La pagina che segue conclude il cap.3 della seconda sezione dell'Analitica trascendentale. In essa Kant mette a tema uno dei problemi più caratteristici del proprio pensiero: la distinzione di fenomeno‑noumeno. La sua importanza va posta in relazione alla parabola della filosofia moderna ed al ruolo che Kant gioca rispetto ad essa. Come si è già visto, Cartesio, cercando nel pensiero il criterio dell'evidenza a partire dal quale costruire la filosofia, ha poi finito per elaborare una prospettiva gnoseologica secondo la quale il soggetto conosce idee e non oggetti, aprendo una frattura tra il pensiero e la realtà che la filosofia faticherà a ricomporre nei secoli successivi. Tale frattura, cui si dà il nome di dualismo gnoseologico o gnoseologismo, attraversa l'intero pensiero moderno e proprio in Kant trova il proprio estremo raffinato sostenitore. Nel criticismo non vale più che l'oggetto della conoscenza siano le idee: oggetto della conoscenza è il materiale di sensazione, opportunamente "lavorato" dalla sensibilità. Ciò nonostante, e proprio in virtù della "rivoluzione copernicana", il problema di Kant rimane analogo a quello di Cartesio. Se noi conosciamo gli oggetti secondo i modi della nostra conoscenza, questo significa che, in senso proprio, noi non conosciamo gli oggetti come essi sono in realtà, ma come ci appaiono, come essi risultano dall'incontro con le nostre strutture conoscitive. La realtà in sé rimane consegnata all'inconoscibilità. Tale realtà in sé è definita da Kant noumeno ("pensabile", participio medio del verbo greco noéo, pensare): essa è ciò che in senso proprio non si può conoscere ma che tuttavia è necessario pensare come concetto‑limite (Grenzbegriff) del nostro conoscere. Cerchiamo, allora, di seguire attentamente Kant nel suo discorso per verificare quanto abbiamo qui rapidamente anticipato.
L'uso trascendentale di un concetto, in un principio qualsiasi, è questo: che esso vien riferito alle cose in generale e in se stesse, laddove l'uso empirico si ha quando esso vien riferito solo a fenomeni, cioè a oggetti di una esperienza possibile. Ma che, in ogni caso, solo il secondo sia possibile, si vede da questo. Per ogni concetto si richiede in primo luogo la forma logica di un concetto (del pensiero in generale), e poi, in secondo luogo, anche la possibilità di dargli un oggetto al quale esso si riferisca. Senza quest'ultimo, è privo di senso e affatto vuoto di contenuto, sebbene possa sempre contenere la funzione logica di formare da certi dati un concetto. Ora l'oggetto non può esser dato a un concetto se non nell'intuizione; e quantunque una intuizione pura sia possibile anche prima dell'oggetto, a priori, nondimeno né anche essa può avere il suo oggetto, e quindi validità oggettiva, se non per mezzo dell'intuizione empirica, della quale è la semplice forma. Sicché tutti i concetti, e con essi tutti i princìpi, per quanto siano possibili a priori, pure si riferiscono a intuizioni empiriche, cioè a dati per l'esperienza possibile. Senza di che non hanno mai validità oggettiva di sorta ma si riducono a un semplice giuoco, o della immaginazione o dell'intelletto, con le loro rispettive rappresentazioni.[1] Si prendano, ad esempio, i concetti della matematica, e prima nelle loro intuizioni pure. Lo spazio ha tre dimensioni, fra due punti non ci può essere se non una sola linea retta, e così via. Sebbene tutti questi princìpi, e la rappresentazione dell'oggetto di cui questa scienza si occupa, sian prodotti interamente a priori nello spirito, tuttavia essi non significherebbero nulla, se noi non potessimo sempre additare il loro significato nei fenomeni (oggetti empirici). Quindi si richiede, altresì, che si renda sensibile un concetto astratto, cioè che si presenti nell'intuizione l'oggetto che gli corrisponde, poiché senza di questo il concetto rimarrebbe, come si dice, senza senso, cioè senza significato. La matematica adempie questa esigenza con la costruzione della figura, la quale è un fenomeno presente ai sensi (sebbene prodotta a priori). Il concetto della quantità cerca, nella stessa scienza, il suo punto d'appoggio e il suo significato nel numero, e questo, alla sua volta, nelle dita, nei coralli del pallottoliere, o nei trattolini e punti che vengon messi dinanzi agli occhi. Il concetto rimane sempre prodotto a priori, insieme coi princìpi o con le formule sintetiche che ne derivano; ma il loro uso e la loro relazione con presunti oggetti non possono infine esser cercati altrove che nell'esperienza, di cui essi contengono a priori la possibilità (per la forma).
