Nella parte finale della Analitica trascendentale Kant
ribadisce la necessità di un contenuto empirico della conoscenza: le categorie
non sono altro che forme pure, che da sole non producono alcuna conoscenza. La
centralità del dato sensibile nel processo conoscitivo non consente però di
ignorare che le rappresentazioni delle intuizioni empiriche sono come orme
lasciate dagli oggetti nella nostra sensibilità e che quindi non sono
identificabili con gli oggetti stessi. Dobbiamo cosí pensare a una realtà
dell’oggetto che non riusciamo a percepire con i sensi e, dunque, a conoscere:
l’“oggetto in sé”, inconoscibile e pure pensabile, un ente soltanto pensabile,
un noumeno.
I. Kant, Critica della ragion
pura, Parte II, Analitica trasc., II, cap. III
Il pensiero
è l’operazione di riferire un’intuizione data a un oggetto. Se la maniera di
questa intuizione non è data in nessun modo, l’oggetto è puramente
trascendentale, e il concetto dell’intelletto non ha altro uso che
trascendentale, cioè quello della unità del pensiero di un molteplice in
generale. Ora mediante una categoria pura - nella quale si astrae da ogni
condizione dell’intuizione sensibile, come dell’unica per noi possibile - non
viene dunque determinato nessun oggetto, ma solo espresso in diversis modis
il pensiero di un oggetto in generale. All’uso di un concetto occorre ancora
una funzione del giudizio, secondo la quale un oggetto viene sussunto in
quello: dunque la condizione almeno formale, sotto la quale alcunché può essere
dato nell’intuizione. Se manca questa condizione del giudizio (schema), ogni
distinzione cade; poiché nulla viene dato che possa esser sussunto nel
concetto. L’uso puramente trascendentale delle categorie non è dunque, nel
fatto, alcun uso, e non ha oggetto determinato o anche solo determinabile
secondo la forma. Da ciò segue, che anche la categoria pura non è sufficiente
per nessun principio fondamentale sintetico a priori, e che i princípi
fondamentali dell’intelletto puro sono soltanto di uso empirico, mai
trascendentale, mentre che al di sopra del terreno dell’esperienza possibile
non vi possono essere, in generale, princípi sintetici a priori.
Può essere
pertanto consigliabile di esprimersi cosí: le categorie pure, senza condizioni
formali della sensibilità, hanno significato puramente trascendentale, ma non
sono d’uso trascendentale, perché questo è in se stesso impossibile, in quanto
mancano loro le condizioni di qualsiasi uso (nei giudizi), cioè le condizioni
formali della sussunzione, in questi concetti, di un qualsiasi oggetto
supponibile. Poiché esse dunque (come semplicemente categorie pure) non devono
essere di uso empirico e non possono essere di uso trascendentale, non hanno
nessun uso quando vengano separate dalla sensibilità, ossia non possono venir
applicate a nessun oggetto ipotetico. Piuttosto, esse sono semplicemente la
forma pura dell’uso dell’intelletto in rapporto agli oggetti in generale e al
pensiero, senza però poter pensare o determinare mediante esse sole alcun
oggetto.
Intanto si trova
qui, alla base, un’illusione difficile a evitare. Le categorie, secondo la loro
origine, non si fondano sulla sensibilità, come le forme dell’intuizione,
spazio e tempo; sembrano dunque ammettere un’applicazione ampliata oltre tutti
gli oggetti dei sensi. Ma esse non sono per parte loro, una volta ancora,
nient’altro che forme del pensiero, che semplicemente contengono la possibilità
logica, di unificare in una coscienza a priori il molteplice dato
nell’intuizione. E perciò, quando si tolga loro l’unica intuizione per noi
possibile, esse possono avere ancor meno significato che quelle forme sensibili
pure, mediante le quali ancora almeno vien dato un oggetto; mentre che una
maniera di unificazione del molteplice propria del nostro intelletto, se non interviene
quell’intuizione in cui soltanto questo molteplice può esser dato, non
significa nulla.
