Jung, L'anima dell'uomo
La cosiddetta coscienza civilizzata si è nettamente separata dagli istinti di fondo senza, però, che questi ultimi siano scomparsi. Essi hanno semplicemente perduto ogni contatto con la nostra coscienza e perciò sono costretti ad affermarsi in maniera indiretta. Ciò può verificarsi per mezzo di sintomi fisici nel caso della nevrosi, o attraverso inconvenienti di vario tipo, come stati d'animo inspiegabili, improvvise dimenticanze o errori di linguaggio. All'uomo piace credere di essere padrone della propria anima. Ma nella misura in cui egli si dimostra incapace di controllare i propri stati d'animo e le proprie emozioni, o di prendere coscienza degli infiniti modi segreti in cui i fattori inconsci arrivano a insinuarsi nei suoi propositi e nelle sue decisioni, egli non è affatto padrone di se stesso. Questi fattori inconsci debbono la loro esistenza all'autonomia degli archetipi. L'uomo moderno cerca di evitare di prendere coscienza di questa spaccatura della sua personalità istituendo un sistema di compartimenti stagni. Certi aspetti della sua vita esteriore e del suo comportamento sono mantenuti, per così dire, in zone separate e non sono mai messi a confronto fra di loro. Come esempio di questa cosiddetta psicologia a compartimenti, ricordo il caso di un alcoolizzato che si era lasciato lodevolmente influenzare da un certo movimento religioso e, affascinato dall'entusiasmo di quegli adepti, si era dimenticato di aver bisogno di bere. Ovviamente si era sparsa la voce che egli era stato miracolosamente guarito da Gesù e che perciò rappresentava un esempio vivente della grazia divina e dell'efficacia di quella particolare organizzazione religiosa. Tuttavia, dopo poche settimane di confessioni pubbliche, l'attrazione per questo avvenimento cominciò a venir meno e il buon uomo tornò a sentire il bisogno di rifocillarsi con qualche bicchierino. Così ricominciò a bere. Ma questa volta la solerte organizzazione concluse che il caso era “patologico” e non suscettibile di essere invocato a testimonianza di un intervento di Gesù e perciò lo ricoverarono in una clinica per consentire al medico di ottenere un risultato migliore di quello conseguito dal Guaritore divino.
Questo è un aspetto della moderna mentalità “culturale” che è degno di essere esplorato in quanto mostra un grado allarmante di dissociazione e di confusione psicologica.
Se, per un momento, paragoniamo il genere umano a un individuo, ci accorgiamo che esso è nelle stesse condizioni di una persona dominata da forze sconosciute; anche la razza umana si compiace di isolare alcuni problemi in compartimenti separati. Proprio per questa ragione noi dobbiamo prestare una grande attenzione a ciò che facciamo, poiché il genere umano è attualmente minacciato da pericoli mortali da esso stesso creati e che si ingigantiscono progressivamente sfuggendo al nostro controllo. Il mondo in cui viviamo è, per così dire, dissociato allo stesso modo di un nevrotico, e la Cortina di ferro denota questa simbolica linea di divisione. L'uomo occidentale, divenuto consapevole dell'aggressiva volontà di potenza dell'Est, si trova costretto ad apprestare misure di difesa di straordinaria entità, mentre va fiero, contemporaneamente, della sua virtù e delle sue buone intenzioni.
Ciò che non gli riesce di vedere è il fatto che i suoi stessi vizi, da esso ammantati di buone maniere internazionali, si vengono ritorcendo contro di lui dal mondo comunista, in maniera spudorata e sistematica. Ciò che l'Occidente ha tollerato, ma segretamente e con un leggero senso di vergogna (cioè la menzogna diplomatica, il tradimento sistematico, minacce dissimulate), ci viene restituito esplicitamente e integralmente dall'Oriente e ci inviluppa in nodi nevrotici. È il volto della sua stessa ombra demoniaca che sogghigna dall'altro versante della Cortina di ferro in faccia all'uomo occidentale.
È questo stato di cose a spiegare quel particolare sentimento di impotenza di tante persone delle società occidentali. Esse hanno cominciato a rendersi conto che le difficoltà contro cui ci dibattiamo sono essenzialmente problemi morali e che il tentativo di reagire a essi attraverso una politica di intenso armamento nucleare o di “competizione” economica è destinato a scarsi risultati poiché si tratta di un'arma a doppio taglio. Molti di noi ora capiscono che mezzi mentali e morali sarebbero più efficaci in quanto ci fornirebbero un'immunità psichica contro questa dilagante infezione.