Che avvenga lo stesso delle categorie tutte e dei princìpi che ne derivano, risulta anche dal fatto che di nessuna di esse noi possiamo dare una definizione reale cioè rendere comprensibile la possibilità del suo oggetto, senza ricorrere subito a condizioni della sensibilità, quindi alla forma dei fenomeni, come quelli ai quali di necessità debbono limitarsi, come a loro unico oggetto; poiché, se vien tolta questa condizione, cade ogni significato, cioè ogni rapporto all'oggetto, e non possiamo più comprendere con nessun esempio, qual genere di cosa si intenda propriamente con siffatti concetti.[2]
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L'Analitica trascendentale pertanto ha questo importante risultato, che l'intelletto a priori non può mai far altro che anticipare la forma di una esperienza possibile in generale: e poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetto dell'esperienza, l'intelletto non può mai sorpassare i limiti della sensibilità, dentro i quali soltanto ci sono dati oggetti. I suoi sono semplicemente princìpi dell'esposizione dei fenomeni, e l'orgoglioso nome di Ontologia, che presume di dare in una dottrina sistematica conoscenze sintetiche a priori delle cose in generale (per es., il principio di causalità), deve cedere il posto a quello modesto di semplice Analitica dell'intelletto puro.[3]
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Tuttavia nel nostro concetto, quando denominiamo certi oggetti, come fenomeni, esseri sensibili (phaenomena), distinguendo il nostro modo di intuirli dalla loro natura in sé, c'è già che noi, per dir così, contrapponiamo ad essi o gli oggetti stessi in questa loro natura in sé (quantunque in essa noi non li intuiamo), o anche altre cose possibili, ma che non sono punto oggetti dei nostri sensi, come oggetti pensati semplicemente dall'intelletto, e li chiamiamo esseri intelligibili (noumena). Ora, si domanda se i nostri concetti puri dell'intelletto rispetto a questi ultimi non abbiano un valore, e se di essi non possano essere una specie di conoscenza.
Ma qui si presenta subito un equivoco, che può dare occasione a un grosso malinteso, e cioè: che poiché l'intelletto, quando chiama semplicemente fenomeno un oggetto che è in una relazione, si fa ad un tempo, fuori di questa relazione, ancora una rappresentazione di un oggetto in sé, e quindi si immagina di potersi parimenti far dei concetti di tali oggetti; e poiché l'intelletto non fornisce altri concetti che le categorie, l'oggetto, nell'ultimo significato, si immagina che debba poter esser pensato almeno mediante codesti concetti puri dell'intelletto; ma così è indotto a ritenere un concetto affatto indeterminato di un essere intelligibile, come qualcosa in generale al di là della nostra sensibilità, per un concetto determinato di un essere, che noi possiamo in qualche modo conoscere mercé dell'intelletto. Se noi intendiamo per noumeno una cosa, in quanto essa non è oggetto della nostra intuizione sensibile, astraendo dal nostro modo d'intuirla, essa è un noumeno in senso negativo. Ma, se per esso invece intendiamo l'oggetto d'una intuizione non sensibile, allora supponiamo una speciale maniera di intuizioni, cioè l'intellettuale, la quale però non è la nostra, e della quale non possiamo comprendere nemmeno la possibilità; e questo sarebbe il noumeno in senso positivo.[4]
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Se io sottraggo ogni pensiero (per categorie) da una conoscenza empirica, non resta più nessuna conoscenza di un qualsiasi oggetto; giacché con la sola intuizione nulla assolutamente vien pensato, e il fatto che c'è in me questa affezione della sensibilità, non costituisce relazione di sorta di tale rappresentazione con un qualsiasi oggetto. Se invece io sottraggo ogni intuizione, mi rimane ancora la forma del pensiero, cioè la maniera di assegnare un oggetto al molteplice d`una intuizione possibile. Le categorie quindi si estendono più in là dell'intuizione sensibile, poiché pensano oggetti in generale, senza ancora guardare alla speciale maniera (di sensibilità), nella quale gli oggetti possono esserci dati. Ma esse non determinano perciò una sfera di oggetti più grande, poiché non è ammissibile che tali oggetti possano esser dati senza presupporre come possibile una specie di intuizione diversa dalla sensibile; al che non siamo in nessun modo autorizzati.[5]
