Hobsbawm, il secolo breve

 

Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro perché non si può raccontare l'età della propria vita allo stesso modo in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo dall'esterno, di seconda o di terza mano, attraverso le fonti den'epoca o le opere degli storici successivi. L'arco della mia vita coincide quasi interamente con il periodo di cui tratta questo libro e per la maggior parte di essa, dalla prima adolescenza fino a oggi, sono stato consapevole degli avvenimenti pubblici, vale a dire ho accumulato opinioni e pregiudizi che derivano dalla mia condizione di contemporaneo più che da quella di studioso. Per questo motivo ho evitato quasi sempre nella mia carriera di storico di trattare professionalmente dell'epoca che si sviluppa dopo il 1914, sebbene non mi sia astenuto dallo scrivere intorno a questo periodo in altre sedi, non storiografiche. L'epoca di cui «mi sono occupato», come dicono gli addetti ai lavori, è l'ottocento. Penso che ora sia possibile considerare in una prospettiva storica il Novecento, cioè quel Secolo breve che va dal 1914 alla fine dell'Unione Sovietica, ma mi accosto a questo periodo senza la conoscenza della letteratura scientifica che lo riguarda e solo con una qualche infarinatura delle fonti archivistiche che i numerosissimi storici del ventesimo secolo hanno accumulato. [...] I lettori devono accettare sulla fiducia la maggior parte delle affermazioni di questo libro, a prescindere da quelle che risultano palesemente valutazioni personali dell'autore. Non ha senso sovraccaricare un libro come questo con un vasto apparato di rimandi eruditi. Ho cercato di limitare i rimandi alle sole fonti delle citazioni, a quelle delle statistiche e di altri dati numerici - fonti diverse forniscono talvolta cifre diverse - e a occasionali fonti di supporto per affermazioni che i lettori potrebbero trovare insolite o inattese e per alcuni punti dove la discutibile opinione dell'autore potrebbe richiedere qualche appoggio. [...] Il 28 giugno del 1992, senza preannuncio, il presidente francese Mitterrand fece un'improvvisa e inattesa comparsa a Sarajevo, centro di una guerra balcanica che doveva provocare nel resto di quell'anno la morte di 150.000 uomini. Il suo scopo era di ricordare all'opinione pubblica mondiale la gravità della crisi bosniaca. Infatti la presenza di un anziano e prestigioso statista in condizioni di salute assai precarie, che sfidava il fuoco delle artiglierie e delle armi leggere, fu un evento degno di nota e fu oggetto di ammirazione. Tuttavia, un aspetto della visita di Mitterrand passò quasi sotto silenzio, benché fosse uno dei più importanti: la data. Perché il presidente francese aveva scelto di andare a Sarajevo proprio quel giorno? Perché il 28 giugno era l'anniversario dell'assassinio dell'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo nel 1914, un episodio che condusse, nel giro di qualche settimana, allo scoppio della prima guerra mondiale. Per ogni europeo colto dell'età di Mitterrand balzava agli occhi il nesso tra la data, il luogo e il ricordo di una catastrofe storica innescata da errori di valutazione politica. Scegliere una data così simbolica era il modo più efficace per drammatizzare le possibili implicazioni catastrofiche della crisi bosniaca. Ma quasi nessuno colse l'allusione, se si eccettuano pochi storici di mestiere e qualche cittadino anziano. La memoria storica non era più viva. La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l'esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani,alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa si che la presenza e l'attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione. Nel 1989 tutti i governi, e soprattutto i ministeri degli Esteri, avrebbero tratto grande beneficio da un seminario di storia sugli accordi di pace successivi alla prima guerra mondiale, accordi che la maggior parte di loro dimostrava di aver dimenticato.

 

(Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve)