Nell’esaminare il rapporto tra la sua “psicologia analitica e la visione del mondo che essa propone, Jung si richiama alla necessità di superare la concezione unilaterale dell’uomo e del mondo che emerge dalla psicoanalisi freudiana, influenzata dal materialismo razionalista di fine ottocento; essa ha inoltre proposto una visione limitata e insufficiente dell’inconscio – come sede dei contenuti rimossi dalla coscienza –, in cui è invece necessario riconoscere secondo Jung un’attività positiva e produttiva che crea contenuti nuovi e autonomi che influiscono sulla vita spirituale dell’individuo; accanto all’inconscio personale si deve inoltre ammettere l’esistenza di un inconscio collettivo ereditato dall’umanità i cui contenuti, gli archetipi, si ritrovano nei miti, nella religione, nella cultura dei popoli.
C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia
moderna
Mi
accingo ora a discutere il problema dei rapporti fra psicologia analitica e
visione del mondo, e lo farò appunto ponendomi nel punto di vista che sopra ho
spiegato, cioè domandandomi per prima cosa: le conoscenze della psicologia
analitica aggiungono qualche cosa di nuovo alla nostra visione del mondo oppure
no? Per trattare con profitto questa questione dobbiamo anzitutto sapere che
cosa sia la psicologia analitica. Io indico con questo nome un particolare
indirizzo della psicologia, che si occupa principalmente dei cosiddetti
fenomeni contrariamente alla psicologia fisiologica o sperimentale, che tende a
risolvere i fenomeni complessi nei loro elementi. Chiamo “analitico” questo
indirizzo della psicologia perché esso si è sviluppato dalla “psicoanalisi” di
Freud. Freud ha identificato la psicoanalisi colla sua teoria della rimozione
dei complessi sessuali, e cosí l’ha dottrinariamente fissata. Io evito quindi
l’espressione “psicoanalisi”, quando discuto cose che non siano puramente
tecniche.
La
psicoanalisi di Freud consiste in una tecnica che ci permette di ricondurre
alla coscienza i cosidetti contenuti repressi o “rimossi”, divenuti
incoscienti. Questa tecnica è un metodo terapeutico destinato a curare e
guarire le nevrosi.
Alla
luce di questo metodo sembrerebbe che le nevrosi si verifichino perché tendenze
o ricordi penosi, i cosidetti contenuti incompatibili, vengono rimossi dalla
coscienza per una specie di risentimento morale dovuto ad influenze educative,
e divengono incoscienti. Cosí considerata, l’attività psichica incosciente ci
appare come un ricettacolo di tutti i contenuti sgraditi alla coscienza e di
tutte le impressioni dimenticate. Ma d’altra parte non si può non voler vedere
che i contenuti incompatibili provengono appunto da impulsi incoscienti, che
dunque l’incosciente non è soltanto un ricettacolo, ma addirittura la matrice
di quelle cose di cui la coscienza vorrebbe liberarsi. Possiamo andare ancora
un passo avanti: l’incosciente crea anche contenuti nuovi. Tutto ciò che lo
spirito umano creò è provenuto da contenuti che in ultima analisi erano germi
incoscienti. Mentre Freud insistette particolarmente sul primo di questi due
aspetti, io ho messo in rilievo il secondo, senza negare il primo. Sebbene non
sia irrilevante il fatto che l’uomo fa il possibile per schivare ed evitare
tutto ciò che è sgradevole e quindi dimentica volentieri ciò che non gli
accomoda, mi pare tuttavia assai piú importante constatare quale è propriamente
l’attività positiva dell’incosciente. Osservato da questo lato l’incosciente ci
appare il complesso di tutti i contenuti psichici in statu nascendi. Questa
indubbia funzione dell’incosciente è in sostanza solamente disturbata dai
contenuti rimossi dalla coscienza, e questa perturbazione dell’attività
naturale dell’incosciente è ben la sorgente essenziale delle cosiddette
malattie psicogene. L’incosciente è forse meglio compreso se lo consideriamo
come un organo dotato di una sua specifica energia produttiva. Se, a causa
della rimozione, i suoi prodotti non vengono accolti nella coscienza, nasce una
specie di stasi, una innaturale inibizione di una funzione opportuna, proprio
come se la bile, prodotto naturale della funzione del fegato, trovasse impedito
il deflusso nell’intestino. La bile passa nel sangue, e parimenti il contenuto
rimosso si irradia in altre zone psichiche e fisiologiche. Nell’isteria sono disturbate
principalmente le funzioni fisiologiche, nelle altre nevrosi, come le fobie, le
ossessioni e le nevrosi coatte, sono disturbate soprattutto le funzioni
psichiche, compresi i sogni. L’attività dei contenuti rimossi, rilevabile nei
sintomi somatici dell’isteria e nei sintomi psichici di altre nevrosi (ed anche
delle psicosi), è dimostrabile anche per i sogni. Il sogno è in sé una funzione
normale, che può essere alterata dalla stasi tanto quanto altre funzioni. La
teoria freudiana del sogno considera, e anzi spiega i sogni solo sotto questo
aspetto, cioè come se non fossero altro che sintomi. È noto che la psicoanalisi
tratta alla stessa maniera anche altri ben diversi campi dello spirito, quali
le opere d’arte; ma l’opera d’arte, mi spiace dirlo, non è un sintomo, bensí
una creazione genuina. Una produzione creativa non può essere intesa che per se
stessa. Qualunque tentativo di concepirla come un malinteso patologico e di
spiegarla come una nevrosi la riduce a una compassionevole curiosità.
Lo
stesso vale per il sogno, creazione caratteristica dell’incosciente, che la
rimozione può solo svisare e deformare. Spiegando il sogno come un mero sintomo
di rimozione non si coglie certo nel segno.
Limitiamoci
per un istante ai risultati della psicoanalisi di Freud. Secondo la teoria
della psicoanalisi l’uomo è un essere istintivo, che urta per molti riguardi
contro le barriere delle leggi, dei comandamenti morali e della propria
saggezza, ed è perciò costretto a rimuovere in tutto o in parte alcuni istinti.
Lo scopo del metodo è di addurre alla coscienza questi contenuti istintivi, e
di sopprimere la loro rimozione mediante una correzione cosciente. Alla
minaccia rappresentata dal loro scatenamento viene opposta la spiegazione che
essi non siano altro che fantasie e desiderî infantili, i quali,
ragionevolmente, possono soltanto venir repressi. Si ammette anche che essi
possano essere “sublimati” – secondo l’espressione tecnica – intendendo con ciò
una specie di deviazione in un’opportuna forma di adattamento. Ma chi crede che
questa possa essere volontariamente ottenuta si sbaglia. Solo l’assoluta
necessità può inibire efficacemente un istinto naturale. Dove non esiste questa
inesorabile necessità la sublimazione non è che un’illusione, una rimozione
nuova, e questa volta alquanto piú sottile.
C’è in
questa teoria e in questa concezione dell’uomo qualcosa che giovi alla nostra
visione del mondo? Io non lo credo. L’idea direttiva della psicologia
interpretativa della psicoanalisi freudiana è il ben noto materialismo
razionalista della fine del secolo scorso. Non ne vien fuori un’altra immagine
del mondo e quindi neppure un altro orientamento dell’uomo rispetto al mondo.
Ma non si può dimenticare che solo in pochissimi casi l’orientamento subisce
l’influenza delle teorie. Assai piú efficace è la via che passa per il fattore
sentimento. Ma io non capisco come una secca esposizione teorica possa toccare
il sentimento. Vi potrei leggere una minuta statistica carceraria e voi vi
addormentereste. Se però vi guidassi per una prigione o per un manicomio non vi
addormentereste, e ne ricevereste una profonda impressione. Fu forse una
dottrina quella che formò il Budda? No, fu la visione della vecchiaia della
malattia e della morte, quella che gli bruciò nell’anima.
In
realtà le concezioni in parte unilaterali, in parte errate della psicoanalisi
freudiana non ci dicono nulla. Ma se gettiamo uno sguardo nella psicoanalisi di
reali casi di nevrosi e vediamo quali devastazioni causano le cosidette
rimozioni, quali distruzioni seguono alla non osservanza di istinti elementari,
allora sí ne riceviamo, per dir poco, una impressione duratura. Non c’è forma
della tragedia umana che non possa scaturire da questa lotta dell’io contro
l’incosciente. Chi vede per la prima volta gli orrori di un carcere, di un
manicomio o di un ospedale arricchisce notevolmente, per l’impressione che
suscitano in lui queste cose, la propria visione del mondo. La medesima cosa
gli succede gettando uno sguardo nell’abisso di sofferenza umana che si apre
dietro una nevrosi. Quante volte ho udito esclamare: “Ma è spaventevole! Chi vi
avrebbe pensato?” e cosí via. Non lo si può davvero negare, è una impressione
poderosa quella che si riceve dell’attività dell’incosciente, quando si cerca
di indagare colla debita profonda scrupolosità la struttura di una nevrosi. È
anche un merito mostrare a qualcuno gli slums di Londra, e chi li ha
visti ha visto di piú che chi non li ha visti. Ma non si tratta che di un urto
violento, e la domanda: che cosa si deve fare? rimane ancora senza risposta.
La
psicoanalisi ha tolto l’involucro che ricopriva fatti noti a poche persone, ed
ha perfino fatto il tentativo di trarne partito. Ma quale atteggiamento ha essa
nei loro riguardi? È un atteggiamento nuovo? È stata feconda, in altre parole,
la grande impressione? Ha essa mutato l’immagine del mondo migliorando cosí la
nostra visione del mondo? La visione del mondo della psicoanalisi è un
materialismo razionalista, è la visione del mondo di una scienza naturale
essenzialmente pratica. E noi sentiamo che questa visione è insufficiente. I
tentativi di derivare una poesia di Goethe dal suo complesso materno, o di
spiegare Napoleone come un caso di protesta virile, e san Francesco come un
caso di rimozione sessuale, ci lasciano profondamente insoddisfatti. Sono
tentativi insufficienti, che non rendono conto della significativa realtà delle
cose. Dove vanno a finire la bellezza, la grandezza e la santità? Queste sono
pure vivissime realtà, senza le quali la vita umana sarebbe estremamente
ottusa. Dov’è la giusta risposta ai quesiti che ci sono posti da inauditi
dolori e conflitti? In questa risposta dovrebbe almeno risuonar qualcosa che ci
ricordi la grandezza della sofferenza. L’atteggiamento puramente razionalista,
per quanto sia spesso opportuno, trascura il significato del dolore. Il dolore
è messo da parte e dichiarato irrilevante. Fu un gran rumore per nulla. Molto
ricade in questa categoria, ma non tutto.
L’errore
sta nel fatto che, come abbiamo detto, la cosiddetta psicoanalisi ha un
concetto scientifico, è vero, ma puramente razionalistico dell’incosciente.
Parlando di istinti, si crede di riferirsi a cose note. In realtà si parla di
cose ignote. In realtà sappiamo soltanto che dalla buia sfera della psiche ci
giungono influssi che debbono venir comunque accolti nella coscienza, per
evitare devastatrici perturbazioni di altre funzioni. È assolutamente
impossibile dire senz’altro di che natura sono questi influssi, se essi sono
dovuti alla sessualità, alla volontà di potenza o ad altri istinti. Sono
influssi ambigui, o addirittura di significato molteplice, come l’incosciente
stesso. Ho già spiegato prima che l’incosciente è bensí il ricettacolo di tutti
i contenuti dimenticati, passati o rimossi, ma è anche la sfera in cui hanno
luogo tutti i processi subliminali, come le percezioni sensoriali troppo deboli
per raggiunger la coscienza, e finalmente è anche la matrice da cui cresce il
futuro psichico. Come sappiamo che si può reprimere un desiderio incomodo e
costringerne in tal modo l’energia ad immischiarsi in altre funzioni, cosí
sappiamo pure che c’è chi non può acquistar coscienza di una nuova idea che gli
viene in mente e gli è assai lontana, la cui energia, per conseguenza, fluisce
in altre funzioni perturbandole. Ho visto molti casi in cui abnormi fantasie
sessuali cessarono di colpo e completamente nell’istante in cui un nuovo
pensiero o contenuto divenne cosciente, o una emicrania scomparve
improvvisamente quando divenne cosciente una poesia incosciente. Come la
sessualità si può esprimere impropriamente in fantasie, cosí anche una fantasia
creatrice si può esprimere impropriamente in sessualità. En étymologie
n’importe quoi peut désigner n’importe quoi, disse Voltaire; e la stessa
cosa bisogna dire dell’incosciente. In ogni caso non sappiamo mai in
antecedenza di che cosa si tratta. Per ciò che riguarda l’incosciente abbiamo
soltanto la facoltà di saper le cose dopo, ed inoltre è a priori impossibile
saper qualcosa su quanto avviene nell’incosciente. Ogni conclusione a questo
riguardo è un confessato come se.
In
questa situazione l’incosciente ci appare come una grande X, da cui promanano
considerevoli influssi, l’unica cosa su cui non ci sia dubbio. Uno sguardo alle
religioni del passato ci mostra l’importanza storica di questi influssi. Uno
sguardo alle sofferenze dell’uomo d’oggi ci mostra la stessa cosa. Solo che
oggi noi ci esprimiamo un po’ diversamente. Cinquecent’anni fa si diceva: è
posseduta dal diavolo; oggi si dice: è una isterica; una volta era stregoneria,
oggi è una nevrosi gastrica. I fatti sono gli stessi, ma l’antica spiegazione,
psicologicamente, era quasi esatta. Adesso, per indicare i sintomi, abbiamo dei
termini razionalistici che a dire il vero sono privi di contenuto. Quando
infatti io dico che un tale è posseduto da uno spirito maligno, indico con ciò
il fatto che il posseduto non è legittimamente malato, ma soffre di un influsso
spirituale invisibile di cui non può rendersi padrone in nessun modo. Questo
ente invisibile è un cosidetto complesso autonomo, un contenuto incosciente
sottratto all’impero della volontà cosciente. Analizzando la psicologia di una
nevrosi si scopre infatti un cosiddetto complesso, che non si comporta come un
contenuto cosciente andando o venendo come noi comandiamo, ma segue leggi
proprie, è in altre parole indipendente, autonomo, come dice l’espressione
tecnica. Esso si comporta proprio come un coboldo che non si lascia dominare. E
se l’analisi riesce a rendere cosciente il complesso il malato dice forse con
sollievo: ah! ecco quello che mi disturbava! e apparentemente abbiamo
guadagnato qualche cosa, perché i sintomi scompaiono: il complesso, come si
suol dire, è sciolto. Possiamo esclamare con Goethe: “Wir haben ja
aufgeklärt!”, or tutto è chiaro! Ma con Goethe dobbiamo continuare:
“Und dennoch spukt’s in Tegel!”, eppure a Tegel ci sono gli spettri!
Soltanto adesso si rivela la vera situazione; noi ci accorgiamo che questo
complesso non avrebbe dovuto esistere, se la nostra natura non gli avesse
conferito una segreta forza propulsiva. Voglio spiegarmi con un breve esempio:
un paziente soffre di sintomi nervosi gastrici, consistenti in contrazioni
dolorose, come se avesse fame. L’analisi rivela una passione infantile per la
madre, un cosiddetto complesso materno. Appena il malato ne prende coscienza i
sintomi scompaiono, ma rimane al loro posto uno stato nostalgico a calmare il
quale non vale la constatazione che esso non è altro che un complesso materno
infantile. Quella che prima era fame quasi fisica e dolore fisico, ora è fame
psichica e dolore psichico. Si aspira a qualche cosa e si sa che a torto ci si
riferiva alla madre. Il fatto di un’aspirazione ancora inappagabile rimane, e
risolvere questo problema è assai piú difficile che ricondurre la nevrosi al
complesso materno. Questa vaga bramosia è un’esigenza continua, un vuoto
tormentoso, attivo, che può esser dimenticato solo per qualche tempo, ma non
può mai esser vinto colla forza della volontà. Ricompare continuamente. Non si
sa da che proviene, forse non si sa nemmeno che cosa si desidera. Si possono
sospettare molte cose, ma certo è soltanto che al di là del complesso materno
c’è qualcosa di incosciente che manifesta quest’esigenza ed eleva continuamente
la sua voce, indipendentemente dalla nostra coscienza inattaccabile dalla
nostra critica. Questo qualcosa è ciò che io chiamo complesso autonomo. Da
questa fonte scaturisce la forza istintiva che originariamente nutrí l’anelito
infantile verso la madre e poi causò la nevrosi perché la coscienza adulta
dovette ricusare l’anelito infantile e reprimerlo come incompatibile.
Tutti i
complessi infantili risalgono in ultima analisi a contenuti autonomi
dell’incosciente. La mente dei primitivi ha personificato questi contenuti, che
sentiva estranei e incomprensibili, dando loro forma di spiriti, di demoni o di
dèi, ed ha tentato di assolvere alle loro esigenze con riti sacri e magici.
Accortasi, e giustamente, che questa fame o sete non può esser saziata né da
cibo né da bevanda, né dal ritorno nel grembo materno, la mente del primitivo
ha creato immagini di esseri invisibili gelosi ed esigenti, piú autorevoli, piú
forti e piú pericolosi che l’uomo, cittadini di un mondo invisibile, ma fusi
tanto intimamente col mondo visibile, da abitare perfino nelle pentole di
cucina. Spiriti e magia sono, per il primitivo le cause delle malattie. I
contenuti autonomi si sono in lui proiettati in queste figure soprannaturali.
Il nostro mondo invece è libero da demoni, salvo alcuni residui significativi.
Ma i contenuti autonomi e le loro esigenze sono rimasti. Potrebbero esprimersi
in parte nelle religioni, ma quanto piú le religioni si razionalizzano e si
diluiscono – sorte quasi inevitabile – tanto piú confuse e misteriose divengono
le vie per le quali i contenuti dell’incosciente pur ci raggiungono. Una delle
vie piú comuni, e a tutta prima non lo si sospetterebbe, è la nevrosi. Il
pubblico crede di solito che le nevrosi siano bazzecole, quantités
négligeables della medicina, ma ha torto come abbiamo visto. Ché dietro la
nevrosi si celano quei potenti influssi psichici che stanno a base del nostro
atteggiamento spirituale e delle nostre piú autorevoli idee direttive. Il
materialismo razionalistico, atteggiamento mentale in apparenza non sospetto, è
un movimento psicologico opposto al misticismo. Questo è il recondito
antagonista che deve essere combattuto. Materialismo e misticismo non sono
psicologicamente, che una coppia di contrari, proprio come l’ateismo e il
teismo. Sono fratelli nemici, due metodi differenti per venire comunque a capo
dei dominanti influssi incoscienti, l’uno negando, l’altro affermando.
Il
contributo piú importante che la psicologia analitica ha potuto recare alla
nostra visione del mondo è dunque, secondo me, la nozione che esistono
contenuti incoscienti i quali pongono irrecusabili esigenze o irraggiano
influssi con cui la coscienza, volente o nolente, deve fare i conti.
L’esposizione
che io ho fatto finora sarebbe certo insufficiente, se io lasciassi in questa
forma indeterminata ciò che ho chiamato contenuto autonomo dell’incosciente, e
non tentassi almeno di descrivere ciò che la nostra psicologia ha empiricamente
scoperto in questi contenuti.
Se,
come ammette la psicoanalisi, ci si potesse definitivamente accontentare
dicendo che l’originaria dipendenza infantile dalla madre è la causa di quella
vaga bramosia di cui sopra ho parlato, questa nozione dovrebbe costituire anche
una soluzione. E ci sono infatti dipendenze infantili che scompaiono davvero
quando si acquista piena coscienza della loro natura. Ma non bisogna credere
che avvenga cosí in tutti i casi. Residua sempre qualche cosa, talora cosí poco
apparentemente, che il caso sembra praticamente risolto, ma talora il residuo è
cosí abbondante da lasciare insoddisfatti sia il medico sia il paziente, e
spesso sembra che non si sia ottenuto proprio nulla. D’altronde molti malati
curati da me, benché conoscessero minutamente il complesso che causava i loro
disturbi, non ne avevano tratto alcun reale vantaggio.
Una
spiegazione causale può dare una relativa soddisfazione scientifica, ma psicologicamente
non soddisfa, poiché non rivela lo scopo della forza istintiva a cui è dovuto
il disturbo (il significato della bramosia, per esempio), e tanto meno insegna
che cosa si deve fare per rimediarvi. Quand’anche io sappia che un’epidemia di
tifo è dovuta all’acqua infetta, non per questo ho eliminato l’inquinamento
delle sorgenti. Una risposta adeguata è data soltanto quando si sa che cosa sia
e dove tenda quella forza ignota che mantiene viva nell’età adulta la
dipendenza infantile.
Se la
mente umana alla nascita fosse una tabula rasa, questi problemi non
esisterebbero, perché tutto ciò che la mente contiene sarebbe stato acquisito,
o vi sarebbe stato innestato. Ma nell’anima umana ci son molte cose che non
sono state acquisite, perché la mente umana non nasce come tabula rasa,
né ogni uomo ha un cervello del tutto nuovo ed a lui peculiare. Il cervello con
cui l’uomo nasce è il risultato dell’evoluzione di un’infinita serie di
antenati, si costituisce compiutamente differenziato di ogni embrione, e dà immancabilmente,
quando entra in funzione, risultati già prodottisi infinite volte nella serie
degli antenati. L’intera struttura anatomica dell’uomo è un sistema ereditario,
identico alla costituzione ancestrale, che immancabilmente funzionerà nella
stessa maniera di prima. È quindi minima la possibilità che si produca qualcosa
di nuovo, sostanzialmente differente da quanto è stato prodotto in antico.
Tutti quei fattori, dunque, che furono essenziali per i nostri avi prossimi e
remoti, saranno essenziali anche per noi, perché corrispondono al sistema
organico ereditario. Essi sono necessità, che si paleseranno come bisogni.
Non
temete che io vi parli di idee ataviche. Me ne guardo bene. I contenuti
autonomi dell’incosciente (o dominanti dell’incosciente, come io li ho
anche chiamati), non sono idee ereditate, ma possibilità ereditate, o meglio
sono necessità di generare ancora quelle idee che le dominanti dell’incosciente
hanno sempre espresso. Certamente ogni regione della terra ed ogni epoca ha il
suo particolare linguaggio, che può variare infinitamente. Ma non importa che
nella mitologia l’eroe vinca ora un drago, ora un pesce, ora un altro mostro;
il motivo fondamentale resta il medesimo, ed è questo il patrimonio comune
dell’umanità, non le transitorie formulazioni delle diverse regioni e delle
varie età.
L’uomo
nasce dunque con una disposizione mentale complicata, ben diversa da una tabula
rasa. L’eredità mentale pone limiti precisi anche alla piú ardita fantasia,
ed attraverso il velo della piú sfrenata fantasticheria traspaiono quelle
dominanti che fin dalla piú remota antichità furono inerenti allo spirito
umano. Ci stupisce scoprire in un alienato fantasie quasi identiche a quelle
che possiamo ritrovare nei primitivi. Ma dovremmo stupirci se cosí non fosse.
Alla
sfera della massa ereditaria psichica ho dato il nome di incosciente
collettivo. I contenuti della nostra coscienza sono tutti individualmente
acquisiti. Ora, se la psiche umana fosse costituita esclusivamente dalla
coscienza, non ci sarebbe nulla di psichico che non fosse sorto nel corso della
vita individuale. In questo caso sarebbe vano cercare qualche condizione o
qualche influsso dietro un semplice complesso paterno o materno. Riconducendo
il complesso al padre o alla madre avremmo detto l’ultima parola, perché queste
sono le figure che prime hanno agito sulla nostra psiche cosciente. Ma in
realtà i contenuti della nostra coscienza non sono dovuti soltanto all’azione
dell’ambiente individuale, sono invece anche influenzati e ordinati dalla massa
psichica ereditaria, dall’incosciente collettivo. È certo, per esempio, che
l’immagine della madre individuale è assai significativa, ma essa è tale perché
è fusa con una disposizione incosciente, cioè con un’immagine congenita che
deve la sua esistenza al fatto che madre e bambino, da tempo immemorabile,
stettero in un rapporto simbiotico. Là dove, in qualunque senso, manca la madre
individuale, si avverte una perdita, e l’immagine materna collettiva fa sentire
le sue esigenze. Un istinto, per cosí dire, non riesce a coglier nel segno. Ne
nascono assai spesso disturbi nevrotici o almeno singolarità del carattere. Se
non esistesse l’incosciente collettivo si potrebbe ottenere tutto
coll’educazione, e senza danno storpiar l’uomo a macchina psichica o allevarlo
al culto di un ideale. Ma a tutti questi sforzi sono tracciati stretti limiti,
perché ci sono dominanti dell’incosciente che elevano invincibili richieste di
esaudimento.
Se
dunque, nel caso del paziente colla nevrosi gastrica, mi si chiede di definire
esattamente che cosa sia quell’oscuro fattore incosciente che trascendendo il
complesso materno personale alimenta una bramosia altrettanto indistinta quanto
tormentosa, debbo rispondere: è l’immagine collettiva della madre, non
di questa madre personale, ma della madre in genere.
Ma
perché, mi si domanderà, quest’immagine collettiva deve suscitare una simile
bramosia? Rispondere a questa domanda non è facile. Anzi, se potessimo
rappresentarci direttamente che cos’è e che cosa significa l’immagine collettiva
(che io ho anche chiamato archetipo), sarebbe assai semplice capirne
l’azione.
Mi
spiegherò meglio nel modo che segue:
La
relazione da madre a bambino è la piú profonda e la piú netta che noi
conosciamo; non è forse il bambino, per qualche tempo, parte del corpo materno?
Poi egli diventa, per lunghi anni, un elemento dell’atmosfera psichica della
madre, e in questa guisa tutto ciò che nel bambino è originario si fonde
indissolubilmente, per cosí dire, coll’immagine materna. Quanto io dico non è
vero soltanto per il caso singolo, ma è ancor piú vero storicamente. È
l’esperienza vissuta dalla serie degli antenati, è una verità organica come il
rapporto fra i sessi. Anche l’archetipo, immagine materna collettiva
ereditaria, è dotato di una forza attrattiva straordinariamente intensa, che
spinge il bambino a aggrapparsi istintivamente a sua madre. Coll’andar degli
anni l’uomo si sottrae naturalmente alla madre (non altrettanto naturalmente
all’archetipo), purché egli non sia piú in uno stato di primitività quasi
animalesca, ma abbia già acquistato una certa consapevolezza e quindi una certa
civiltà. Se egli è puramente istintivo, la sua vita scorre senza volontà,
perché volontà presuppone sempre coscienza; scorre secondo leggi incoscienti e
non si scosta mai dall’archetipo. Ma se esiste una certa consapevolezza il
contenuto cosciente è valutato piú che l’incosciente, e ne nasce l’illusione di
aver cessato, separandosi dalla madre, di essere il figlio di questa madre
individuale. La coscienza non conosce che contenuti individualmente acquisiti,
non conosce, per conseguenza, che la madre individuale, e non sa che questa è
in pari tempo la portatrice dell’archetipo, e rappresenta, per cosí dire, la
madre eterna. Ma il distacco dalla madre è sufficiente solo se è in pari tempo
un distacco dall’archetipo. Lo stesso dicasi per il distacco dal padre.
Il
sorgere della coscienza e quindi di una relativa libertà di volere permise
naturalmente lo scostamento dall’archetipo e quindi dall’istinto. Avvenuto lo
scostamento, il cosciente si dissocia dall’incosciente, e cosí comincia la
percepibile e di solito assai sgradevole attività dell’incosciente, in forma di
un inconscio legame interno che si manifesta solo sintomaticamente, cioè
indirettamente. Sorgono allora situazioni in cui sembra che non sia ancora
avvenuto il distacco dalla madre. La mente dei primitivi, pur non avendo capito
questo dilemma, lo ha chiaramente sentito, e perciò ha creato riti
importantissimi destinati a segnare il passaggio dall’infanzia all’età adulta,
coll’inequivocabile scopo di operare magicamente il distacco dai genitori, riti
che sarebbero del tutto superflui se la relazione coi genitori non fosse
parimenti sentita come magica. Magiche sono tutte quelle cose dove sono in
gioco influssi incoscienti. Ma questi riti hanno l’intento di operare non solo
il distacco dai genitori, ma anche la transizione nell’età adulta. Perché ciò
avvenga occorre che non resti una bramosia rivolta indietro verso la
fanciullezza, cioè che sia coperta l’esigenza dell’archetipo offeso, e questo
si ottiene contrapponendo all’intimo rapporto coi genitori un altro rapporto,
quello col clan o colla tribú. Servono a questo scopo alcuni segni che vengono
impressi sul corpo, quali la circoncisione ed altre lesioni che lasciano cicatrici,
e poi l’iniziazione mistica che il giovane riceve all’atto della consacrazione.
