William James (New York 1842-Chocorua, N. H. 1910), in
questa relazione tenuta a Roma nel 1905 al V Congresso Internazionale di
Psicologia, presenta la sua concezione dinamica della coscienza – il campo di
indagine privilegiato della psicologia scientifica – che egli concepisce come
un flusso continuo, una attività mentale che collega tra loro i diversi momenti
e contenuti dell’esperienza personale. La coscienza non va quindi considerata
una entità statica e isolata ma va ricondotta all’interno del processo
dell’esperienza, in cui soggetto e oggetto, cosa e pensiero, costituiscono una
unità.
W. James, Saggi pragmatisti
Si definisce di solito la psicologia come la “scienza dei
fatti di coscienza” o dei fenomeni, o, anche, degli stati di
coscienza. O che la si riferisca a dei me personali, “oppure che la si
creda impersonale come l’“io trascendentale” di Kant o la Bewusstheit o
il Bewusstsein überhaupt dei tedeschi contemporanei, questa coscienza è
sempre considerata come avente un’essenza propria, assolutamente distinta
dall’essenza delle cose materiali, ch’essa ha il dono misterioso di
rappresentare e di conoscere. I fatti materiali, presi nella loro materialità,
non sono provati, non sono oggetti d’esperienza, non si riportano
a qualcosa.
Perché prendano la forma del sistema nel quale ci sentiamo
vivere, bisogna che appaiano, e questo fatto di apparire, aggiunto alla
loro esistenza bruta, si chiama la coscienza che noi ne abbiamo, o forse,
secondo l’ipotesi panpsichista, ch’essi hanno di loro medesimi.
Ecco dunque quell’inveterato dualismo che sembra
impossibile cacciare dalla nostra concezione del mondo.
Questo mondo può esistere in sé, ma noi non ne sappiamo
nulla, giacché per noi è soltanto un oggetto d’esperienza; e la condizione
indispensabile per ciò, è che sia riferito a dei testimoni, che sia conosciuto
da un soggetto o da soggetti spirituali. Oggetto e soggetto son le due gambe
senza le quali pare che la filosofia non sappia fare un passo avanti.
Tutte le scuole son d’accordo su ciò: scolastici,
cartesiani, kentiani, neo-kentiani, tutti ammettono il dualismo fondamentale.
Il positivismo o agnosticismo dei nostri giorni, che tiene a derivare dalle
scienze naturali, si dà volentieri, è vero, il nome di monismo. Ma si tratta di
un monismo verbale. Pone una realtà sconosciuta ma ci dice che questa realtà si
presenta sempre sotto due “aspetti”, un lato coscienza e un lato materia, e
questi due aspetti rimangono irriducibili come gli attributi fondamentali
(estensione e pensiero) del Dio di Spinoza. In fondo il monismo contemporaneo è
puro spinozismo.
Ora come ci si rappresenta questa coscienza di cui tutti
siamo cosí inclinati ad ammettere l’esistenza? È impossibile definirla, ci
dicono, ma ne abbiamo tutti una intuizione immediata: prima di tutto la
coscienza ha coscienza di se stessa. Domandate alla prima persona che
incontrerete, uomo o donna, psicologo o ignorante, e vi risponderà che si sente
pensare, godere, soffrire, volere, nello stesso modo in cui si sente respirare.
Essa percepisce direttamente la sua vita spirituale come
una specie di corrente interna, attiva, leggera, fluida, delicata, quasi
diafana e assolutamente opposta a qualunque cosa materiale. Insomma la vita
soggettiva non sembra esser soltanto una condizione logicamente indispensabile
perché vi sia un mondo obiettivo che appaia, è anche un elemento
dell’esperienza stessa che noi proviamo direttamente come sentiamo il nostro
corpo.
Idee e Cose, come non riconoscere il loro dualismo?
Sentimenti e Oggetti, come dubitare della loro assoluta eterogeneità?
La sedicente psicologia scientifica ammette questa
eterogeneità come l’ammetteva l’antica psicologia spiritualista.