Tuttavia questi tentativi si sono dimostrati tutti singolarmente inefficaci e tali continueranno a essere fino a che cercheremo di convincere noi stessi e il resto del mondo che solo essi (cioè gli avversari) hanno torto. Sarebbe molto più produttivo compiere un serio tentativo di prendere coscienza dell'ombra della nostra civiltà e dei suoi terribili misfatti. Se potessimo vedere la nostra ombra (cioè il lato oscuro della nostra natura), riusciremmo a immunizzarci da qualsiasi infezione e penetrazione sia morale che mentale. Allo stato attuale delle cose, noi ci rendiamo invece disponibili per ogni infezione poiché ci comportiamo praticamente nello stesso modo in cui essi agiscono. Solo che a nostro ulteriore svantaggio c'è il fatto di non vedere né di voler capire ciò che noi stessi veniamo facendo con le nostre mani, mascherandoci sotto il manto delle buone maniere.
Il mondo comunista, bisogna riconoscerlo, ha un grande mito (che noi chiamiamo un'illusione, nella vana speranza che il nostro superiore giudizio valga a farlo scomparire). Si tratta dell'antichissimo sogno archetipico di un'Età dell'Oro (o Paradiso), dove ci sarà abbondanza di tutto per tutti e grandi, giuste e sagge leggi a regolare una specie di giardino d'infanzia del genere umano. Questo potente archetipo nella sua versione infantile si è impadronito di loro, ma esso non scomparirà mai dal mondo alla semplice vista della nostra superiore civiltà. Anzi, noi ce lo trasciniamo dietro fin dalla fanciullezza poiché la civiltà occidentale è prigioniera della stessa mitologia. Inconsciamente noi nutriamo i medesimi pregiudizi, le medesime speranze, le medesime attese. Anche noi crediamo in una civiltà del benessere, nella pace universale, nell'eguaglianza degli uomini, nei suoi eterni diritti umani, nella giustizia, nella verità e (ma non diciamolo troppo ad alta voce) nel Regno di Dio sulla terra.
La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure esser certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre; se così non fosse finirebbe la vita.
Fu proprio questo conflitto interiore a guidare i primi cristiani verso l'attesa e la speranza di una prossima fine del mondo, o i buddisti a rifiutare tutti i desideri e le aspirazioni terrene. Questi atteggiamenti sarebbero stati nettamente suicidi se non fossero stati connessi con particolari idee e consuetudini mentali e morali che costituiscono il nocciolo di entrambe queste religioni e che, fino a un certo punto, tendono a modificare la loro radicale negazione del mondo.
Sottolineo questo punto perché, oggigiorno, ci sono milioni di persone che hanno perso la fede per ogni specie di religione. Esse non comprendono più la loro religione. Finché la vita scorre liscia senza la religione, la perdita non viene sentita; ma quando entra in gioco la sofferenza le cose cambiano. È a questo punto che la gente comincia a cercare una via d'uscita e a riflettere sul significato della vita e sulle sue sconcertanti e dolorose esperienze.
È significativo che lo psicologo (per mia stessa esperienza) venga consultato più da ebrei e da protestanti che da cattolici. Ciò è facilmente prevedibile poiché la Chiesa cattolica si sente ancora responsabile della cura animarum. Ma in questa epoca scientifica lo psichiatra è suscettibile di sentirsi rivolgere domande che un tempo erano prerogativa esclusiva del teologo. La gente si rende conto che molte cose sarebbero diverse per loro se credessero positivamente in un sistema significativo di vita o in Dio e nell'immortalità. Lo spettro dell'approssimarsi della morte spesso fornisce un potente incentivo a questo genere di pensieri. Fin dai tempi immemorabili, gli uomini hanno nutrito idee sul conto di un Essere Supremo (uno o diversi) e sul Signore dell'Aldilà. Solo ai nostri giorni essi pensano di poter fare a meno di queste idee.
Poiché non possiamo scoprire in cielo il trono di Dio usando un radiotelescopio o stabilire (con sicurezza) che un padre o una madre amorosi sopravvivano ancora in una forma più o meno corporea, si sostiene generalmente che queste idee “non sono vere”. Io direi piuttosto che esse non sono sufficientemente “vere” poiché si tratta di concezioni che hanno accompagnato la vita degli uomini sin dai tempi preistorici e che tuttora irrompono nella coscienza a ogni minima provocazione.