Talora la consacrazione assume forme assai crudeli.
Il
primitivo ritiene necessario, per ragioni di cui non è cosciente, di soddisfare
in questa maniera alle esigenze dell’archetipo. Non gli basta la semplice
separazione dei genitori, ma gli occorre una violenta cerimonia che sembra un
sacrificio a quelle potenze che potrebbero trattenere il giovane. Da ciò si
riconosce la potenza dell’archetipo, che costringe il primitivo ad agire contro
la natura per non caderle in preda. È questo l’inizio di ogni civiltà,
l’inevitabile conseguenza della consapevolezza e della possibilità che ne
deriva di deviare dalla legge incosciente.
Sono
cose da tempo divenute estranee al nostro mondo, ma non per questo la natura ha
in noi perduto nulla della sua potenza. Noi abbiamo soltanto imparato a
sottovalutarla. Ma siamo in imbarazzo quando ci chiediamo quale sia la nostra
maniera di opporci all’azione dei contenuti incoscienti. Per noi non si può piú
trattare di riti primitivi: sarebbe un regresso artificioso ed inoltre
inefficace. Siamo già troppo critici e troppo psicologi. Se voi mi poneste
questa questione sarei in imbarazzo tanto quanto voi. Posso solo dire che da
anni osservo quali vie seguono molti dei miei pazienti per appagare l’esigenza
dei contenuti incoscienti. Oltrepasserei di molto i limiti di questo saggio, se
volessi riferire qui i risultati di queste osservazioni, e vi debbo rinviare, a
questo riguardo, alla letteratura della specialità, dove la questione è
minutamente discussa. Mi accontenterò di portarvi a riconoscere, se vi
riuscirò, che nella nostra anima incosciente sono attive quelle stesse forze
che l’uomo negli antichi tempi proiettava nello spazio e qui onorava con sacrifici.
Servendoci
di questa nozione potremmo riuscire a dimostrare che tutte le molteplici usanze
e convinzioni religiose che tanta importanza hanno avuto nella storia
dell’umanità non sono riconducibili ad invenzioni arbitrarie o ad opinioni di
singoli, ma sono piuttosto debitrici della loro origine all’esistenza di
potenti forze incoscienti che non possono venir trascurate senza turbare
l’equilibrio psichico. Quanto vi ho spiegato servendomi dell’esempio del
complesso materno non è che un caso fra i molti. L’archetipo materno è un caso
isolato, al quale si potrebbe facilmente aggiungere una serie di altri
archetipi. Questa molteplicità delle dominanti incoscienti spiega il
polimorfismo delle idee religiose. Tutti questi fattori sono ancor sempre
attivi nella nostra anima; solo le loro espressioni e le loro valutazioni sono
superate. Il fatto che noi adesso possiamo intenderli come grandezze psichiche
è una nuova formulazione, una nuova espressione, che forse renderà anche
possibile scoprire vie per le quali possa venir stabilita una nuova relazione
con loro. Ritengo che questa possibilità sia cosa assai importante, perché
l’incosciente collettivo non è affatto una specie di angolo oscuro, ma è il
deposito, che tutto domina, dell’esperienza atavica di innumerevoli milioni
d’anni, l’eco della preistoria, a cui questo secolo non apporta che un
piccolissimo contributo di variazioni e di differenziazione. L’incosciente
collettivo, essendo in ultima analisi un deposito storico che si esprime nella
struttura del cervello e del simpatico, ha nel suo complesso il significato di
una specie di immagine del mondo senza tempo, eterna, in certo qual modo,
contrapposta alla momentanea immagine del mondo della nostra coscienza. Ciò
significa, in altri termini, né piú né meno che un altro mondo, un mondo
speculare, se cosí volete. Ma, a differenza da una mera immagine speculare,
l’immagine del mondo inconscia ha un suo particolare vigore, indipendente dalla
coscienza, grazie al quale può esplicare potenti azioni psichiche, azioni che
non appaiono ampiamente alla superficie del mondo, ma influiscono potentemente
su di noi dall’interno, dal buio, invisibili a chiunque non sottoponga
l’immagine momentanea del mondo a critica sufficiente e quindi rimanga celato
anche a se stesso. Il mondo non ha solo una faccia esteriore, ma anche una
faccia interiore, non è solo visibile fuori di noi, ma opera prepotentemente su
di noi, in un presente senza tempo dai piú profondi e apparentemente piú
soggettivi fondi dell’anima; ecco una nozione che, pur essendo un’antica
saggezza, merita, in questa forma, di esser valutata come un fattore formativo
della nostra visione del mondo.
La
psicologia analitica non è una visione del mondo, ma una scienza, e come tale
fornisce i materiali costruttivi o gli strumenti con cui ciascuno può
costruire, abbattere o anche migliorare la propria visione del mondo. Ci sono
oggi molti per i quali la psicologia analitica è una visione del mondo. Io
vorrei che cosí fosse, perché allora sarei dispensato dalla fatica di indagare
e di dubitare e potrei inoltre dirvi in modo chiaro e semplice qual è la via
che conduce in paradiso. Ma purtroppo non siamo ancora a tal punto. Io mi
limito a saggiare sperimentalmente la visione del mondo, tentando di capire
quali siano il significato e la portata dei nuovi eventi. E questo sperimentare
è in un certo senso una via, perché tutto sommato anche la nostra stessa
esistenza è un esperimento della natura, un tentativo con una nuova
combinazione. Una scienza non è mai una visione del mondo, ma solo lo strumento
per crearla. Ognuno prenderà o non prenderà in mano questo strumento, secondo
la visione del mondo che già possiede. Nessuno infatti è senza visione del
mondo: tutt’al piú avrà quella che gli fu imposta dall’educazione e dall’ambiente.