Come non ammetterla? Ogni scienza si taglia arbitrariamente
nella trama dei fatti un campo in cui si chiude, e di cui studia e descrive il
contenuto. La psicologia prende per suo dominio il campo dei fatti di
coscienza. Essa li postula senza criticarli, li oppone ai fatti materiali; e,
senza criticare neppure la nozione di questi ultimi, li lega alla coscienza col
legame misterioso della conoscenza, della appercezione che, per
essa, è un terzo genere di fatti fondamentali ed ultimi.
Seguendo questa strada la psicologia contemporanea ha
celebrato grandi trionfi. Ha potuto fare un disegno dell’evoluzione della vita
cosciente, concependo quest’ultima come adattantesi sempre piú completamente
all’ambiente fisico. Ha potuto stabilire un parallelismo nel dualismo, quello
dei fatti psichici e dei processi cerebrali. Essa ha spiegato le illusioni, le
allucinazioni e, fino a un certo punto, le malattie mentali. Sono dei bei
progressi, ma restano ancora parecchi problemi.
La filosofia generale soprattutto, che ha per dovere di
scrutare tutti i postulati, trova dei paradossi e degli ostacoli là dove la
scienza passa oltre: non ci sono che gli amanti della scienza popolare che non
son mai perplessi. Piú si va in fondo alle cose e piú enigmi si trovano, ed io
confesso per parte mia che da quando mi occupo seriamente di psicologia questo
vecchio dualismo di materia e pensiero, questa eterogeneità posta come assoluta
di due essenze, m’ha presentato sempre delle difficoltà, e di alcune di queste
difficoltà vorrei appunto intrattenervi.
Prima di tutto ce n’è una la quale, ne son convinto, vi
avrà colpiti tutti. Prendiamo la percezione esterna, la sensazione diretta che
ci dànno, per esempio, le mura di questa sala. Si può dire qui che lo psichico
e il fisico siano assolutamente eterogenei? Al contrario, sono cosí poco
eterogenei che, se ci mettiamo dal punto di vista del senso comune, se facciamo
astrazione da tutte le invenzioni esplicative, dalle molecole e dalle
ondulazioni eteree, per esempio, che in fondo sono entità metafisiche, se, in
una parola, prendiamo la realtà ingenuamente e come ci è data primitivamente, questa
realtà sensibile da cui dipendono tutte le nostre azioni; ebbene questa realtà
sensibile e la sensazione che ne abbiamo sono, nel momento in cui la sensazione
si produce, assolutamente identiche l’una all’altra. La realtà è la stessa
appercezione. Le parole “mura di questa sala” non significano che questa
bianchezza fresca e sonora che ci circonda, interrotta da queste finestre,
limitata da queste linee e questi angoli. Il fisico non ha altro contenuto che
lo psichico. Soggetto e oggetto si confondono.
Berkeley è stato il primo a mettere in onore questa verità.
Esse est
percipi. Le nostre sensazioni non sono dei
piccoli duplicati interni delle cose, sono le cose stesse in quanto le cose ci
son presenti. E qualunque cosa si voglia pensare della vita assente, nascosta,
e per dir cosí, privata, delle cose e qualunque siano le costruzioni ipotetiche
che se ne facciano, resta vero che la vita pubblica delle cose, questa
attualità presente per la quale ci vengono innanzi, da cui derivano tutte le
nostre costruzioni teoriche, e alla quale debbono tutte tornare e
ricongiungersi sotto pena di ondeggiare nell’aria e nell’ideale; questa
attualità, dico, è omogenea, e non solo omogenea, ma numericamente una, con una
certa parte della nostra vita interiore.
Ecco per la percezione esterna. Quando ci si rivolge
all’immaginazione, alla memoria o alle facoltà di rappresentazione astratta,
benché i fatti siano piú complicati, credo che appaia la stessa omogeneità
essenziale. Per semplificare il problema escludiamo dapprima ogni realtà
sensibile. Prendiamo il pensiero puro, come si effettua nel sogno o nella rêverie
o nella memoria del passato. Qui pure la stoffa dell’esperienza non fa
doppia parte, il fisico e lo psichico non si confondono? Se io sogno una
montagna d’oro, essa non esiste fuori del sogno, ma nel sogno essa è di
natura o di essenza perfettamente fisica, appare come fisica. Se in
questo momento mi permetto di ricordare la mia casa in America, e i particolari
del mio imbarco per l’Italia, il fenomeno puro, il fatto che si produce cos’è?