L'uomo moderno può affermare di poterne fare a meno e può sostenere la sua opinione insistendo nel dire che non esiste alcuna prova scientifica a sostegno della loro veridicità. Ovvero egli può anche rimpiangere la perdita delle sue convinzioni. Ma dal momento che si tratta di cose invisibili e inconoscibili (poiché Dio sta al di là di ogni capacità di comprensione umana e l'immortalità non è dimostrabile in alcun modo), perché dobbiamo perderci nella ricerca di prove razionali? Anche se non fossimo consapevoli della nostra necessità di consumare il sale insieme al cibo, continueremmo pur sempre a trarre vantaggio dal suo uso. Anche se sostenessimo che l'uso del sale è una semplice illusione del palato o una superstizione, esso continuerebbe a produrre un benefico effetto sulle nostre condizioni di vita. E allora, perché dovremmo fare a meno di concezioni che si dimostrano utili nei momenti di crisi e che danno un significato alla nostra esistenza?
E inoltre, come possiamo essere sicuri che tali idee non corrispondano a verità? Molti mi darebbero ragione se dicessi che esse sono probabilmente semplici illusioni; essi però non arrivano a capire che la negazione di ogni fede religiosa è altrettanto non dimostrativa quanto la sua affermazione. Noi siamo assolutamente liberi di scegliere l'uno o l'altro dei due punti di vista; tuttavia si tratta sempre di una decisione arbitraria.
In ogni caso c'è un'importante ragione pratica per la quale dovremmo essere inclini a coltivare pensieri non suscettibili di ottenere una conferma positiva: tale ragione è che essi sono notoriamente utili. L'uomo ha assolutamente bisogno di idee e convinzioni generali che diano un significato alla sua vita e che gli permettano di individuare il suo posto nell'universo. Quando è convinto che esse abbiano un senso, egli trova la forza di affrontare le più incredibili avversità; viceversa egli si sente sopraffatto quando, nel colmo della sventura, si trova costretto ad ammettere di essere coinvolto in una vicenda senza senso.
La funzione dei simboli religiosi è quella di dare un significato alla vita dell'uomo. Gli Indiani Pueblo credono di essere figli del Padre Sole e questa fede conferisce alla loro vita una prospettiva (e uno scopo) che supera di gran lunga la loro limitata esistenza. Essa consente loro di dispiegare largamente la propria personalità e di vivere una vita piena, da persone integrali. La loro condizione è infinitamente più soddisfacente di quella dell'uomo civilizzato, che è consapevole di essere (e di restare) nient'altro che uno sconfitto senza alcun profondo significato esistenziale.
Il senso di un significato superiore dell'esistenza è ciò che innalza l'uomo al di sopra della sua condizione elementare. Se gli manca questo senso egli è perduto e infelice. Se san Paolo fosse stato convinto di non essere nulla più che un errabondo tessitore di tappeti, certamente non sarebbe stato l'uomo che fu. La sua vita vera e significativa riposava sull'intima certezza di essere il messaggero del Signore. Qualcuno potrà accusarlo di essere stato un megalomane, ma un'opinione come questa si rivela inconsistente di fronte alla testimonianza della storia e al giudizio di intere generazioni. Il mito che s'impossessò di lui lo rese qualcosa di più grande del semplice artigiano che era.
Un mito di questo genere, tuttavia, è costituito da simboli che non sono stati inventati consciamente: essi si sono prodotti spontaneamente. Non fu l'uomo Gesù a creare il mito dell'uomo-Dio. Esso esisteva già da molti secoli prima della sua nascita. Egli stesso fu conquistato da questa idea simbolica che, come ci narra san Marco, lo spinse a uscire dall'ambiente ristretto della famiglia del falegname di Nazareth.
I miti risalgono a un narratore primitivo e ai suoi sogni, a uomini mossi dallo stimolo appassionato delle loro fantasie. Costoro non si differenziavano gran che da coloro che dopo molte generazioni sono stati chiamati poeti e filosofi. I narratori primitivi non si preoccupavano di conoscere l'origine delle loro fantasie; fu solo in epoche molto posteriori che ci si cominciò a chiedere da dove i racconti avessero avuto origine. Eppure, molti secoli fa, nella cosiddetta “antica” Grecia, la mente degli uomini era già sufficientemente avanzata da supporre che le storie degli dèi non fossero altro che tradizioni arcaiche deformate relative ad antichissimi re e condottieri. In altre parole si era già arrivati alla conclusione che i miti erano troppo inverosimili per significare esattamente ciò che narravano: perciò si cercò di ridurli a una forma generalmente comprensibile.
