In questa
lettura Jonas prende in considerazione non il rapporto fra ciò che abbiamo
fatto e le nostre responsabilità, ma la responsabilità in rapporto a ciò che
dobbiamo fare (e abbiamo il potere di farlo).
H. Jonas, Il principio responsabilità
Esiste però ancora un concetto complementare diverso di responsabilità che non riguarda la resa dei conti ex-post-facto per quanto è stato compiuto ma la determinazione del da-farsi, rispetto al quale io mi sento responsabile in primo luogo non per il mio comportamento e le sue conseguenze, bensí per la causa che m’impone di agire. Ad esempio, la “responsabilità” per il benessere altrui non si limita a “selezionare” propositi di azione dati in vista della loro ammissibilità morale, ma obbliga ad azioni che non sono progettate per nessun altro scopo.
[...]
Il “per che cosa” si trova fuori, di me, anche se nell’ambito di influenza del mio potere, e ne dipende nel bene e nel male. Il “per che cosa” contrappone al mio potere il suo diritto di esistere a partire da ciò che è o può essere, e assoggetta il potere mediante la volontà morale. La causa diventa mia, poiché il potere è mio e ha una relazione causale proprio con lei. Ciò che è dipendente nel suo diritto autonomo acquista potere normativo, ciò che è potente nella sua causalità viene sottoposto a obbligazione. Il potere diventa oggettivamente responsabile per ciò che in quel modo gli viene affidato, e vi si impegna affettivamente mediante la presa di posizione del senso di responsabilità: nel sentimento ciò che è vincolante viene a legarsi alla volontà soggettiva. Ma la presa di posizione del sentimento non ha la sua origine prima nell’idea di responsabilità tout court ma nel riconoscimento della bontà peculiare della causa, nel modo in cui essa influenza il sentire e umilia il puro egoismo del potere. In primo luogo viene il “dover essere” (Seinsollen) dell’oggetto, in secondo luogo, il “dover fare” (Tunsollen) del soggetto chiamato ad averne cura. L’esigenza dell’oggetto da un lato, nell’assenza di garanzie della sua esistenza, e la coscienza morale del potere dall’altro, nella colpevolezza della sua causalità, si fondono nel senso affermativo di responsabilità del soggetto attivo, che già da sempre interferisce nell’essere delle cose. Se vi si aggiunge l’amore, la responsabilità viene elevata dalla dedizione della persona che impara a temere per la sorte di chi è degno di esistere e di essere amato.
Quando oggi parliamo della necessità di un’etica della responsabilità futura intendiamo proprio questo tipo di responsabilità e di senso della responsabilità, non la vuota “responsabilità” formale di ogni agente per la sua azione. Dovremo metterla a confronto con il principio motivazionale dei precedenti sistemi morali e delle loro teorie. Empiricamente ci avvicineremo nel modo migliore a questo concetto sostanziale, finalistico, della responsabilità, se ci chiederemo che cosa si può intendere con “agire irresponsabile” (visto che possiamo affermare senza contraddizione, sulla base dei due differenti concetti di responsabilità, che si è responsabili anche per le azioni piú irresponsabili). In questo caso andrà però escluso il senso formalistico di “irresponsabile” = privo della capacità di rispondere di qualcosa e perciò tale da non poter essere ritenuto responsabile.
H. Jonas, Il principio responsabilità,
Einaudi, Torino, 1990, pagg. 117-118