È, dicono, il mio pensiero col suo contenuto. Ma questo contenuto cos’è? Ha la
forma d’una parte del mondo reale, parte ch’è distante, è vero, seimila
chilometri nello spazio e sei settimane nel tempo, ma legata colla sala in cui
siamo per una quantità di cose, oggetti e avvenimenti, omogenei da una parte
colla sala e dall’altra parte coll’oggetto de’ miei ricordi.
Questo contenuto non si dà come essendo dapprima un piccolo
fatto interno che io proietterei dopo lontano: si presenta subito come il fatto
lontano medesimo. E l’atto di pensare questo contenuto, la coscienza che ne ho,
cosa sono? Sono, in fondo, altra cosa che delle maniere retrospettive di
chiamare lo stesso contenuto, quando lo si sarà separato da tutti questi
intermediari fisici, e collegato a un nuovo gruppo di associati che lo fanno
rientrare nella mia vita mentale, ad esempio, le emozioni che hanno svegliato
in me l’attenzione che vi dirigo, le mie idee di poco fa che l’hanno suscitato
come ricordo. Solo riferendolo a questi ultimi associati il fenomeno vien
classificato come pensiero; finché si riferiva ai primi resta fenomeno obbiettivo.
È vero che noi opponiamo abitualmente le nostre immagini
interne agli oggetti, e che le consideriamo come piccole copie, come calchi o
doppi indeboliti di questi ultimi. Un oggetto presente ha una vivacità e una
nettezza superiore a quella dell’immagine. Gli fa pure contrasto e, per
servirmi dell’eccellente parola di Taine, gli fa da riduttore. Quando i
due sono presenti insieme, l'oggetto prende il primo piano e l’immagine
“indietreggia”, diventa una cosa “assente”. Ma quest’oggetto presente cos’è lui
stesso? Di quale stoffa è fatto? Della stessa stoffa dell’immagine. È fatto di sensazioni:
è cosa percepita. Il suo esse è percipi, e lui, e l’immagine sono
genericamente omogenei.
Se io penso in questo momento al mio cappello che ho
lasciato ora in guardaroba, dov’è il dualismo, il discontinuo, fra il cappello
pensato e il cappello reale? Il mio spirito si occupa di un vero cappello
assente. Ne tengo conto praticamente come di una realtà. Se fosse presente
su questa tavola il cappello determinerebbe un moto della mia mano, lo
prenderei. Cosí pure questo cappello concepito, questo cappello idea,
determinerà fra poco la direzione dei miei passi. Andrò a prenderlo. L’idea che
ne ho continuerà fino alla presenza sensibile del cappello e si fonderà
armoniosamente con essa.
Io concludo dunque, che, per quanto ci sia un dualismo
pratico, poiché le immagini si distinguono dagli oggetti, ne tengono il posto,
e ci conducono ad essi non e il caso di attribuire loro una differenza di
natura essenziale. Pensiero e attualità son fatti di una sola e stessa stoffa,
che è la stoffa dell’esperienza in generale.
La psicologia della percezione esterna ci porta alla stessa
conclusione. Quando scorgo l’oggetto che m’è innanzi come una tavola di una
data forma a una certa distanza, mi si spiega che questo fatto è dovuto a due
fattori, a una materia di sensazione che mi penetra per la via degli occhi e
che dà l’elemento d’esteriorità reale, e delle idee che si risvegliano, che
vanno incontro a questa realtà, la classificano e l’interpretano. Ma chi può
far la parte, nella tavola concretamente percepita, di ciò ch’è sensazione e di
ciò ch’è idea? L’esterno e l’interno, l'esteso e l’inesteso si fondono e
formano un matrimonio indissolubile. Ricorda quei panorami circolari in cui gli
oggetti reali, rocce, erbe, carri rotti ecc. che occupano il primo piano, son
cosí ingegnosamente congiunti colla tela che forma il fondo, e che rappresenta
una battaglia o un vasto paesaggio, che non si sa distinguere quel ch’è oggetto
e quel ch’è pittura. Le cuciture e le commessure sono impercettibili. Potrebbe
avvenire ciò se l’oggetto e l’idea fossero assolutamente dissimili di natura?