In tempi più vicini a noi abbiamo visto trattare allo stesso modo il simbolismo dei sogni. Nelle prime fasi di sviluppo della psicologia ci si rese conto dell'importanza dei sogni, ma come i greci erano giunti alla conclusione che i loro miti altro non erano che semplici elaborazioni della storia razionale o “normale”, così alcuni pionieri della psicologia conclusero che il significato dei sogni non era quello letterale. Le immagini o i simboli onirici vennero così messi in disparte alla stregua di forme bizzarre in cui i contenuti rimossi della psiche si manifestavano alla mente conscia. Perciò diventò un luogo comune il concetto che i sogni avessero un significato del tutto diverso da quello esplicito.
Ho già descritto il modo in cui giunsi a dissentire da quest'idea e a intraprendere lo studio sia della forma che del contenuto dei sogni. Per quale ragione essi dovrebbero significare qualcosa di diverso dai loro contenuti? Esiste forse qualcosa in natura che sia diverso da quello che è attualmente? Il sogno è un fenomeno normale e naturale e non significa ciò che esso non è. Anche il Talmud dice che «il sogno è tale quale viene interpretato». La confusione nasce solo per il fatto che i contenuti del sogno sono simbolici e possiedono perciò più di un significato. I simboli sono orientati in direzioni differenti da quelle che noi riusciamo a ravvisare con la mente conscia e perciò si riferiscono a qualcosa di inconscio o almeno di non completamente conscio.
Per una mentalità scientifica fenomeni come quelli rappresentati dalle idee simboliche costituiscono un serio motivo di imbarazzo poiché non possono venire formulati in termini intellettualmente e logicamente soddisfacenti. Essi però non sono l'unico caso del genere in psicologia. Le difficoltà cominciano col tentativo di definire il fenomeno dell'“affetto” o emozione che sfugge a tutti i tentativi dello psicologo di racchiuderlo in una definizione conclusiva. La causa di questa difficoltà è la stessa in entrambi i casi: si tratta cioè dell'intervento dell'inconscio.
Ho una sufficiente esperienza scientifica per rendermi conto di quanto sia imbarazzante dover studiare fatti che non possono venire completamente o adeguatamente compresi. La difficoltà di affrontare fenomeni come questi è che i fatti sono innegabili, eppure non possono essere formulati in termini razionali. Perciò bisognerebbe essere in grado di comprendere la vita in se stessa, poiché è la vita che produce emozioni e idee simboliche.
Lo psicologo accademico è perfettamente libero di non prendere in considerazione il fenomeno dell'emozione o il concetto di inconscio (o nessuno dei due contemporaneamente). Tuttavia essi rimangono fatti cui almeno lo psicologo medico deve prestare la necessaria attenzione, poiché i conflitti e l'intervento dell'inconscio sono i tratti caratteristici della sua scienza. Se tratta a fondo un paziente egli si trova a dover fare i conti con questi elementi irrazionali, duri a essere formulati in termini razionali. Perciò è del tutto normale che le persone sprovviste dell'esperienza propria dello psicologo medico riescano difficilmente ad adeguarsi quando la psicologia cessa di essere una tranquilla attività di laboratorio e diventa invece parte attiva dell'avventura della vita reale. Altro è esercitarsi al bersaglio in un poligono di tiro, altro è partecipare a una vera battaglia: il medico si trova di fronte a tutta una serie di fattori casuali caratteristici di una guerra autentica. Egli si trova ad avere a che fare con realtà psichiche, anche se non è in grado di ridurle in definizioni scientifiche. È per questo motivo che nessun manuale può insegnare la psicologia: si può imparare solo dall'esperienza diretta.
Possiamo renderci conto chiaramente di questo punto esaminando alcuni simboli ben noti.