Chiamo problematico un concetto che non contiene contraddizione, e che, come limitazione di concetti dati, si connette anche con altre conoscenze ma la cui verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta. Il concetto di un noumeno, cioè di una cosa che deve esser pensata non come oggetto dei sensi, ma come cosa in sé (unicamente per l'intelletto puro), non è per niente contraddittorio; giacché non si può della sensibilità asserire che sia l'unico modo possibile di intuzione. Anzi, questo concetto è necessario, acciò l'intuizione sensibile non venga estesa fino alle cose in sé, e sia così limitata la validità oggettiva della conoscenza sensibile; (giacché le restanti cose, a cui quella non giunge, si chiamano appunto per ciò noumeni, per indicare così che tale conoscenza non può estendere il suo dominio anche a ciò che pensa l'intelletto). Ma, in fine, nemmeno della possibilità di tali noumeni è possibile punto rendersi conto e il territorio di là dalla sfera dei fenomeni (per noi) è vuoto; cioè, noi abbiamo un intelletto, che si estende al di là problematicamente, ma non una intuizione, e neppure il concetto d'una possibile intuizione, onde possano esser dati oggetti fuori del campo della sensibilità, e l'intelletto possa essere usato al di là di essa in modo assertorio. Il concetto di noumeno è dunque solo un concetto limite (Grenzbegriff), per circoscrivere le pretese della sensibilità, e di uso, perciò, puramente negativo.[6] Ma esso tuttavia non è foggiato ad arbitrio, sibbene si connette colla limitazione della sensibilità, senza poter nondimeno porre alcunché di positivo al di fuori del dominio di essa. Non può dunque ammettersi punto in senso positivo la divisione degli oggetti in fenomeni e noumeni, e del mondo in sensibile e intelligibile, sebbene i concetti consentano sempre di esser divisi in sensibili e intellettuali; giacché a questi ultimi non si può assegnare nessun oggetto, né essi perciò possono valere oggettivamente. Se ci si allontana dai sensi come concepire che le nostre categorie (che sarebbero i soli concetti rimanenti per i noumeni) significhino ancora qualche cosa dal momento che per il loro rapporto ad un qualsiasi oggetto dovrebbe esser dato qualcosa più che la semplice unità nel pensiero e cioè inoltre una intuizione possibile, a cui applicarle? Il concetto di noumeno, preso solo problematicamente, rimane, ciò malgrado, non soltanto ammissibile, ma anzi inevitabile, come concetto che limita la sensibilità. Ma, allora, esso non è un particolare oggetto intelligibile per il nostro intelletto; ma un intelletto, al quale esso appartenesse, sarebbe già di per sé un problema, in quanto intelletto capace di conoscere il proprio oggetto non discorsivamente, mediante le categorie, ma in modo intuitivo, con una intuizione non sensibile; né della possibilità di tale oggetto noi possiamo farci la più piccola idea. Ora il nostro intelletto riceve in tal modo una estensione negativa, cioè non viene limitato dalla sensibilità, ma piuttosto la limita, pel fatto che chiama le cose in sé (non considerate come fenomeni) noumeni.[7]
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(Traduzione di Gentile e Lombardo Radice)
[1] Gran parte del significato profondo del dualismo gnoseologico kantiano è già anticipato in questo limpidissimo passaggio, Secondo Kant si danno due "usi" di un concetto:
a) un uso puro o trascendentale, che consiste nel riferire il concetto alle cose come realmente sono in se stesse;