Son convinto che considerazioni simili a queste che ho
espresse avranno già suscitato, anche in voi, dei dubbi rispetto al preteso
dualismo.
E sorgono anche altre ragioni di dubbio. C’è tutta una
sfera di aggettivi e di attributi che non sono né oggettivi né soggettivi in un
modo esclusivo, ma che noi impieghiamo ora in un modo, ora in un altro, come se
ci compiacessimo nella loro ambiguità. Io parlo delle qualità che noi apprezziamo,
per dir cosí, nelle cose, il loro lato estetico, morale, il loro valore per
noi. La bellezza, per esempio, in cosa risiede? È nella statua, nella sonata o
nel nostro spirito? Il mio collega di Harvard, Giorgio Santayana ha scritto un
libro di estetica, in cui chiama la bellezza “il piacere obiettivato” e
veramente è proprio qui che si potrebbe parlare di proiezioni al di fuori. Si
dice indifferentemente un calore gradevole o una sensazione gradevole di
calore. La rarità, la preziosità del diamante ci sembrano le sue qualità
essenziali. Noi parliamo d’un uragano terribile, d’un uomo odioso, d’un’azione
indegna e crediamo di parlare obiettivamente benché questi termini non
esprimano che dei rapporti colla propria sensibilità emotiva.
Noi diciamo anche un cammino penoso, un cielo triste, un
tramonto superbo. Tutto questo modo animistico di guardare le cose che sembra
essere stato il modo primitivo di pensare degli uomini, si può spiegare
benissimo (e G. Santayana in un altro libro recente l’ha ben spiegato cosí)
coll’abitudine di attribuire all’oggetto tutto ciò che noi risentiamo in
sua presenza.
La divisione di soggettivo e oggettivo è il frutto di una
riflessione molto avanzata, che ci piace di sospendere ancora in parecchi casi.
Quando i bisogni pratici non ci forzano sembra che ci piaccia di cullarci nel
vago.
Le stesse qualità seconde, calore, suono, luce, non hanno
anche oggi che un’attribuzione vaga. Per il senso comune, per la vita pratica,
sono assolutamente obiettive, fisiche; per il fisico son soggettive. Per lui
non c’è che la forma, la massa, il moto che abbiano una realtà esterna. Per il
filosofo idealista, al contrario, forma e moto sono soggettivi come la luce e
il calore, non c’è che la cosa in sé sconosciuta, il “noumeno”, che goda di una
esistenza extramentale completa.
Le nostre sensazioni intime conservano ancora un po’ di
questa ambiguità. Vi sono delle illusioni di movimento che provano che le
nostre prime sensazioni di movimento eran generalizzate. Il mondo intero si
muoveva con noi. Ora distinguiamo il nostro proprio movimento da quello degli
oggetti che ci circondano, e fra gli oggetti ne distinguiamo di quelli che
restano fermi. Ma vi sono degli stati di vertigine nei quali, anche oggi,
ricadiamo nella primitiva indifferenziazione.
Voi conoscete certo tutti quella teoria che ha voluto fare
delle emozioni delle somme di sensazioni viscerali e muscolari. Essa ha dato
origine a molte dispute e nessuna opinione ha conquistato ancora l’unanimità
dei suffragi. Voi conoscete pure le discussioni sulla natura dell’attività
mentale. Gli uni sostengono ch’è una forza puramente spirituale che possiamo
percepire immediatamente come tale. Gli altri pretendono che ciò che chiamiamo
attività mentale (sforzo, attenzione, per esempio) non è che il riflesso
sentito di certi effetti di cui il nostro organismo è la sede, tensioni muscolari
al cranio o alla gola, arresto o passaggio della respirazione, afflusso di
sangue, ecc.
In qualunque modo si risolvano queste questioni la loro
esistenza prova chiaramente una cosa! cioè ch’è molto difficile o assolutamente
impossibile sapere, con la sola ispezione intima di certi fenomeni che sono di
materia fisica, estesi, ecc., o se sono di natura puramente psichica e interna.