Per esempio la croce è, nella religione cristiana, un simbolo significativo che esprime tutta una moltitudine di aspetti, idee ed emozioni; ma una croce apposta dopo un nome in una lista serve solo a indicare che quell'individuo è morto. Il fallo funge da simbolo universale nella religione indù, ma se un monello di strada ne disegna uno sopra un muro esso riflette solo il suo interesse per il proprio pene. Poiché le fantasie dell'infanzia e dell'adolescenza si prolungano spesso nella vita adulta, molti sogni rivelano inequivocabili allusioni sessuali. Sarebbe assurdo interpretarle come qualcosa d'altro. Ma quando un massone sostiene che frati e monache si debbano congiungere insieme, o un elettricista parla di maschio e di femmina a proposito della spina e della presa di corrente, sarebbe ridicolo supporre che essi indulgano a fantasie infantili ancora vive. L'elettricista usa nomi coloriti per descrivere semplicemente i suoi materiali. Quando un indù colto vi parla del lingam (il fallo che rappresenta il dio Siva nella mitologia indù), vi sentite raccontare delle cose che noi occidentali non connetteremmo mai al pene. Il lingam non è certamente un'allusione oscena, né la croce è soltanto un segno di morte. Molto dipende dalla maturità del sognante che produce queste immagini.
L'interpretazione dei sogni e dei simboli richiede intelligenza; essa non può essere ridotta a un sistema meccanico con cui imbottire cervelli privi di immaginazione. Essa richiede contemporaneamente una sempre più approfondita conoscenza dell'individualità del sognante e un corrispondente affinamento della personale consapevolezza dell'interprete. Ogni esperto in questo campo ammetterà la possibilità di ricorrere ad alcuni utili criteri empirici, ma essi devono essere tuttavia applicati con prudenza e acume. Si possono seguire scrupolosamente tutte le regole e tuttavia trovarsi a cadere nelle più terribili sciocchezze solo per il fatto di aver trascurato un dettaglio apparentemente di scarso rilievo, che tuttavia un'intelligenza più acuta non si sarebbe lasciato sfuggire. Anche un uomo di grande intelligenza può compiere gravi errori per mancanza di intuizione o di sentimento.
Quando tentiamo di interpretare i simboli ci troviamo di fronte non solo il simbolo in sé, ma l'intera totalità dell'individuo produttore del simbolo. Ciò implica lo studio della sua formazione culturale e nel corso di questo processo ci si imbatte in numerose lacune della nostra educazione. Io stesso mi sono imposto come regola di considerare ogni singolo caso come un'esperienza completamente nuova sul conto della quale non conosca neppure l'abbiccì. Le risposte usuali possono rivelarsi pratiche e utili finché si studia la superficie, ma quando si affrontano i problemi di fondo è la vita stessa a imporsi in primo piano e anche i princìpi teorici più brillanti diventano semplici parole prive di senso.
L'immaginazione e l'intuizione sono di importanza vitale per la nostra comprensione. Sebbene, secondo l'opinione popolare corrente, esse siano necessarie soprattutto al poeta e all'artista (e che per le faccende “pratiche” si debba loro prestare scarso affidamento), esse sono in realtà di altrettanta vitale importanza a tutti i livelli superiori della scienza. In questa sede svolgono un ruolo sempre più importante che soppianta quello dell'intelletto “razionale” e la sua applicazione a un problema specifico. Anche la fisica, la più rigorosa di tutte le scienze applicate, si fonda in maniera sbalorditiva sopra l'intuizione che opera per mezzo dell'inconscio (benché sia possibile dimostrare a posteriori i procedimenti logici che avrebbero potuto condurre allo stesso risultato di quello raggiunto intuitivamente).
L'intuizione è pressoché indispensabile nell'interpretazione dei simboli e spesso può assicurare la loro immediata comprensione da parte del sognante. Tuttavia una fortunata intuizione può essere altrettanto convincente da un punto di vista soggettivo, quanto pericolosa. Essa può suggerire un falso sentimento di sicurezza. Per esempio, può spingere sia l'interprete che il sognante a proseguire in una comoda e relativamente facile relazione suscettibile di sfociare in una specie di sogno reciproco. La base sicura di un'effettiva conoscenza intellettuale e di una comprensione morale va perduta se ci si lascia sopraffare dalla soddisfazione di aver capito per intuito. Si può giungere a spiegare e conoscere davvero solo riducendo le intuizioni a un'esatta conoscenza dei fatti e delle loro connessioni logiche.
Un onesto ricercatore deve ammettere di non essere sempre in grado di seguire questo procedimento; tuttavia, sarebbe disonesto non tenerlo sempre presente. Anche lo scienziato è un essere umano e perciò è naturale che egli, come tanti altri, sia portato a odiare le cose che non riesce a spiegare. È un'illusione comune credere che quanto conosciamo oggigiorno esaurisca il campo totale dello scibile. Nulla è più vulnerabile della teoria scientifica, che costituisce solo un tentativo effimero di spiegare alcuni fatti e non una verità eterna in sé compiuta.
(Carl Gustav Jung)