James, La concezione della coscienza

William James (New York 1842-Chocorua, N. H. 1910), in questa relazione tenuta a Roma nel 1905 al V Congresso Internazionale di Psicologia, presenta la sua concezione dinamica della coscienza – il campo di indagine privilegiato della psicologia scientifica – che egli concepisce come un flusso continuo, una attività mentale che collega tra loro i diversi momenti e contenuti dell’esperienza personale. La coscienza non va quindi considerata una entità statica e isolata ma va ricondotta all’interno del processo dell’esperienza, in cui soggetto e oggetto, cosa e pensiero, costituiscono una unità.

 

W. James, Saggi pragmatisti

 

Si definisce di solito la psicologia come la “scienza dei fatti di coscienza” o dei fenomeni, o, anche, degli stati di coscienza. O che la si riferisca a dei me personali, “oppure che la si creda impersonale come l’“io trascendentale” di Kant o la Bewusstheit o il Bewusstsein überhaupt dei tedeschi contemporanei, questa coscienza è sempre considerata come avente un’essenza propria, assolutamente distinta dall’essenza delle cose materiali, ch’essa ha il dono misterioso di rappresentare e di conoscere. I fatti materiali, presi nella loro materialità, non sono provati, non sono oggetti d’esperienza, non si riportano a qualcosa.

Perché prendano la forma del sistema nel quale ci sentiamo vivere, bisogna che appaiano, e questo fatto di apparire, aggiunto alla loro esistenza bruta, si chiama la coscienza che noi ne abbiamo, o forse, secondo l’ipotesi panpsichista, ch’essi hanno di loro medesimi.

Ecco dunque quell’inveterato dualismo che sembra impossibile cacciare dalla nostra concezione del mondo.

Questo mondo può esistere in sé, ma noi non ne sappiamo nulla, giacché per noi è soltanto un oggetto d’esperienza; e la condizione indispensabile per ciò, è che sia riferito a dei testimoni, che sia conosciuto da un soggetto o da soggetti spirituali. Oggetto e soggetto son le due gambe senza le quali pare che la filosofia non sappia fare un passo avanti.

Tutte le scuole son d’accordo su ciò: scolastici, cartesiani, kentiani, neo-kentiani, tutti ammettono il dualismo fondamentale. Il positivismo o agnosticismo dei nostri giorni, che tiene a derivare dalle scienze naturali, si dà volentieri, è vero, il nome di monismo. Ma si tratta di un monismo verbale. Pone una realtà sconosciuta ma ci dice che questa realtà si presenta sempre sotto due “aspetti”, un lato coscienza e un lato materia, e questi due aspetti rimangono irriducibili come gli attributi fondamentali (estensione e pensiero) del Dio di Spinoza. In fondo il monismo contemporaneo è puro spinozismo.

Ora come ci si rappresenta questa coscienza di cui tutti siamo cosí inclinati ad ammettere l’esistenza? È impossibile definirla, ci dicono, ma ne abbiamo tutti una intuizione immediata: prima di tutto la coscienza ha coscienza di se stessa. Domandate alla prima persona che incontrerete, uomo o donna, psicologo o ignorante, e vi risponderà che si sente pensare, godere, soffrire, volere, nello stesso modo in cui si sente respirare.

Essa percepisce direttamente la sua vita spirituale come una specie di corrente interna, attiva, leggera, fluida, delicata, quasi diafana e assolutamente opposta a qualunque cosa materiale. Insomma la vita soggettiva non sembra esser soltanto una condizione logicamente indispensabile perché vi sia un mondo obiettivo che appaia, è anche un elemento dell’esperienza stessa che noi proviamo direttamente come sentiamo il nostro corpo.

Idee e Cose, come non riconoscere il loro dualismo? Sentimenti e Oggetti, come dubitare della loro assoluta eterogeneità?

La sedicente psicologia scientifica ammette questa eterogeneità come l’ammetteva l’antica psicologia spiritualista.

