James, Sulla morale e sulla religione

La fonte di questa lettura di James è evidentemente Pascal, che il filosofo americano reinterpreta con notevole acume, soprattutto quando osserva che evitare la “scommessa” è già uno scommettere e non credere è ugualmente un credere, sia pure in direzione opposta.

 

W. James, The Will to believe and other Esseys [La volontà di credere e altri saggi], in Popular Philosophy, Longmans, Green and Co., New York-London, 1897; trad. it. di G. A. Roggerone nell’antologia jamesiana Aspetti essenziali del pragmatismo, Milella, Lecce, 1967, pagg. 91, 100-108

 

Le questioni morali si presentano immediatamente come questioni, la soluzione delle quali non può aspettare prove sensibili. Un problema morale è problema non di ciò che esiste sensibilmente, ma di quello che è bene o che sarebbe bene se fosse. La scienza può dirci ciò che esiste; ma per pesare i valori di ciò che esiste e di ciò che non esiste, non dobbiamo consultare la scienza, ma quello che Pascal chiama il nostro cuore. La scienza stessa consulta il suo quanto afferma che l’accertamento continuo dei fatti e la correzione delle false opinioni sono i beni supremi dell’uomo. Opponetevi a tutto ciò, e la scienza potrà solo ripetervelo come un oracolo, oppure provarlo mostrando che da codesto accertamento e da codesta correzione delle opinioni deriva tutto quello che il cuore dell’uomo riconosce come bene. Il problema se dobbiamo avere credenze morali o no è deciso dalla volontà. Le nostre preferenze morali sono vere o false oppure sono solo fenomeni biologici singolari, che rendono le cose buone o cattive per noi, nonostante esse restino in sé indifferenti? Come potrebbe decidere il nostro puro intelletto? Se il vostro cuore non sente bisogno di una realtà morale, non sarà certo la vostra testa che vi farà credere in essa. In realtà, lo scetticismo mefistofelico appaga gli istinti frivoli dell’intelletto assai meglio di ogni severo idealismo. Certi uomini (fino dall’epoca dei loro studi giovanili) sono naturalmente cosí freddi che le ipotesi morali non arrivano mai a interessarli vivamente: alla loro presenza contegnosa, l’ardente giovane moralista non si sente assolutamente a suo agio. Dalla loro parte è l’apparenza della sicurezza intellettuale; dalla sua quella della naïveté, della credulità. Nel suo cuore ingenuo, tuttavia, questi sente profondamente di non essere in errore e che esiste un regno nel quale (come dice Emerson) tutto il loro acume e la loro superiorità intellettuale non valgono di piú della scaltrezza della volpe. Lo scetticismo morale non può essere confutato o provato mediante la logica piú di quanto non lo possa lo scetticismo intellettuale. Quando affermiamo che esiste la verità (sia di una specie o di un’altra), lo facciamo con la totalità di noi stessi e, a seconda dei risultati, riusciamo a confermarci nella nostra credenza o a ritirarci da essa. Lo scettico in tal modo adotta l’atteggiamento di dubbio con tutto se stesso; ma di noi sia piú saggio lo sa soltanto l’Onniscienza [...].

Nelle verità dipendenti dalla nostra azione individuale, la fede fondata sul desiderio è quindi certamente un elemento legittimo e forse necessario.

A questo punto, però, si dirà che finora si è trattato solo di fatti umani puerili, i quali non hanno alcun rapporto con i grandi problemi cosmici, come, per esempio, con la questione della fede religiosa.

Esaminiamo dunque tale questione. Le religioni si differenziano talmente nei loro particolari, che, discutendo il problema religioso, è giocoforza tenersi sulle generali. Che cosa si intende per ipotesi religiosa? La scienza ci dice che le cose sono; la morale ci dice che certe cose sono migliori di certe altre; la religione ci dice essenzialmente due cose.