Se questa visione del mondo, per esempio, gli dice, colle parole di Goethe, che
la personalità è il supremo bene dell’uomo, egli darà di piglio senza esitare
alla scienza ed ai suoi risultati, in cui vedrà lo strumento per costruire una
visione del mondo e quindi se stesso. Se invece la sua visuale ereditaria gli
dirà che la scienza non è strumento, ma fine a se stessa, egli seguirà la
parola d’ordine che da circa 150 anni è valida, cioè praticamente decisiva.
Alcuni, invero, si sono disperatamente difesi contro questa idea, perché la
loro idea di perfezione culminava nella compiutezza della personalità umana e
non nella differenziazione dei mezzi tecnici, che conduce inevitabilmente a una
differenziazione estremamente unilaterale di un impulso, dell’impulso a
conoscere. Se la scienza è fine a se stessa l’uomo ha la sua ragion d’essere
come intelletto. Se l’arte è fine a se stessa, l’attitudine figurativa è
l’unico valore dell’uomo, e l’intelletto va a finire in soffitta. Se il
guadagnar danaro è fine a se stesso, scienza ed arte possono tranquillamente
far fagotto. Nessuno può negare che la coscienza moderna è spezzettata, quasi
senza speranza, in questi “fini a se stessi”. Perciò gli uomini vengono
coltivati solo come qualità singole, e diventano strumenti.
Negli
ultimi 150 anni abbiamo avuto numerose visioni del mondo, prova questa che la Weltanschauung
è merce screditata, perché quanto piú una malattia è difficile da guarire,
canto piú numerosi sono i rimedi proposti, tanto peggiore è la fama dei singoli
rimedi. Sembra che le “visioni del mondo” siano passate di moda.
È
difficile pensare che quest’evoluzione sia un puro caso, una deplorevole ed
insensata aberrazione, perché ciò che di per sé è eccellente e adeguato non
suole scomparire dalla faccia del mondo in modo tanto penoso e sospetto.
Bisogna che ci sia qualcosa di inutile o di riprovevole. Dobbiamo quindi porci
la questione: dov’è l’errore delle nostre visioni del mondo?
A me
pare che l’errore fatale dell’attuale visione del mondo consista in questo, che
essa pretende di essere una verità obbiettivamente valida, e in ultima analisi
perfino una specie di evidenza scientifica, il che conduce, per esempio,
all’insopportabile conseguenza che lo stesso buon Dio deve aiutare i Tedeschi,
i Francesi, gli Inglesi, i Turchi, i pagani; insomma, tutti contro tutti. La
coscienza moderna, nella sua piú ampia concezione del divenire mondiale, si è
ritratta con orrore da simili mostruosità, ed ha cominciato a cimentarsi con
surrogati filosofici. Ma anche questi pretesero di essere verità
obbiettivamente valide, e furono screditati; e cosí abbiamo finito per arrivare
allo spezzettamento differenziato, colle sue poco raccomandabili conseguenze.
L’errore
fondamentale di ogni visione del mondo è la sua singolare tendenza ad essere
considerata essa stessa come la verità delle cose, mentre in realtà essa non è
che il nome che noi diamo alle cose. Forse che noi, in scienza, litighiamo per
decidere se il nome del pianeta Nettuno corrisponde all’essenza di questo astro
e sia quindi il suo solo “giusto” nome? Nemmeno per idea, e questa è la ragione
per cui la scienza è piú progredita: essa conosce soltanto ipotesi di lavoro.
Solo lo spirito primitivo crede al “vero nome”. Il Rumpelstilzchen della favola
andava in tanti pezzi quando si nominava il suo vero nome. Il capo tribú cela
il suo vero nome ed assume, per l’uso giornaliero, un nome esoterico, affinché
nessuno possa stregarlo conoscendo il suo vero nome. Nelle tombe dei faraoni
egiziani venivano scritti i veri nomi degli dèi, affinché i faraoni defunti
potessero aver gli dèi in loro potere mediante la conoscenza del loro vero
nome. Per il cabalista il possesso del vero nome di Dio ha il significato di
una potenza magica. Insomma: per lo spirito del primitivo il nome costituisce
la cosa stessa. “Ciò che egli dice diviene”, tale è l’antica massima di Ptah.
Le visioni del mondo soffrono di questo residuo di primitività incosciente.
Come all’astronomia è ancora ignoto che gli abitanti di Marte abbiano reclamato
in terra per falsa denominazione del loro pianeta, cosí possiamo
tranquillamente ammettere che il mondo non si curi affatto di ciò che di lui
pensiamo. Ma non per questo occorre che noi cessiamo di pensare al mondo. E
difatti noi non cessiamo di pensarci, anzi, la scienza continua a vivere come
figlia ed erede di vecchie e decadute visioni del mondo. Ma chi ci ha scapitato
in questo cambio di mano è l’uomo. Nella visione del mondo di antico stile egli
aveva messo ingenuamente il suo spirito al posto delle cose, e gli era lecito
considerare il suo viso come la faccia del mondo, vedere in sé un’immagine di
Dio; lusso che non era poi pagato troppo caro con alcune pene dell’inferno.
Nella scienza, invece, l’uomo non pensa a sé ma solo al mondo, all’oggetto: si
è tolto di mezzo ed ha sacrificato la propria personalità allo spirito
obbiettivo. Perciò lo spirito scientifico è anche moralmente superiore alle
visioni del mondo di vecchio stile.
