Jaspers, I vecchi rapporti fra scienza e filosofia

Secondo Jaspers il lungo periodo di appiattimento della filosofia sulla scienza si è interrotto per la critica che la scienza stessa ha esercitato sulle sue precedenti certezze. Ciò è avvenuto a partire dalla fine del secolo scorso.

 

K. Jaspers, Existenzphilosophie. Drei Vorlesungen, Berlin 1938, trad. it. di O. Abate, La filosofia dell’esistenza, Bompiani, Milano, 19674, pagg. 19-25

 

Io sono invitato a parlare della “filosofia dell’esistenza”; la filosofia, oggi va in gran parte sotto questo nome, che giova a porre in evidenza l’elemento discriminante dell’attuale movimento filosofico.

Ciò che si denomina “filosofia dell’esistenza” è in verità soltanto una forma dell’unica, antichissima filosofia. Tuttavia che “esistenza” sia divenuta oggi la parola caratteristica non è un fatto accidentale. Essa ha accentuato quella che è la mira – e per qualche tempo fu quasi obliata – della filosofia: sorprendere la realtà alla sua origine e afferrarla alla stessa guisa con cui mediante un processo di autoriflessione, io, nell’intimità della mia azione, riesco a cogliere me stesso. L’attività filosofica ha voluto ritrovare la via verso la realtà, svincolandosi da un sapere semplicistico e parziale, da modi di dire, da convenzionalismi, da atteggiamenti prefissati e da ogni specie di presupposti. Esistenza è una delle parole che sta per “realtà” con l’accento datole da Kierkegaard tutto ciò che è essenzialmente reale esiste per me solo in quanto io stesso certissimamente sono. Né noi ci limitiamo a essere, la nostra esistenza ci è affidata come sede e come forma corporea per la realizzazione della nostra originaria individualità.

Già nel secolo scorso si rinnovavano frequentemente movimenti in questo senso. Si voleva vivere la vita, si volevano fare esperienze vitali, si esigeva il realismo; importava, anziché limitarsi a sapere, esperimentare da se stessi; si esigeva dovunque l’autentico, si indagavano le origini e si voleva penetrare nell’intimità stessa dell’Essere umano.

Le forme superiori d’umanità furono facilmente poste in luce; poi si cercò di scoprire “il vero” e soprattutto “l’esistente” fin nelle forme minori.

A datare da un secolo, l’aspetto dell’epoca nostra, considerata nel suo complesso, trovava la sua caratteristica in un processo di livellamento, di meccanicizzazione e di misurazione di codesta esistenza, e sovra il principio di un’universale equivalenza di tutto, in cui nessuno sembrava piú esistere come individualità, ma proprio codesto aspetto era il fondo dal quale doveva sgorgare il rinnovamento. Gli uomini cui era possibile di essere sé stessi si erano destati in quella atmosfera spietata che aveva negato la personalità individuale proprio in quanto individuale; essi volevano prendere sul serio sé stessi, cercavano la realtà nascosta, volevano sapere ciò che si può sapere, ritenevano di poter giungere, attraverso la comprensione di sé stessi, alla loro natura originaria.

Ma anche tale movimento di pensiero fu spesso ravvolto nell’ingannevole rete del livellamento, tramutandosi in una tumultuosa e patetica filosofia del sentimento e della vita. La volontà di riconoscere il proprio essere si pervertí in una soddisfazione per la pura vitalità; la volontà dell’originario in una smania di primitività, il senso per il rango in un tradimento per le gerarchie autentiche dei valori.

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Al tramontar del secolo scorso la filosofia si considerava per lo piú come una scienza fra le altre. Essa era una disciplina universitaria, ed era considerata dalla gioventú un aspetto della cultura: conferenze brillanti davano visioni panoramiche della sua storia, delle sue dottrine, dei suoi problemi e sistemi. Vaghi sentori di una indefinita libertà e verità, spesso assolutamente privi di contenuto (poiché a malapena efficaci nella vita concreta), si univano alla fede nel progresso della conoscenza filosofica.

Il pensatore procedeva innanzi, ed era persuaso talvolta di aver raggiunto la vetta suprema del sapere.