Bisogna trovar sempre delle ragioni per giustificare il nostro parere; bisogna
cercare la classificazione piú probabile del fenomeno, e infine potrebbe
benissimo anche darsi che tutte le nostre classificazioni usuali avessero i
loro motivi piuttosto nei bisogni della pratica che in qualche facoltà che noi
abbiamo di percepire due essenze ultime e diverse che comporrebbero insieme la
trama delle cose. Il corpo di ciascuno di noi offre un contrasto pratico, quasi
violento, a tutto il resto dell’ambiente. Tutto ciò che accade nel corpo è per
noi piú intimo e importante di quel che accade altrove. S’identifica col nostro
me, si classifica con lui. Anima, vita, soffio, chi potrebbe distinguerli
esattamente? Ma le nostre immagini e i nostri ricordi, che non agiscono sul
mondo fisico che per mezzo del nostro corpo, sembrano appartenere a
quest’ultimo. Noi li trattiamo come interni, li classifichiamo coi nostri
sentimenti affettivi. Bisogna ben confessare, insomma, che la questione del
dualismo del pensiero e della materia è ben lungi dall’esser risolta.
Quanto a me, dopo lunghi anni di esitazione, ho finito per
prendere risolutamente il mio partito. Io credo che la coscienza, come ci si
rappresenta comunemente, sia come entità, sia come attività pura, ma in ogni
caso come fluida, inestesa, diafana, vuota di ogni contenuto proprio, ma
conoscentesi direttamente essa stessa, spirituale infine, io credo, dico, che
questa coscienza è una pura chimera, e che la somma di realtà concrete che la
parola coscienza dovrebbe ricoprire, merita un’altra descrizione, descrizione,
del resto, che una filosofia attenta ai fatti, e abile a fare un po’ d’analisi,
potrebbe ormai fornire o piuttosto cominciare a fornire.
Ammettiamo che la coscienza, la Bemusstheit, concepita
come essenza, entità’ attività, metà invincibile di ogni esperienza, sia
soppressa, che il dualismo fondamentale e, per cosí dire, ontologico sia
abolito e che ciò che noi supponevamo esistere sia soltanto ciò che s’è
chiamato fin qui il contenuto, der Inhalt, della coscienza; come se la
caverà la filosofia con la specie di monismo vago che ne resulterà? Io cercherò
d’insinuare su ciò qualche suggestione positiva, per quanto tema che, per
mancanza dello svolgimento necessario, le mie idee non porteranno gran lume. Ma
se indicherò un principio di sentiero sarà forse abbastanza.
In fondo perché ci aggrappiamo cosí tenacemente all'idea di
una coscienza sovrapposta all’esistenza del contenuto delle cose? Perché la
esigiamo cosí fortemente, che colui che la negasse ci sembrerebbe piuttosto un
burlone che un pensatore? Non è per salvare il fatto innegabile che il
contenuto dell’esperienza non ha soltanto un’esistenza propria e come immanente
e intrinseca, ma che ciascuna parte di questo contenuto si scarica, per
cosí dire, sulle sue vicine, rende conto di se stessa ad altre, esce in qualche
modo da sé per esser saputa, e che cosi tutto il campo dell’esperienza è
trasparente da parte in parte, o costituito come uno spazio che sarebbe pieno
di specchi?
Questa bilateralità delle parti dell’esperienza – cioè da
una parte l’avere esse delle qualità proprie, e d’altra parte l’esser riferite
ad altre parti e sapute – l'opinione regnante la constata e la spiega
con un dualismo fondamentale di costituzione appartenente a ciascun pezzo di
esperienza in proprio. In questo foglio di carta non c’è soltanto, si dice, il
contenuto, bianchezza, sottigliezza ecc., ma c’è anche questo secondo fatto
della coscienza di questa bianchezza e di questa sottigliezza.
Questa funzione di essere “riferito”, di far parte della
trama intera di un’esperienza piú comprensiva, la si erige in fatto ontologico,
e si mette questo fatto nell’interno stesso della carta, accoppiandolo colla
sua bianchezza e la sua sottigliezza. Non si suppone un rapporto estrinseco, ma
una metà del fenomeno stesso.