Primo, che le cose migliori sono le cose eterne, le cose piú alte, le cose che mettono l’ultima pietra, per cosí dire, all’edificio dell’universo e dicono l’ultima parola. “La perfezione eterna” – questa frase di Carlo Secrétan mi pare che esprima bene la prima affermazione della religione, affermazione che, come è naturale, non può essere verificata scientificamente in alcun modo.

La seconda affermazione della religione è che, se crediamo alla verità della prima affermazione, siamo già molto migliori.

Esaminiamo ora gli elementi logici di questa situazione, considerando il caso che l’ipotesi religiosa sia realmente vera in tutti e due i suoi punti. (Naturalmente dobbiamo cominciare con l’ammettere questa possibilità. Il dover discutere o meno questo problema comporta una scelta viva. E se per qualcuno di voi la religione è ipotesi priva di ogni possibilità viva di essere vera, questi non ha bisogno di occuparsene ulteriormente. Io parlo solamente per gli altri). Noi vediamo allora, anzitutto, che la religione si presenta come una scelta importante. Sappiamo che per mezzo della fede ci acquistiamo fin d’ora un certo bene vitale e che, invece, se non crediamo, lo perdiamo. La religione, inoltre, è una scelta inevitabile per il valore di quel bene. Non possiamo evitare la decisione, restando scettici e aspettando lumi ulteriori, poiché, se anche in questa guisa evitiamo l’errore nel caso che la religione non sia vera, invece, nel caso che sia vera, perdiamo quel bene con altrettanta certezza che se avessimo addirittura deciso di non credere affatto. È come se uno esitasse all’infinito a chiedere in moglie una donna, perché non è perfettamente sicuro che, quando l’avrà condotta nella sua casa, sarà un angelo. Non si escluderebbe, in questo modo, da quella particolare possibilità angelica in guisa altrettanto decisa che se egli sposasse un’altra donna? Lo scetticismo, insomma, non serve per evitare la scelta: esso è scelta di un particolare tipo di rischio. Meglio rischiare la perdita della verità che la possibilità dell’errore – questa è la posizione precisa di colui che non ammette la fede. Questi mette in gioco la sua posta allo stesso modo del credente; e si schiera contro l’ipotesi religiosa proprio allo stesso modo che il credente si schiera a favore dell’ipotesi religiosa contro la mancanza di fede. Perciò, predicarci lo scetticismo come un dovere fino a quando non si sia trovata “la prova sufficiente” della religione equivale a dirci che, innanzi all’ipotesi religiosa, è piú saggio ed è meglio cedere al timore che essa non sia altro che un errore, anziché cedere alla speranza nella sua verità. Non si tratta, dunque, dell’intelletto contro tutte le passioni, ma, invece, dell’intelletto unito a una passione, che vuole imporre 1a sua legge. Ma da che cosa è garantita, in verità, la suprema saggezza di codesta passione? Inganno per inganno, quale prova esiste che l’inganno della speranza sia di gran lunga peggiore dell’inganno del timore? Per conto mio, questa prova non la vedo e rifiuto di obbedire all’ingiunzione dello scienziato di seguire il suo tipo di scelta in un caso in cui come in questo, la mia posta è talmente importante da autorizzarmi a scegliere il tipo di rischio che preferisco. Se la religione è vera e le sue prove sono ancora insufficienti io non voglio, per il semplice fatto che mi imponete il vostro divieto (cosa nella quale, in fin dei conti, mi pare che dovrei entrarci un poco anch’io), non voglio, dico, perdere l’unica possibilità che ho nella vita di mettermi dalla parte dei vincitori – in quanto questa possibilità dipende, ovviamente, dalla mia disposizione a correre il rischio di agire come se il mio bisogno passionale di prendere il mondo religiosamente sia profetico e giusto.

Tutto ciò nell’ipotesi che esso possa essere realmente giusto e profetico e che, anche per noi che stiamo discutendo sull’argomento, la religione, costituisca un’ipotesi viva, suscettibile di essere vera.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. I, pagg. 656-657