Come non ammetterla? Ogni scienza si taglia arbitrariamente nella trama dei fatti un campo in cui si chiude, e di cui studia e descrive il contenuto. La psicologia prende per suo dominio il campo dei fatti di coscienza. Essa li postula senza criticarli, li oppone ai fatti materiali; e, senza criticare neppure la nozione di questi ultimi, li lega alla coscienza col legame misterioso della conoscenza, della appercezione che, per essa, è un terzo genere di fatti fondamentali ed ultimi.

Seguendo questa strada la psicologia contemporanea ha celebrato grandi trionfi. Ha potuto fare un disegno dell’evoluzione della vita cosciente, concependo quest’ultima come adattantesi sempre piú completamente all’ambiente fisico. Ha potuto stabilire un parallelismo nel dualismo, quello dei fatti psichici e dei processi cerebrali. Essa ha spiegato le illusioni, le allucinazioni e, fino a un certo punto, le malattie mentali. Sono dei bei progressi, ma restano ancora parecchi problemi.

La filosofia generale soprattutto, che ha per dovere di scrutare tutti i postulati, trova dei paradossi e degli ostacoli là dove la scienza passa oltre: non ci sono che gli amanti della scienza popolare che non son mai perplessi. Piú si va in fondo alle cose e piú enigmi si trovano, ed io confesso per parte mia che da quando mi occupo seriamente di psicologia questo vecchio dualismo di materia e pensiero, questa eterogeneità posta come assoluta di due essenze, m’ha presentato sempre delle difficoltà, e di alcune di queste difficoltà vorrei appunto intrattenervi.

Prima di tutto ce n’è una la quale, ne son convinto, vi avrà colpiti tutti. Prendiamo la percezione esterna, la sensazione diretta che ci dànno, per esempio, le mura di questa sala. Si può dire qui che lo psichico e il fisico siano assolutamente eterogenei? Al contrario, sono cosí poco eterogenei che, se ci mettiamo dal punto di vista del senso comune, se facciamo astrazione da tutte le invenzioni esplicative, dalle molecole e dalle ondulazioni eteree, per esempio, che in fondo sono entità metafisiche, se, in una parola, prendiamo la realtà ingenuamente e come ci è data primitivamente, questa realtà sensibile da cui dipendono tutte le nostre azioni; ebbene questa realtà sensibile e la sensazione che ne abbiamo sono, nel momento in cui la sensazione si produce, assolutamente identiche l’una all’altra. La realtà è la stessa appercezione. Le parole “mura di questa sala” non significano che questa bianchezza fresca e sonora che ci circonda, interrotta da queste finestre, limitata da queste linee e questi angoli. Il fisico non ha altro contenuto che lo psichico. Soggetto e oggetto si confondono.

Berkeley è stato il primo a mettere in onore questa verità. Esse est percipi. Le nostre sensazioni non sono dei piccoli duplicati interni delle cose, sono le cose stesse in quanto le cose ci son presenti. E qualunque cosa si voglia pensare della vita assente, nascosta, e per dir cosí, privata, delle cose e qualunque siano le costruzioni ipotetiche che se ne facciano, resta vero che la vita pubblica delle cose, questa attualità presente per la quale ci vengono innanzi, da cui derivano tutte le nostre costruzioni teoriche, e alla quale debbono tutte tornare e ricongiungersi sotto pena di ondeggiare nell’aria e nell’ideale; questa attualità, dico, è omogenea, e non solo omogenea, ma numericamente una, con una certa parte della nostra vita interiore.

Ecco per la percezione esterna. Quando ci si rivolge all’immaginazione, alla memoria o alle facoltà di rappresentazione astratta, benché i fatti siano piú complicati, credo che appaia la stessa omogeneità essenziale. Per semplificare il problema escludiamo dapprima ogni realtà sensibile. Prendiamo il pensiero puro, come si effettua nel sogno o nella rêverie o nella memoria del passato. Qui pure la stoffa dell’esperienza non fa doppia parte, il fisico e lo psichico non si confondono? Se io sogno una montagna d’oro, essa non esiste fuori del sogno, ma nel sogno essa è di natura o di essenza perfettamente fisica, appare come fisica. Se in questo momento mi permetto di ricordare la mia casa in America, e i particolari del mio imbarco per l’Italia, il fenomeno puro, il fatto che si produce cos’è? È, dicono, il mio pensiero col suo contenuto. Ma questo contenuto cos’è? Ha la forma d’una parte del mondo reale, parte ch’è distante, è vero, seimila chilometri nello spazio e sei settimane nel tempo, ma legata colla sala in cui siamo per una quantità di cose, oggetti e avvenimenti, omogenei da una parte colla sala e dall’altra parte coll’oggetto de’ miei ricordi.