Io credo insomma che ci si rappresenta la realtà come
costituita a guisa dei “colori” che ci servono per la pittura. Vi sono dapprima
delle materie coloranti che corrispondono al contenuto, e c’è un veicolo, olio
o colla, che le tiene sospese e risponde alla coscienza. È un dualismo completo
in cui impiegando certi processi, si può separare ciascun elemento dall’altro
per via di sottrazione. Cosí ci assicurano che, facendo un grande sforzo di
astrazione introspettiva, possiamo afferrare la nostra coscienza sul vivo, come
un’attività spirituale pura, trascurando quasi completamente le materie che rischiara
a un dato momento.
Ora io vi domando se non si potrebbe rovesciare
assolutamente questo modo di vedere. Supponiamo, infatti, che la realtà prima
sia di natura neutra, e chiamiamola con qualche nome ancora ambiguo, come fenomeno,
dato, Vorfindung. Io ne parlo volentieri al plurale, e le dò il nome di esperienze
pure. Sarà un monismo, se volete, ma un monismo rudimentale e assolutamente
opposto al sedicente nomismo bilaterale del positivismo scientifico o
spinozista.
Queste esperienze pure esistono e si succedono, entrano in
rapporti infinitivamente variati le une colle altre, rapporti che sono essi
stessi parti essenziali nella trama delle esperienze. C’è una “coscienza” di
questi rapporti allo stesso modo come c’è una coscienza dei loro termini. Ne risulta
che dei gruppi d’esperienze si fanno notare e distinguere, e che una
sola e medesima esperienza, vista la grande varietà dei suoi rapporti, può fare
una parte in parecchi gruppi nello stesso tempo. Cosí in un certo contesto di
vicini, sarebbe classificata come un fenomeno fisico, mentre in un’altra
compagnia figurerebbe come un fatto di coscienza, all’incirca come una stessa
particella d’inchiostro può appartenere simultaneamente a due righe, una
verticale e una orizzontale, purché si trovi alla loro intersezione.
Prendiamo, per fissare le nostre idee, l'esperienza che
abbiamo in questo momento del luogo in cui siamo, di questi muri, di questo
spazio. In questa esperienza piena, concreta e indivisa, com’è, data, il mondo
fisico obiettivo e il mondo interno e personale di ciascuno di noi s’incontrano
e si fondono come delle linee si fondono alla loro intersezione. Come cosa
fisica questa sala ha dei rapporti con tutto l’insieme dell’edificio, edificio
che noi non conosciamo e non conosceremo. Essa deve la sua esistenza a tutta
una storia di finanzieri, di architetti, di operai. Essa pesa sul suolo; essa
durerà indefinitamente nel tempo; se il fuoco vi scoppiasse le sedie e la
tavola che contiene sarebbero rapidamente ridotte in cenere.
Come esperienza personale, al contrario, come cosa
“riferita”, conosciuta, cosciente, questa sala ha tutt’altre relazioni nel
passato e nel futuro. I suoi antecedenti non sono degli operai, ma sono i
nostri rispettivi pensieri di poco fa. Ben tosto essa non figurerà che come un
fatto fuggitivo nelle nostre biografie, associato a piacevoli ricordi. Come
esperienza psichica non ha nessun peso e il suo arredamento non è combustibile.
Essa non esercita influenza fisica che sui nostri cervelli e molti fra noi
negano questa influenza; mentre la sala fisica è in rapporto d’influenza fisica
con tutto il resto del mondo.
E nonostante nei due casi si tratta assolutamente della
stessa sala Finché non facciamo della fisica speculativa, finché restiamo nel
senso comune, è la sala vista e sentita ch’è la sala fisica. Di cosa parliamo
noi dunque se non di ciò, di questa stessa parte della natura materiale
che tutti i nostri spiriti, in questo stesso momento, abbracciano, che entra
cosí com’è nell’esperienza attuale e intima di ciascuno di noi, e che il nostro
ricordo considererà sempre come una parte integrante della nostra storia. È
assolutamente una stessa stoffa che figura simultaneamente, secondo il contesto
che si considera, come fatto materiale e fisico, o come fatto di coscienza
intima.