Ma noi
cominciamo a sentire le conseguenze di questo immiserimento della personalità
umana. In tutti i luoghi si leva la richiesta di una visione del mondo, si
vuole che la vita ed il mondo abbiano un senso. Sono numerosi anche nel nostro
tempo i tentativi di andare a ritroso e di professare visioni del mondo di
antico stile quali la teosofia (o meglio: antroposofia). Abbiamo bisogno, noi e
piú ancora la nuova generazione, di una visione del mondo. Ma se non vogliamo
ricadere in stadi evolutivi superati, una nuova visione del mondo deve
rinunciare alla superstizione della propria validità obbiettiva, deve saper
concedere di esser solo un’immagine che noi dipingiamo per amor della nostra
anima, e non un nome magico col quale noi stabiliamo cose obbiettive. La nostra
visione del mondo non deve servire per il mondo, ma per noi. Se non creiamo
un’immagine del mondo nel suo complesso non vediamo neppur noi, che pur siamo
fedeli riproduzioni appunto di questo mondo. E solo nello specchio della nostra
immagine del mondo possiamo vedere completamente noi stessi. Noi appariamo solo
nell’immagine che noi creiamo. Solo nel nostro atto creatore noi ci poniamo
completamente in luce e diveniamo riconoscibili a noi stessi come un tutto. Noi
non poniamo mai al mondo un volto differente dal nostro, e appunto per questo
dobbiamo farlo, per trovare noi stessi. Piú alto che la scienza o l’arte fini a
se stesse sta infatti l’uomo, creatore dei suoi strumenti. Non siamo mai piú
vicini all’eccelso mistero di tutte le origini che quando conosciamo il nostro
io, che ci illudiamo di aver sempre conosciuto. Ma le profondità dell’universo
ci sono piú note che le profondità dell’io, dove possiamo udire quasi
direttamente l’Essere ed il Divenire creatori, ma senza comprenderli.
In
questo senso la psicologia ci dà nuove possibilità, dimostrando l’esistenza di
immagini fantastiche che nascono dall’oscuro fondo della psiche, e quindi ci
dànno conoscenza dei processi che avvengono nell’incosciente. I contenuti
dell’incosciente collettivo sono i risultati delle funzioni psichiche della
serie degli antenati, sono dunque, nel loro insieme, un’immagine naturale del
mondo, confluita e condensata da un’esperienza di milioni di anni. Queste
immagini sono mitiche e quindi simboliche, perché esprimono l’accordo del
soggetto sperimentante coll’oggetto sperimentato. Si capisce che tutta la
mitologia e tutte le rivelazioni siano derivate da questa matrice di
esperienza, e che quindi debbano derivarne anche in futuro tutte le idee
riguardanti il mondo e l’uomo. Sarebbe però un errore credere che le immagini
fantastiche dell’incosciente possano venire immediatamente applicate, come se
fossero una rivelazione. Esse sono solamente la materia prima, e per acquistare
un senso debbono ancora venir tradotte nel linguaggio del loro tempo. Se questa
traduzione riesce, il mondo quale noi le vediamo è nuovamente collegato,
mediante il simbolo di una visione del mondo, coll’esperienza primordiale
dell’umanità; l’uomo storico e universale che è in noi porge la mano all’uomo
individuale che vive attualmente, evento comparabile al congiungimento mitico
del primitivo cogli avi totemistici nella cena rituale.
La
psicologia analitica è in questo senso una reazione contro l’esagerato
razionalismo della coscienza, la quale, cercando di generare processi
indirizzati, si isola dalla natura e cosí strappa l’uomo dalla sua naturale
storia e lo trapianta in un presente razionalmente limitato, che si estende al
breve periodo fra la nascita e la morte. Questa limitazione genera un
sentimento di accidentalità e di insensatezza che ci impedisce di vivere la
vita con quella ricchezza di significati che essa richiede per essere
completamente vissuta. La vita si appiattisce e non rappresenta piú
compiutamente l’uomo. Perciò una grande parte di vita non vissuta cade in preda
all’incosciente. Si vive come si cammina quando si hanno scarpe troppo strette.
L’eternità, che è cosí caratteristica della vita dei primitivi, manca
completamente alla nostra vita. Le nostre mura razionali ci isolano
dall’eternità della natura. La psicologia analitica cerca di far breccia nelle
mura, scavando nell’incosciente per trarne fuori quelle immagini fantastiche
che l’intelletto razionale aveva rigettate. Queste immagini sono fuori delle
mura, appartengono alla natura in noi, che in apparenza giace profondamente
sepolta dietro di noi, e contro la quale noi ci siamo trincerati dietro le mura
della ragione. Da ciò nacque quel conflitto colla natura che la psicologia
analitica cerca di risolvere non tornando alla natura, con Rousseau, ma
persistendo nello stadio razionale felicemente raggiunto e arricchendo la nostra
coscienza colla nozione dello spirito naturale.
Chi
riesce a gettare uno sguardo su queste cose ne riceve una potentissima
impressione. Ma non potrà gioire a lungo di questa impressione, perché subito
dovrà chiedersi come potrà assimilare il nuovo acquisto. Ciò che è di là dal
muro sembra a tutta prima inconciliabile con ciò che è di qua. Sorge cosí il
problema della traduzione nel linguaggio contemporaneo, o meglio della
creazione di un nuovo linguaggio, e in tal modo è posta la questione della
visione del mondo, cioè di quella visione che ci deve aiutare a trovare
l’accordo col nostro uomo storico, in maniera che i suoi accenti profondi non
vengano sopraffatti dalle aspre note della coscienza razionale, o che,
inversamente, l’inestimabile luce della mente individuale non affoghi nelle
tenebre infinite dell’anima naturale. Giunti a questa questione dobbiamo
abbandonare il campo della scienza, perché ora ci occorre la decisione
creatrice, per affidare la nostra vita a questa o a quella ipotesi. Comincia qui,
in altre parole, il problema etico, senza il quale non è pensabile una visione
del mondo.
(C. G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia
moderna, Einaudi, Torino, 1973, pagg. 212-232)