Questo contenuto non si dà come essendo dapprima un piccolo fatto interno che io proietterei dopo lontano: si presenta subito come il fatto lontano medesimo. E l’atto di pensare questo contenuto, la coscienza che ne ho, cosa sono? Sono, in fondo, altra cosa che delle maniere retrospettive di chiamare lo stesso contenuto, quando lo si sarà separato da tutti questi intermediari fisici, e collegato a un nuovo gruppo di associati che lo fanno rientrare nella mia vita mentale, ad esempio, le emozioni che hanno svegliato in me l’attenzione che vi dirigo, le mie idee di poco fa che l’hanno suscitato come ricordo. Solo riferendolo a questi ultimi associati il fenomeno vien classificato come pensiero; finché si riferiva ai primi resta fenomeno obbiettivo.

È vero che noi opponiamo abitualmente le nostre immagini interne agli oggetti, e che le consideriamo come piccole copie, come calchi o doppi indeboliti di questi ultimi. Un oggetto presente ha una vivacità e una nettezza superiore a quella dell’immagine. Gli fa pure contrasto e, per servirmi dell’eccellente parola di Taine, gli fa da riduttore. Quando i due sono presenti insieme, l'oggetto prende il primo piano e l’immagine “indietreggia”, diventa una cosa “assente”. Ma quest’oggetto presente cos’è lui stesso? Di quale stoffa è fatto? Della stessa stoffa dell’immagine. È fatto di sensazioni: è cosa percepita. Il suo esse è percipi, e lui, e l’immagine sono genericamente omogenei.

Se io penso in questo momento al mio cappello che ho lasciato ora in guardaroba, dov’è il dualismo, il discontinuo, fra il cappello pensato e il cappello reale? Il mio spirito si occupa di un vero cappello assente. Ne tengo conto praticamente come di una realtà. Se fosse presente su questa tavola il cappello determinerebbe un moto della mia mano, lo prenderei. Cosí pure questo cappello concepito, questo cappello idea, determinerà fra poco la direzione dei miei passi. Andrò a prenderlo. L’idea che ne ho continuerà fino alla presenza sensibile del cappello e si fonderà armoniosamente con essa.

Io concludo dunque, che, per quanto ci sia un dualismo pratico, poiché le immagini si distinguono dagli oggetti, ne tengono il posto, e ci conducono ad essi non e il caso di attribuire loro una differenza di natura essenziale. Pensiero e attualità son fatti di una sola e stessa stoffa, che è la stoffa dell’esperienza in generale.

La psicologia della percezione esterna ci porta alla stessa conclusione. Quando scorgo l’oggetto che m’è innanzi come una tavola di una data forma a una certa distanza, mi si spiega che questo fatto è dovuto a due fattori, a una materia di sensazione che mi penetra per la via degli occhi e che dà l’elemento d’esteriorità reale, e delle idee che si risvegliano, che vanno incontro a questa realtà, la classificano e l’interpretano. Ma chi può far la parte, nella tavola concretamente percepita, di ciò ch’è sensazione e di ciò ch’è idea? L’esterno e l’interno, l'esteso e l’inesteso si fondono e formano un matrimonio indissolubile. Ricorda quei panorami circolari in cui gli oggetti reali, rocce, erbe, carri rotti ecc. che occupano il primo piano, son cosí ingegnosamente congiunti colla tela che forma il fondo, e che rappresenta una battaglia o un vasto paesaggio, che non si sa distinguere quel ch’è oggetto e quel ch’è pittura. Le cuciture e le commessure sono impercettibili. Potrebbe avvenire ciò se l’oggetto e l’idea fossero assolutamente dissimili di natura?

