Kant rifiuta di considerare il
male una caratteristica “naturale” dell’uomo: essa, infatti, non può essere
dedotta dal concetto di uomo; mentre è naturale la libertà di cui l’uomo gode:
dunque la responsabilità del male operato dagli uomini può essere attribuita
agli uomini soltanto.
I. Kant, La religione entro i
limiti della sola ragione, cap. I, Parte III
La frase: l’uomo è cattivo,
non può, dopo ciò che precede, voler dire altra cosa che questo: l’uomo è
consapevole della legge morale, ed ha tuttavia adottato per massima di
allontanarsi (occasionalmente) da questa legge. La frase: l’uomo è cattivo
per natura significa solo che tale qualità viene riferita all’uomo,
considerato nella sua specie: non nel senso che la cattiveria possa essere
dedotta dal concetto della specie umana (dal concetto d’uomo in generale,
poiché allora sarebbe necessaria); ma nel senso che, secondo quel che di lui si
sa per esperienza, l’uomo non può essere giudicato diversamente, o, in altre
parole, che si può presupporre la tendenza al male come soggettivamente
necessaria in ogni uomo, anche nel migliore. Ora, questa tendenza bisogna
considerarla essa stessa come moralmente cattiva, e perciò non come una
disposizione naturale, ma come qualche cosa che possa essere imputato all’uomo,
e bisogna quindi che essa consista in massime dell’arbitrio contrarie alla
legge. Ma, d’altronde, queste massime, in ragione appunto della libertà,
bisogna che siano ritenute in se stesse contingenti, cosa che, a sua volta, non
può accordarsi con l’universalità di questo male se il fondamento supremo
soggettivo di tutte le massime non è, in un modo qualsiasi, connaturato con la
stessa umanità e quasi radicato in essa. Ammesso tutto ciò, potremo allora
chiamare questa tendenza una tendenza naturale al male, e, poiché bisogna pur
sempre che essa sia colpevole per se stessa, potremo chiamarla un male
radicale, innato nella natura umana (pur essendo, ciò non di meno, prodotto
a noi da noi stessi).
Che una tale tendenza depravata
sia di necessità radicata nell’uomo, possiamo risparmiarci di dimostrarlo
formalmente, data la quantità di esempi palpitanti che, nei fatti degli
uomini, l’esperienza ci pone sotto gli occhi.
(I. Kant, La religione entro i
limiti della sola ragione, Laterza, Bari, 1980, pagg. 32-34)