Dopo avere analizzato
l’intelletto come terreno delle regole certe che consentono di formulare
proposizioni vere, e riconoscibili come tali, relative ai dati dell’esperienza
e al mondo dei fenomeni, Kant paragona la ragione a un campo di battaglia, dove
i diversi “concetti puri” si sono affrontati per secoli come cavalieri
vigorosi, ma senza speranza di vittoria (le vittorie sono state solo apparenti
perché molto spesso si è proibito a uno dei due contendenti di proseguire la
lotta). Per uscire da questa contraddizione permanente l’unica via - a giudizio
di Kant - è accettarla consapevolmente; per restare nella metafora, porsi sul
campo di battaglia come giudice neutrale e aspettare il combattimento sia
finito: cosí i contendenti si renderanno conto che la vittoria è impossibile e
si separeranno da buoni amici.
I. Kant, Critica della ragion
pura, Parte II, Dialettica trasc., II, cap. II, sez. II
Se “Tetica”
è ogni insieme di dottrine dogmatiche, io intendo per “Antitetica” non
affermazioni dogmatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo
l’apparenza (thesis cum antithesi), senza che si attribuisca ad arbitrio
alcun diritto di prevalenza all’una piuttosto che all’altra. L’Antitetica non
si occupa dunque affatto di affermazioni unilaterali, ma considera cognizioni
universali della ragione soltanto in base alla loro contraddizione reciproca e
alle cause di questa. L’Antitetica trascendentale è una ricerca sull’antinomia
della pura ragione, e sulle cause e il risultato di essa. Se noi impieghiamo la
nostra ragione non solo per l’uso dei princípi fondamentali dell’intelletto su
oggetti dell’esperienza, ma ci arrischiamo a estendere l’uso della ragione
oltre i limiti dell’esperienza, ne scaturiscono proposizioni sofistiche,
che dall’esperienza non possono né sperare conferma né temere confutazione;
ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova
perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità, solo che,
disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e
necessarie di affermazione.
Le
questioni che si presentano spontaneamente in una siffatta dialettica della
ragion pura, sono: 1) in quali proposizioni dunque la ragion pura sia
propriamente soggetta a un’antinomia; 2) da quali cause dipenda questa
antinomia; 3) se e in qual maniera in mezzo a tale contraddizione rimanga
tuttavia aperta alla ragione una via verso la certezza.
Un teorema
dialettico della ragion pura deve pertanto avere in sé questo momento di
distinzione da tutte le proposizioni sofistiche, che esso non concerne una
questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma
una questione in cui deve necessariamente imbattersi ogni ragione umana nel suo
processo; e in secondo luogo, che cosí essa come la contraria porti con sé non
soltanto una apparenza artificiosa, che se uno l’esamina, dilegua subito, ma
una apparenza naturale e inevitabile, che, anche quando uno non ne sia piú
ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca piú a gabbare; e però può
bensí essere resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.
Una
dottrina dialettica siffatta non si riferirà all’unità nell’intelletto dei
concetti dell’esperienza, ma all’unità nella ragione delle pure idee: le
condizioni di questa [dottrina] - dato che essa deve essere congruente con la
ragione, prima di tutto, come sintesi secondo regole, deve accordarsi con
l’intelletto, e ad un tempo, come unità assoluta della ragione, con la ragione
stessa - quando la dottrina sia adeguata all’unità della ragione, saranno
troppo grandi per l’intelletto, e, se proporzionate all’intelletto, troppo
piccole per la ragione. Da ciò deve pertanto scaturire una contraddizione, che
non può essere evitata, sebbene si possa porvi mano come si vuole.
Queste
affermazioni sofistiche aprono dunque un campo di sfida dialettica, in cui ha
il sopravvento quella parte che ha il permesso di passare all’attacco, mentre
rimane certamente sopraffatta quella parte che è costretta a restare soltanto
sulla difensiva. Perciò pure i cavalieri vigorosi, si impegnino essi per la
buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria
se soltanto curano di avere la prerogativa di condurre l’ultimo attacco e non
si trovano costretti a sostenere un ultimo assalto dell’avversario. Come si può
facilmente immaginare questo terreno di scontri nel passato è stato calpestato
abbastanza spesso e molte vittorie vi sono state conquistate da ambe le parti,
ma per l’ultima vittoria che decide della causa, è stato sempre provveduto
affinché il difensore della buona causa rimanesse egli solo padrone del campo,
poiché al suo avversario venne proibito di impugnare oltre le armi. Come
giudici di campo imparziali noi dobbiamo metter del tutto da parte se sia la
buona o la cattiva causa quella per cui si battono i contendenti, e lasciarli
dapprima definire la questione tra loro. Può darsi che, dopo essersi a vicenda
piú affaticati che offesi, essi comprendano da sé la nullità del loro
contendere e si separino da buoni amici.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1971, vol. XVII, pagg. 252-254)