Son convinto che considerazioni simili a queste che ho espresse avranno già suscitato, anche in voi, dei dubbi rispetto al preteso dualismo.

E sorgono anche altre ragioni di dubbio. C’è tutta una sfera di aggettivi e di attributi che non sono né oggettivi né soggettivi in un modo esclusivo, ma che noi impieghiamo ora in un modo, ora in un altro, come se ci compiacessimo nella loro ambiguità. Io parlo delle qualità che noi apprezziamo, per dir cosí, nelle cose, il loro lato estetico, morale, il loro valore per noi. La bellezza, per esempio, in cosa risiede? È nella statua, nella sonata o nel nostro spirito? Il mio collega di Harvard, Giorgio Santayana ha scritto un libro di estetica, in cui chiama la bellezza “il piacere obiettivato” e veramente è proprio qui che si potrebbe parlare di proiezioni al di fuori. Si dice indifferentemente un calore gradevole o una sensazione gradevole di calore. La rarità, la preziosità del diamante ci sembrano le sue qualità essenziali. Noi parliamo d’un uragano terribile, d’un uomo odioso, d’un’azione indegna e crediamo di parlare obiettivamente benché questi termini non esprimano che dei rapporti colla propria sensibilità emotiva.

Noi diciamo anche un cammino penoso, un cielo triste, un tramonto superbo. Tutto questo modo animistico di guardare le cose che sembra essere stato il modo primitivo di pensare degli uomini, si può spiegare benissimo (e G. Santayana in un altro libro recente l’ha ben spiegato cosí) coll’abitudine di attribuire all’oggetto tutto ciò che noi risentiamo in sua presenza.

La divisione di soggettivo e oggettivo è il frutto di una riflessione molto avanzata, che ci piace di sospendere ancora in parecchi casi. Quando i bisogni pratici non ci forzano sembra che ci piaccia di cullarci nel vago.

Le stesse qualità seconde, calore, suono, luce, non hanno anche oggi che un’attribuzione vaga. Per il senso comune, per la vita pratica, sono assolutamente obiettive, fisiche; per il fisico son soggettive. Per lui non c’è che la forma, la massa, il moto che abbiano una realtà esterna. Per il filosofo idealista, al contrario, forma e moto sono soggettivi come la luce e il calore, non c’è che la cosa in sé sconosciuta, il “noumeno”, che goda di una esistenza extramentale completa.

Le nostre sensazioni intime conservano ancora un po’ di questa ambiguità. Vi sono delle illusioni di movimento che provano che le nostre prime sensazioni di movimento eran generalizzate. Il mondo intero si muoveva con noi. Ora distinguiamo il nostro proprio movimento da quello degli oggetti che ci circondano, e fra gli oggetti ne distinguiamo di quelli che restano fermi. Ma vi sono degli stati di vertigine nei quali, anche oggi, ricadiamo nella primitiva indifferenziazione.

Voi conoscete certo tutti quella teoria che ha voluto fare delle emozioni delle somme di sensazioni viscerali e muscolari. Essa ha dato origine a molte dispute e nessuna opinione ha conquistato ancora l’unanimità dei suffragi. Voi conoscete pure le discussioni sulla natura dell’attività mentale. Gli uni sostengono ch’è una forza puramente spirituale che possiamo percepire immediatamente come tale. Gli altri pretendono che ciò che chiamiamo attività mentale (sforzo, attenzione, per esempio) non è che il riflesso sentito di certi effetti di cui il nostro organismo è la sede, tensioni muscolari al cranio o alla gola, arresto o passaggio della respirazione, afflusso di sangue, ecc.

