Nel 1784 il mensile berlinese
“Berlinische Monatsschrift” pone agli intellettuali tedeschi una domanda: “Che
cosa è l'illuminismo?” (Was ist
Aufklärung?). Lo scopo dichiarato è quello di “illuminare noi e i nostri
concittadini. Il rischiaramento di una città grande come Berlino presenterà
ostacoli; se però essi sono rimossi, la luce si propagherà non soltanto in
provincia, ma anche nell'intero paese. E quanto felici noi saremmo se anche
soltanto alcune scintille qui prodotte diffondessero con il tempo una luce
sull'intera Germania nostra patria comune!”. Nel dicembre 1784 Immanuel Kant
pubblicò sulla stessa rivista la celebre “Risposta alla domanda: Che cosa è
l'illuminismo?”.
Proponiamo la lettura del testo
kantiano nella traduzione di Piero Martinetti (1872-1943), uno dei massimi
studiosi italiani del kantismo.
I. Kant, Risposta alla domanda:
Che cosa è l'illuminismo?
Illuminismo
(Aufklärung) è la liberazione dell'uomo dallo stato volontario di
minorità intellettuale. Dico minorità intellettuale, l'incapacità di servirsi
dell'intelletto senza la guida d'un altro. Volontaria è questa minorità quando
la causa non sta nella mancanza d'intelletto, ma nella mancanza di decisione e
di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il
coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! Questo è il motto
dell'illuminismo.
La pigrizia
e la viltà sono le cause perché un cosí grande numero di uomini, dopo che la
natura li ha da un pezzo dichiarati liberi da direzione straniera (naturaliter
majorennes), restano tuttavia volentieri per tutta la vita minorenni; e
perché ad altri riesce cosí facile il dichiararsene i tutori. È cosí comodo
essere minorenne. Se io ho un libro che ha dell'intelletto per me, un direttore
spirituale che ha coscienza per me, un medico che giudica del regime per me e
cosí via, io non ho piú alcun sforzo da fare. Se pago, non ho piú bisogno di
pensare: c'è chi se ne prende la briga per me. E che la maggior parte
dell'umanità (tra cui tutto il bel sesso) tenga la liberazione non solo per
incomoda, ma anche pericolosa, è cura dei sopradetti tutori, i quali si sono
benignamente assunti la sovrintendenza. Dopo d'aver reso stupido il loro
bestiame e d'aver impiegato ogni cura perché questi tranquilli esseri non osino
muovere un passo fuori del carruccio da bambini, in cui li hanno chiusi, essi
mostrano loro in appresso il pericolo che li minaccia se s'arrischiano a
camminare da soli. Certo il pericolo non è grande e dopo qualche capitombolo
alla fine imparerebbero a camminare: ma un caso di questo genere li rende
timidi e li dissuade generalmente da ogni ulteriore tentativo.
È quindi
per ogni singolo cosa difficile l'uscire da questa tutela diventata quasi in
lui natura. Egli l'ha anzi presa in affezione ed è per il momento realmente
incapace di servirsi del suo intelletto, perché non vi è mai stato abituato. Le
regole e le formule, questi strumenti meccanici dell'uso razionale o piuttosto
dell'abuso dei suoi doni naturali, sono le catene che lo tengono in questa
perpetua tutela. Chi le gettasse lungi da sé, non farebbe anche sopra il piú
piccolo fosso che un salto malsicuro, perché non avvezzo a liberi movimenti.
Pochi sono perciò quelli che sono riusciti, per una autoeducazione del proprio
spirito, a liberarsi dalla tutela e tuttavia ad acquistare un incedere sicuro.
Piú facile
è che si illumini da sé una collettività; anzi è quasi, quando ne abbia la
libertà, inevitabile. Perché si trovano sempre, anche tra quelli preposti come
tutori della grande massa, alcuni che pensano da sé e che, dopo d'avere scosso
da sé il giogo della tutela, cercano di diffondere intorno a sé lo spirito d'un
razionale apprezzamento del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a
pensare da sé. Degno di nota è questo: che il pubblico, il quale è stato dai
suoi tutori sottoposto a questo giogo, costringe essi stessi in seguito a non
uscirne, quando venga a ciò aizzato da quelli, fra i suoi tutori, che sono
impenetrabili ad ogni illuminazione: tanto pericoloso è il seminare dei
pregiudizi, i quali alla fine si volgono contro quelli stessi o i successori di
quelli stessi, che li hanno seminati. Quindi un pubblico non può essere
illuminato che lentamente. Una rivoluzione potrà produrre la fine di un
despotismo personale e d'una oppressione cupida e dispotica; ma nuovi
pregiudizi serviranno, come gli antichi, a dirigere ciecamente la grande
moltitudine che non pensa.
Per questa
illuminazione non s'esige tuttavia altro che libertà e invero la piú innocente
di tutte le libertà: quella di fare pubblicamente uso del proprio intelletto in
tutti i punti. Io odo bene da tutte le parti esclamare: Non ragionate! Il
militare dice: Non ragionate, ma fate l'esercizio! L'agente delle tasse dice:
Non ragionate, ma pagate! Il prete dice: Non ragionate, ma credete! Qui abbiamo
tante limitazioni della libertà. Ora quale limitazione è contraria alla
illuminazione? E quale non vi è contraria, ma anzi vi contribuisce? Io
rispondo: il pubblico uso della ragione deve sempre essere libero ed esso solo
può servire ad illuminare gli uomini; l'uso privato della stessa deve invece
essere spesso molto strettamente limitato, senza che ciò particolarmente noccia
al progresso dell'illuminismo. Io intendo per uso pubblico della ragione quello
che uno ne fa, come studioso, dinanzi al pubblico dei lettori. Intendo
per uso privato l'uso che egli deve fare della propria ragione in un dato posto
od uffizio civile a lui affidato. In quelle pratiche, le quali riflettono il
pubblico interesse, è necessario un certo meccanismo, per virtú del quale
alcuni membri della comunità debbono comportarsi del tutto passivamente, affine
di poter essere indirizzati, per un artificioso accordo, verso le finalità
pubbliche o almeno essere trattenuti dalla loro distruzione. Qui certo non è
lecito ragionare: bisogna ubbidire. Ma in quanto questo membro del meccanismo
statale si considera come membro della comunità, anzi della umanità civile,
quindi in qualità di studioso, esso può benissimo ragionare senza che ne
soffrano gli affari, ai quali esso, come membro passivo, è applicato. Cosí
sarebbe esiziale se un militare, comandato dai superiori, volesse in servizio
apertamente ragionare sulla convenienza o sull'utilità dei comandi: egli deve
ubbidire. Ma non può equamente venir impedito, come studioso, di fare osservazioni
sulle deficienze del servizio bellico e di sottoporle al giudizio del pubblico.
Il cittadino non può rifiutarsi di pagare le imposte: anzi un biasimo
indiscreto, nell'atto che si paga, può essere punito come uno scandalo (che
potrebbe provocare una resistenza generale). Ma con tutto ciò lo stesso non
agisce contro il dovere di cittadino quando, come studioso, esprime
pubblicamente i suoi pensieri contro l'inopportunità ed anche l'ingiustizia di
tali imposizioni.
(P. Martinetti, Antologia
kantiana, Paravia, Torino, 1944, pagg. 212-214)