b) un uso empirico, che consiste nel riferire il concetto solo a fenomeni, cioè a quanto ci attesta la nostra esperienza,
Ora, secondo Kant, solo il secondo tipo di uso è possibile al nostro intelletto, Vediamo perché,
In forza della "rivoluzione copernicana" annunciata nella Prefazione alla seconda edizione della Critica, è chiara ormai l'impostazione della gnoseologia kantiana: in qualsiasi conoscenza e per ogni concetto è necessario anzitutto che si dia la sua forma logica, pensata come una struttura dell'intelletto stesso, In altre parole, è impossibile una conoscenza senza una forma del nostro intelletto che presieda ad essa: quindi, non potremmo dire che x è causa di y, se non possedessimo il concetto di causa/effetto tra le strutture conoscitive del nostro intelletto,
Ora, è però altrettanto chiaro che senza qualcosa che dia contenuto a queste forme, non si dà conoscenza alcuna, In questo senso solo un uso empirico dell'intelletto è possibile per Kant, Infatti i concetti rimangono forme vuote se non vengono applicati alle intuizioni empiriche, cioè ai dati d'esperienza spazio_temporalizzati,
[2] Kant fornisce la dimostrazione di quanto ha appena affermato, I numeri della matematica o i principi della geometria, non avrebbero alcun senso se non si potesse indicare nell'esperienza il loro significato: tale esperienza potranno essere le palline di un pallottoliere o delle linee tracciate su un foglio di carta, Allo stesso modo si può pensare il significato delle categorie solo esibendo i fenomeni ai quali esse si possono applicare, altrimenti, come dice bene Kant, cade ogni significato e non si riesce più a capire che cosa si intenda con tali oggetti,
[3] Kant riassume sinteticamente qui il risultato di tutta l'Analitica trascendentale, L'intelletto, con le sue categorie, può soltanto anticipare la forma di una possibile esperienza, cioè può affermare a priori che qualsiasi oggetto della nostra conoscenza sarà pensato secondo quantità e qualità, causa/effetto, permanenza, ecc, Ma siccome l'esperienza si può dare soltanto dei fenomeni, l'intelletto non può mai conoscere nulla che trascenda i limiti della sensibilità,
[4] Due sottolineature a proposito di questo passo, Anzitutto Kant distingue tra fenomeno e noumeno: chiama fenomeni gli oggetti in quanto intuiti secondo il nostro modo di intuirli (mediante spazio e tempo); chiama noumeni sia gli oggetti come essi sono in sé, a prescindere dal nostro modo di intuirli, sia come oggetti che non cadono sotto i nostri sensi e possono comunque essere colti dal puro intelletto, E siamo alla seconda osservazione, Kant distingue tra due significati del noumeno: noumeno è in un primo senso (negativo) ciò che non non è oggetto della nostra intuizione sensibile, in un secondo senso (positivo) l'oggetto d'una intuizione non sensibile, Si capirà dal seguito della lettura che, per Kant, si può parlare di noumeno correttamente solo nel primo senso, poiché il nostro intelletto è tale da non poter cogliere nessun oggetto se non per mezzo di una intuizione sensibile,
[5] Tipica affermazione kantiana: le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza!
[6] Il concetto di noumeno per Kant è un concetto problematico, cioè logicamente possibile, Infatti non implica contraddizione per il pensiero ipotizzare l'esistenza di una realtà in sé oltre i fenomeni, Solo che di questa realtà non si può pensare il contenuto perché trascende la nostra sensibilità marcandone contemporaneamente i limiti, Per questo Kant usa in merito ad esso la famosa definizione di Grenzbegriff, concetto limite,
[7] Kant dirime la questione precedentemente impostata delle due definizioni, "in negativo" ed "in positivo", del noumeno, Alla luce di quanto è venuto dicendo si può concludere che di quelle solo la definizione "in negativo" si può ritenere valida: perché valga anche la seconda sarebbe indispensabile pensare ad un intelletto capace di intuire oggetti intelligibili, mentre il nostro riesce al massimo a fare ordine tra il materiale di sensazione!