In qualunque modo si risolvano queste questioni la loro esistenza prova chiaramente una cosa! cioè ch’è molto difficile o assolutamente impossibile sapere, con la sola ispezione intima di certi fenomeni che sono di materia fisica, estesi, ecc., o se sono di natura puramente psichica e interna. Bisogna trovar sempre delle ragioni per giustificare il nostro parere; bisogna cercare la classificazione piú probabile del fenomeno, e infine potrebbe benissimo anche darsi che tutte le nostre classificazioni usuali avessero i loro motivi piuttosto nei bisogni della pratica che in qualche facoltà che noi abbiamo di percepire due essenze ultime e diverse che comporrebbero insieme la trama delle cose. Il corpo di ciascuno di noi offre un contrasto pratico, quasi violento, a tutto il resto dell’ambiente. Tutto ciò che accade nel corpo è per noi piú intimo e importante di quel che accade altrove. S’identifica col nostro me, si classifica con lui. Anima, vita, soffio, chi potrebbe distinguerli esattamente? Ma le nostre immagini e i nostri ricordi, che non agiscono sul mondo fisico che per mezzo del nostro corpo, sembrano appartenere a quest’ultimo. Noi li trattiamo come interni, li classifichiamo coi nostri sentimenti affettivi. Bisogna ben confessare, insomma, che la questione del dualismo del pensiero e della materia è ben lungi dall’esser risolta.

Quanto a me, dopo lunghi anni di esitazione, ho finito per prendere risolutamente il mio partito. Io credo che la coscienza, come ci si rappresenta comunemente, sia come entità, sia come attività pura, ma in ogni caso come fluida, inestesa, diafana, vuota di ogni contenuto proprio, ma conoscentesi direttamente essa stessa, spirituale infine, io credo, dico, che questa coscienza è una pura chimera, e che la somma di realtà concrete che la parola coscienza dovrebbe ricoprire, merita un’altra descrizione, descrizione, del resto, che una filosofia attenta ai fatti, e abile a fare un po’ d’analisi, potrebbe ormai fornire o piuttosto cominciare a fornire.

Ammettiamo che la coscienza, la Bemusstheit, concepita come essenza, entità’ attività, metà invincibile di ogni esperienza, sia soppressa, che il dualismo fondamentale e, per cosí dire, ontologico sia abolito e che ciò che noi supponevamo esistere sia soltanto ciò che s’è chiamato fin qui il contenuto, der Inhalt, della coscienza; come se la caverà la filosofia con la specie di monismo vago che ne resulterà? Io cercherò d’insinuare su ciò qualche suggestione positiva, per quanto tema che, per mancanza dello svolgimento necessario, le mie idee non porteranno gran lume. Ma se indicherò un principio di sentiero sarà forse abbastanza.

In fondo perché ci aggrappiamo cosí tenacemente all'idea di una coscienza sovrapposta all’esistenza del contenuto delle cose? Perché la esigiamo cosí fortemente, che colui che la negasse ci sembrerebbe piuttosto un burlone che un pensatore? Non è per salvare il fatto innegabile che il contenuto dell’esperienza non ha soltanto un’esistenza propria e come immanente e intrinseca, ma che ciascuna parte di questo contenuto si scarica, per cosí dire, sulle sue vicine, rende conto di se stessa ad altre, esce in qualche modo da sé per esser saputa, e che cosi tutto il campo dell’esperienza è trasparente da parte in parte, o costituito come uno spazio che sarebbe pieno di specchi?

Questa bilateralità delle parti dell’esperienza – cioè da una parte l’avere esse delle qualità proprie, e d’altra parte l’esser riferite ad altre parti e sapute – l'opinione regnante la constata e la spiega con un dualismo fondamentale di costituzione appartenente a ciascun pezzo di esperienza in proprio. In questo foglio di carta non c’è soltanto, si dice, il contenuto, bianchezza, sottigliezza ecc., ma c’è anche questo secondo fatto della coscienza di questa bianchezza e di questa sottigliezza.

Questa funzione di essere “riferito”, di far parte della trama intera di un’esperienza piú comprensiva, la si erige in fatto ontologico, e si mette questo fatto nell’interno stesso della carta, accoppiandolo colla sua bianchezza e la sua sottigliezza. Non si suppone un rapporto estrinseco, ma una metà del fenomeno stesso.