Io credo dunque che non si può trattare coscienza e materia
come cose di essenza disparata. Non si ottiene né l’una né l’altra per
sottrazione, tralasciando ogni volta l’altra metà d’una esperienza di
composizione doppia. Le esperienze sono al contrario primitivamente di natura
piuttosto semplice. Esse divengono coscienti nel loro intero, diventano
fisiche nel loro intero, e questo resultato si ottiene per via
d’addizione. In quanto certe esperienze si prolungano nel tempo, entrano in
rapporti di influenza fisica, rompendosi, scaldandosi, rischiarandosi ecc.
mutualmente, noi ne facciamo un gruppo a parte che chiamiamo il mondo fisico.
In quanto, invece, son fuggevoli, fisicamente inerti, senza un ordine
determinato di successione ma sembrano piuttosto obbedire a dei capricci
emotivi noi ne facciamo un altro gruppo che chiamiamo il mondo psichico.
Entrando in un gran numero di questi gruppi psichici questa sala diventa ora
una cosa cosciente, cosa riferita, cosa saputa. Facendo parte oramai delle
nostre rispettive biografie, non sarà seguita da quella sciocca e monotona
ripetizione di se stessa nel tempo che caratterizza la sua esistenza fisica.
Sarà seguita invece da altre esperienze che saranno discontinue con lei, o che
avranno quel genere tutto particolare di continuità che si chiama ricordo.
Domani avrà il suo posto in ciascuno dei nostri passati; ma i presenti diversi,
ai quali tutti questi passati saranno legati domani, saranno ben differenti dal
presente di cui godrà domani questa sala come entità fisica.
I due generi di gruppi sono formati d’esperienze ma i
rapporti di queste esperienze fra loro differiscono da un gruppo all’altro. È
dunque per addizione di altri fenomeni che un fenomeno dato diviene cosciente o
conosciuto, non è per uno sdoppiamento di essenza interna. La conoscenza delle
cose sopravviene loro, non è a loro immanente. Non si tratta né di un io
trascendentale né di una Bewusstheit o atto di coscienza che le
animerebbe ciascuna. Esse si conoscono l’una coll’altra, o piuttosto ce
ne sono di quelle che conoscono le altre, e il rapporto che chiamiamo
conoscenza non è lui stesso, in molti casi, che una serie di esperienze
intermedie suscettibili di esser descritte in termini concreti. Non è affatto
il mistero trascendente di cui si son compiaciuti tanti filosofi.
Ma questo ci porterebbe molto lungi. Io non posso entrare
qui in tutti gli intrighi della teoria della conoscenza o di quella che
voialtri italiani chiamate gnoseologia. Io debbo contentarmi di queste note
brevi e suggestive e, lo temo, molto oscure senza i loro sviluppi necessari.
Permettetemi dunque che io mi riassuma, troppo
sommariamente, e in stile dogmatico, nelle sei tesi seguenti.
1. La coscienza, come viene intesa ordinariamente, non
esiste affatto, non piú che la materia alla quale Berkeley dette il colpo di
grazia.
2. Ciò che esiste, e forma la parte di verità che la parola
“coscienza” ricopre, è la suscettibilità che posseggono le parti
dell’esperienza di esser riferite o conosciute.
3. Questa suscettibilità si spiega col fatto che certe
esperienze possono condurre le une alle altre per mezzo di esperienze
intermedie nettamente caratterizzate in tal modo che le une fanno la parte di
cose conosciute e le altre quella di soggetti che conoscono.
4. Si possono definire perfettamente queste due parti senza
uscire dalla trama dell’esperienza, e senza invocare nulla di trascendente.
5. Le attribuzioni soggetto e oggetto, rappresentato e
rappresentativo, cosa e pensiero, significano dunque una distinzione pratica
ch’è di grande importanza ma ch’è di ordine “funzionale” soltanto,
e niente affatto ontologico come la rappresenta il dualismo classico.
6. Infine le cose e i pensieri non sono fondamentalmente
eterogenei ma sono d’una stessa stoffa, stoffa che non si può definire ma
soltanto provare, e che si può chiamare, se si vuole, la stoffa dell’esperienza
in generale.
L. Mecacci, Introduzione alla
psicologia, Laterza, Bari, 1994, pagg. 121-133