna meraviglia quindi se (oltre il patto) si richiede qualcosa d'altro per rendere il loro accordo costante e durevole, cioè, un potere comune che li tenga in soggezione e che diriga le loro azioni verso il comune beneficio.

 

La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall'aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un'assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un'assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere sé stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso o della concordia; è un'unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest'uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO in latino CIVITAS. Questa è la generazione di quel grande LEVIATANO o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l'uso, che con il terrore dì esse è in grado di uniformare le volontà di tutti alla pace interna e all'aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l'essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l'uno nei confronti dell'altro e viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa.

 

Chi regge la parte di questa persona viene chiamato SOVRANO e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro è suo SUDDITO.

 

Si consegue questo potere sovrano in due modi. Il primo è dato dalla forza naturale, come quando un uomo fa sì che i suoi figli si sottomettano insieme con i loro figli al suo governo, in quanto è in grado di distruggerli se si rifiutano o come quando sottomette con la guerra i suoi nemici alla sua volontà, dando loro la vita a quella condizione. Si ha l'altro, quando gli uomini si accordano fra di loro per sottomettersi a qualche uomo o a qualche assemblea di uomini, volontariamente, confidando di essere così protetti contro tutti gli altri. Quest'ultimo può essere chiamato uno stato politico o stato per istituzione e il precedente uno stato per acquisizione. Parlerò, in primo luogo, dello stato per istituzione.

 

(T. Hobbes, Il Leviatano)