Io credo insomma che ci si rappresenta la realtà come costituita a guisa dei “colori” che ci servono per la pittura. Vi sono dapprima delle materie coloranti che corrispondono al contenuto, e c’è un veicolo, olio o colla, che le tiene sospese e risponde alla coscienza. È un dualismo completo in cui impiegando certi processi, si può separare ciascun elemento dall’altro per via di sottrazione. Cosí ci assicurano che, facendo un grande sforzo di astrazione introspettiva, possiamo afferrare la nostra coscienza sul vivo, come un’attività spirituale pura, trascurando quasi completamente le materie che rischiara a un dato momento.

Ora io vi domando se non si potrebbe rovesciare assolutamente questo modo di vedere. Supponiamo, infatti, che la realtà prima sia di natura neutra, e chiamiamola con qualche nome ancora ambiguo, come fenomeno, dato, Vorfindung. Io ne parlo volentieri al plurale, e le dò il nome di esperienze pure. Sarà un monismo, se volete, ma un monismo rudimentale e assolutamente opposto al sedicente nomismo bilaterale del positivismo scientifico o spinozista.

Queste esperienze pure esistono e si succedono, entrano in rapporti infinitivamente variati le une colle altre, rapporti che sono essi stessi parti essenziali nella trama delle esperienze. C’è una “coscienza” di questi rapporti allo stesso modo come c’è una coscienza dei loro termini. Ne risulta che dei gruppi d’esperienze si fanno notare e distinguere, e che una sola e medesima esperienza, vista la grande varietà dei suoi rapporti, può fare una parte in parecchi gruppi nello stesso tempo. Cosí in un certo contesto di vicini, sarebbe classificata come un fenomeno fisico, mentre in un’altra compagnia figurerebbe come un fatto di coscienza, all’incirca come una stessa particella d’inchiostro può appartenere simultaneamente a due righe, una verticale e una orizzontale, purché si trovi alla loro intersezione.

Prendiamo, per fissare le nostre idee, l'esperienza che abbiamo in questo momento del luogo in cui siamo, di questi muri, di questo spazio. In questa esperienza piena, concreta e indivisa, com’è, data, il mondo fisico obiettivo e il mondo interno e personale di ciascuno di noi s’incontrano e si fondono come delle linee si fondono alla loro intersezione. Come cosa fisica questa sala ha dei rapporti con tutto l’insieme dell’edificio, edificio che noi non conosciamo e non conosceremo. Essa deve la sua esistenza a tutta una storia di finanzieri, di architetti, di operai. Essa pesa sul suolo; essa durerà indefinitamente nel tempo; se il fuoco vi scoppiasse le sedie e la tavola che contiene sarebbero rapidamente ridotte in cenere.

Come esperienza personale, al contrario, come cosa “riferita”, conosciuta, cosciente, questa sala ha tutt’altre relazioni nel passato e nel futuro. I suoi antecedenti non sono degli operai, ma sono i nostri rispettivi pensieri di poco fa. Ben tosto essa non figurerà che come un fatto fuggitivo nelle nostre biografie, associato a piacevoli ricordi. Come esperienza psichica non ha nessun peso e il suo arredamento non è combustibile. Essa non esercita influenza fisica che sui nostri cervelli e molti fra noi negano questa influenza; mentre la sala fisica è in rapporto d’influenza fisica con tutto il resto del mondo.

E nonostante nei due casi si tratta assolutamente della stessa sala Finché non facciamo della fisica speculativa, finché restiamo nel senso comune, è la sala vista e sentita ch’è la sala fisica. Di cosa parliamo noi dunque se non di ciò, di questa stessa parte della natura materiale che tutti i nostri spiriti, in questo stesso momento, abbracciano, che entra cosí com’è nell’esperienza attuale e intima di ciascuno di noi, e che il nostro ricordo considererà sempre come una parte integrante della nostra storia. È assolutamente una stessa stoffa che figura simultaneamente, secondo il contesto che si considera, come fatto materiale e fisico, o come fatto di coscienza intima.