Tuttavia
nel nostro concetto, quando denominiamo certi oggetti fenomeni, enti sensibili
(phaenómena), distinguendo il nostro modo di intuirli dalla loro natura
in sé, c’è già che noi, per dir cosí, contrapponiamo ad essi o questi oggetti
stessi in questa loro natura in sé (quantunque in essa noi non li intuiamo), o
anche altre cose possibili, ma che non sono per niente oggetto dei nostri
sensi, come oggetti semplicemente pensati dall’intelletto, e li chiamiamo enti
intelligibili (noúmena). Ora si domanda se i nostri concetti
intellettuali puri non abbiano significato in relazioni a questi ultimi
[noumeni], e non possano essere una maniera di conoscenza di essi.
Ma fin da
principio si rivela qui un’ambiguità, che può dar occasione a grave
fraintendimento: che, siccome l’intelletto, quando esso denomina semplicemente
fenomeno un oggetto in una relazione, oltre a questa relazione si fa pure una
rappresentazione di un oggetto in se stesso e perciò si rappresenta la facoltà
di poter formare anche concetti di cotali oggetti e - siccome l’intelletto non
ne fornisce altri che le categorie - l’oggetto nel secondo significato dovrebbe
almeno poter essere pensato mediante questi concetti intellettuali puri. Ma con
ciò l’intelletto vien traviato a considerare il concetto interamente
indeterminato di un ente intellettuale come un qualche cosa di generalmente
esterno alla nostra sensibilità, come un concetto determinato di un’essenza,
che noi possiamo in qualche maniera conoscere mediante l’intelletto.
Se noi per
noumeno intendiamo una cosa, in quanto essa non è oggetto della nostra
intuizione sensibile, in quanto astraiamo dalla nostra maniera di intuirla,
questo è un noumeno di significato negativo. Ma se noi per esso intendiamo un
oggetto di una intuizione non sensibile, assumiamo una particolare maniera di
intuizione, cioè l’intellettuale, che però non è la nostra e della quale non
possiamo neppure intravedere la possibilità, e questo sarebbe il noumeno di
significato positivo.
La dottrina
della sensibilità è allora in pari tempo la dottrina dei noumeni di significato
negativo, ossia di cose, che l’intelletto deve pensare senza questa relazione
alla nostra maniera di intuire, dunque non semplicemente come fenomeni, ma come
cose in se stesse, delle quali esso però in tale separazione concepisce ad un
tempo, che non potrebbe fare nessun uso delle sue categorie per considerarle in
tal modo, perché queste hanno significato solo in relazione all’unità delle
intuizioni nello spazio e nel tempo, ma appunto possono determinare questa
unità mediante concetti universali di connessione a priori solo a causa della
pura idealità dello spazio e del tempo. Dove non si può trovare questa unità temporale,
precisamente nel noumeno, cessa pienamente l’intero uso, anzi ogni significato
delle categorie; perché nemmeno si lascia piú intravedere la possibilità delle
cose, che devono corrispondere alle categorie. Ma la possibilità di una cosa
non può essere mai dimostrata solamente movendo dalla non contraddittorietà di
un concetto di essa, ma solo mediante il fatto che si prova questo con
un’intuizione a esso corrispondente. Quando noi dunque volessimo applicare le
categorie a oggetti, che non vengono considerati come fenomeni, dovremmo porne
a fondamento una intuizione diversa dalla sensibile, e allora l’oggetto sarebbe
un noumeno di significato positivo. Siccome una intuizione siffatta, ossia
intellettuale, si trova assolutamente all’infuori della nostra facoltà di
conoscere, anche l’uso delle categorie non può in alcun modo estendersi oltre i
limiti degli oggetti dell’esperienza. E se agli enti sensibili corrispondono
certamente essenze intellettuali, si possono dare anche essenze intellettuali
con le quali la nostra facoltà d’intuizione sensibile non ha relazione alcuna:
ma i nostri concetti dell’intelletto, come pure forme di pensiero per la nostra
intuizione sensibile, non si estendono minimamente fino ad essi. Pertanto ciò
che da noi vien denominato noumeno, deve come tale essere inteso soltanto con
significato negativo. [...]
Il concetto
di un noumeno è dunque solamente un concetto limite, per delimitare la misura
della sensibilità, e dunque soltanto di uso negativo. Esso non è tuttavia
costruito arbitrariamente, ma è connesso con la limitazione della sensibilità,
senza poter porre però alcunché di positivo all’infuori dell’estensione di
essa.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 246-249)