Questa filosofia non sembrava però aver fiducia in se stessa. Il rispetto illimitato dell’epoca per le scienze sperimentali lasciò che queste si costituissero a modello del sapere. La filosofia volle riguadagnare innanzi al tribunale delle scienze la stima perduta, procedendo con una esattezza simile alla loro. Tutti gli oggetti dell’indagine scientifica erano in verità spartiti fra le scienze speciali; tuttavia la filosofia volle avere una giustificazione accanto a queste, perciò essa assunse la totalità empirica a suo oggetto scientifico; p. es. elaborò il conoscere nella sua totalità in una Teoria della conoscenza (ché, il fatto stesso della scienza non era in generale soggetto di una scienza particolare), la totalità cosmica in una Metafisica, la quale fu ideata in analogia alle teorie delle scienze sperimentali e con il loro sussidio e la totalità dei valori umani in una dottrina dei valori di validità universale. Tutti questi argomenti apparvero oggetti di studio, oggetti che non appartenevano a nessuna scienza speciale e ciò nondimeno erano accessibili a una indagine da praticarsi con mezzi scientifici. Tuttavia l’atteggiamento fondamentale proprio a tutto questo movimento di pensiero diede un’impressione di ambiguità, giacché esso era da un lato scientifico-obiettivo, ma dall’altro etico-valutativo. Esso cioè poteva pensare di stabilire un’armonica concordanza fra le esigenze del sentimento e i risultati della scienza e asserire di poter comprendere, in modo obiettivo, le possibili visioni e valori del mondo; ma pretendeva nel tempo stesso di dare esso medesimo la vera visione del mondo, ossia la visione scientifica.

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Ma se ci si rivolse alle scienze, come se in loro fosse contenuta la vera filosofia, come se dovessero dare ciò che invano si era cercato nella filosofia, furono però possibili tipici errori: infatti si voleva una scienza che affermasse quale fosse il fine della vita, una scienza valutatrice; si voleva dedurre dalle scienze la norma dell’azione; si pretendeva sapere, per mezzo della scienza, quale fosse il contenuto della fede, la quale riguardasse però cose immanenti al mondo. O, viceversa, si disperava della scienza perché non dava quello che importava alla vita, e ancor piú perché la riflessione critica paralizzava la vita. Cosí l’atteggiamento ondeggiò tra una superstizione scientifica, che erigeva a principi assoluti dei risultati immaginari, e una ostilità contro la scienza, la quale negava la scienza come vuota di senso e la combatteva come distruttiva. Tuttavia queste aberrazioni non penetrarono in profondità, sorsero infatti nelle scienze stesse le forze che dovevano dominarle col portarle alla purificazione del sapere come puro sapere.

Poiché se nelle scienze si affermava troppo là dove mancava la prova, e le teorie, determinanti i vari quadri della realtà, erano con troppa certezza insegnate come se fossero conoscenze assolute della realtà stessa, se troppe affermazioni erano assunte come valide senza critica sufficiente, p. es. l’ipotesi fondamentale del meccanismo della natura, e molte tesi anticipatrici dei fenomeni, come per esempio la teoria della necessità constatabile degli eventi storici, se dunque in tal modo la filosofia difettosa, che a suo tempo era stata abbandonata, era risorta – in una forma ancora piú difettosa – nelle scienze medesime, pur tuttavia ciò che era veramente grandioso e che rinfrancava gli spiriti era il fatto che nella scienza stessa la critica agisse efficacemente; né era il circolo vizioso di una polemica filosofica tendente all’unificazione, bensí era una critica valida che andava fissando passo per passo le verità per tutti. Questa critica distruggeva le illusioni per determinare in tutta purezza quello che è veramente conoscibile.

Frattanto accaddero i grandi avvenimenti scientifici che spezzarono ogni dogmatica; al principio del secolo, insieme alla scoperta della radio-attività e con i principi della teoria dei “quanta”, cominciò ad apparire il limite della validità razionale della rigida concezione meccanica della natura. Si iniziò quello sviluppo fecondo di idee che continuò fino a oggi, idee che non si chiusero piú nelle strettoie di una natura in sé esistente e cognita. L’alternativa, che negli anni precedenti si era posta, o di riconoscere la realtà della natura in sé o di operare con pure finzioni e di descrivere i fenomeni naturali nella forma piú semplice possibile, divenne insostenibile: ci si allontanò da ogni posizione di pensiero assoluto e ci si trovò cosí proprio alle soglie della realtà sperimentabile.

L’analogo fenomeno accadde nelle scienze speciali, ma ovunque in modo assai meno impressionante: ogni premessa assoluta divenne fragile. Cosí p. es. nella psichiatria il dogma del XIX  sec.: “Le malattie psichiche sono malattie del cervello” venne messo in dubbio. Lo sviluppo di un sapere concreto in luogo di una costruzione quasi mitologica dei disturbi mentali, in funzione di mutamenti del cervello completamente sconosciuti, si effettuò proprio in quanto si rinunciò al dogma unitario. La ricerca mirò a riconoscere fino a quale estensione le malattie mentali siano malattie cerebrali, e si imparò ad astenersi da un giudizio generale anticipatore: l’uomo non fu colto nel suo vero essere, mentre si ampliò straordinariamente la conoscenza concreta dell’uomo. [...]

Tali esperienze nella scienza hanno insegnato la possibilità di un sapere veramente preciso e concreto, e nel tempo stesso l’impossibilità di trovare nella scienza ciò che si era invano atteso dalla filosofia d’allora. Colui che aveva cercato nella scienza il fondamento della sua vita, la guida delle sue azioni, la realtà stessa, dové essere deluso.

E fu necessario ritrovare la via della filosofia.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II, pagg. 308-311