Io credo dunque che non si può trattare coscienza e materia come cose di essenza disparata. Non si ottiene né l’una né l’altra per sottrazione, tralasciando ogni volta l’altra metà d’una esperienza di composizione doppia. Le esperienze sono al contrario primitivamente di natura piuttosto semplice. Esse divengono coscienti nel loro intero, diventano fisiche nel loro intero, e questo resultato si ottiene per via d’addizione. In quanto certe esperienze si prolungano nel tempo, entrano in rapporti di influenza fisica, rompendosi, scaldandosi, rischiarandosi ecc. mutualmente, noi ne facciamo un gruppo a parte che chiamiamo il mondo fisico. In quanto, invece, son fuggevoli, fisicamente inerti, senza un ordine determinato di successione ma sembrano piuttosto obbedire a dei capricci emotivi noi ne facciamo un altro gruppo che chiamiamo il mondo psichico. Entrando in un gran numero di questi gruppi psichici questa sala diventa ora una cosa cosciente, cosa riferita, cosa saputa. Facendo parte oramai delle nostre rispettive biografie, non sarà seguita da quella sciocca e monotona ripetizione di se stessa nel tempo che caratterizza la sua esistenza fisica. Sarà seguita invece da altre esperienze che saranno discontinue con lei, o che avranno quel genere tutto particolare di continuità che si chiama ricordo. Domani avrà il suo posto in ciascuno dei nostri passati; ma i presenti diversi, ai quali tutti questi passati saranno legati domani, saranno ben differenti dal presente di cui godrà domani questa sala come entità fisica.

I due generi di gruppi sono formati d’esperienze ma i rapporti di queste esperienze fra loro differiscono da un gruppo all’altro. È dunque per addizione di altri fenomeni che un fenomeno dato diviene cosciente o conosciuto, non è per uno sdoppiamento di essenza interna. La conoscenza delle cose sopravviene loro, non è a loro immanente. Non si tratta né di un io trascendentale né di una Bewusstheit o atto di coscienza che le animerebbe ciascuna. Esse si conoscono l’una coll’altra, o piuttosto ce ne sono di quelle che conoscono le altre, e il rapporto che chiamiamo conoscenza non è lui stesso, in molti casi, che una serie di esperienze intermedie suscettibili di esser descritte in termini concreti. Non è affatto il mistero trascendente di cui si son compiaciuti tanti filosofi.

Ma questo ci porterebbe molto lungi. Io non posso entrare qui in tutti gli intrighi della teoria della conoscenza o di quella che voialtri italiani chiamate gnoseologia. Io debbo contentarmi di queste note brevi e suggestive e, lo temo, molto oscure senza i loro sviluppi necessari.

Permettetemi dunque che io mi riassuma, troppo sommariamente, e in stile dogmatico, nelle sei tesi seguenti.

1. La coscienza, come viene intesa ordinariamente, non esiste affatto, non piú che la materia alla quale Berkeley dette il colpo di grazia.

2. Ciò che esiste, e forma la parte di verità che la parola “coscienza” ricopre, è la suscettibilità che posseggono le parti dell’esperienza di esser riferite o conosciute.

3. Questa suscettibilità si spiega col fatto che certe esperienze possono condurre le une alle altre per mezzo di esperienze intermedie nettamente caratterizzate in tal modo che le une fanno la parte di cose conosciute e le altre quella di soggetti che conoscono.

4. Si possono definire perfettamente queste due parti senza uscire dalla trama dell’esperienza, e senza invocare nulla di trascendente.

5. Le attribuzioni soggetto e oggetto, rappresentato e rappresentativo, cosa e pensiero, significano dunque una distinzione pratica ch’è di grande importanza ma ch’è di ordine “funzionale soltanto, e niente affatto ontologico come la rappresenta il dualismo classico.

6. Infine le cose e i pensieri non sono fondamentalmente eterogenei ma sono d’una stessa stoffa, stoffa che non si può definire ma soltanto provare, e che si può chiamare, se si vuole, la stoffa dell’esperienza in generale.

 

L. Mecacci, Introduzione alla psicologia, Laterza, Bari, 1994, pagg. 121-133