In questa lettura viene messo a
fuoco da Kant il problema del finalismo. Il giudizio riflettente tratta delle
cose che appaiono a noi secondo un principio generale in cui assumono un senso:
esso è l’ordinamento finalistico della natura, che è un sistema universale a
cui sembrano conformarsi le sue leggi particolari. Il valore di questo schema
generale è però soltanto soggettivo.
I. Kant, Critica del giudizio,
Prima introduzione, V
Il potere di giudicare
riflettente tratta dunque di apparenze date, per collocarle sotto concetti
empirici di cose naturali determinate, non schematicamente, ma tecnicamente, e
nemmeno in modo puramente meccanico, come strumenti sotto operazione
dell’intelletto e del senso, ma artisticamente, secondo il principio generale,
sebbene indeterminato di un ordinamento finalistico della natura in un sistema,
similmente a favore del nostro potere di giudicare, nella conformità delle sue
leggi particolari (sulle quali nulla dice l’intelletto) alla possibilità
dell’esperienza come di un sistema: senza il qual presupposto noi non potremmo
sperare di trovarci la strada in un labirinto della molteplicità di possibili
leggi particolari. Il potere di giudicare esso stesso si fa dunque a priori
della tecnica della natura un principio della sua riflessione, senza però poter
questa spiegare né determinare piú esattamente o avere per questo un fondamento
di determinazione oggettiva dei concetti generali della natura (da una
conoscenza delle cose in se stesse), ma solo secondo la sua propria legge
soggettiva, secondo la sua esigenza di poter riflettere pur tuttavia
concordemente con le leggi della natura in generale.
Il principio proprio del potere
di giudicare è dunque: “la natura specifica le sue leggi universali in leggi
empiriche, in armonia con la forma di un sistema logico per uso del potere di
giudicare”.
Qui viene a presentarsi ora il
concetto di una finalità della natura, e appunto come un principio proprio del
giudizio riflettente, non della ragione; in quanto il fine non viene posto
nell’oggetto, ma esclusivamente nel soggetto e precisamente nella sua mera
facoltà di riflettere. Poiché noi diciamo finalistico ciò, la cui esistenza
sembra presupporre una rappresentazione della cosa stessa; mentre le leggi di
natura, che sono cosí costituite e in relazione reciproca come se il potere di
giudicare le avesse progettate per il suo proprio fabbisogno, hanno somiglianza
con la possibilità delle cose, che presuppone una rappresentazione di queste
come fondamento di esse. Dunque il potere di giudicare concepisce mediante il
suo principio una finalità della natura, nella specificazione delle sue forme
mediante leggi empiriche.
Con questo però non vengono
pensate come finalistiche le forme stesse, ma soltanto la loro relazione
reciproca e la convenienza, nella loro grande molteplicità, di un sistema
logico di concetti empirici. Ora, se la natura non ci mostrasse piú che questa
finalità logica, avremmo già ben motivo di ammirarla per questo, in quanto
secondo le leggi universali dell’intelletto non ne sappiamo dare alcun
fondamento; ma di cotale ammirazione difficilmente sarebbe capace ogni altro
che un filosofo trascendentale, e anche costui non potrebbe citare nessun caso
determinato in cui questa finalità si mostri in concreto, ma dovrebbe pensarla
solo in generale.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol.
XVII, pagg. 326-327